I Pantaloni di un rosa sbiadito

Finché c’è amore e memoria non c’è vera perdita

Danilo Littarru

Mi incuriosiva vedere questo film. Ho letto il libro, ascoltato diverse interviste di Teresa Manes, letto nelle sue parole il grande dolore di una madre che si è imbattuta in una tragedia che lacera l’anima e supera spazio e tempo. Mi sono immaginato il dolore di Andrea, le delusioni di un mondo che sognava differente e che invece si è dimostrato più ruvido di quanto potesse immaginare. Il peso che zavorrava la sua anima ha deciso che la scorciatoia migliore era il silenzio eterno. Andrea ha perso, cammin facendo, il gusto della vita a causa di una serie di eventi che hanno creato stratificazioni di dolore che chiudono prospettive e progetti.

Ecco immaginavo un film che facesse entrare dentro questo dolore, che scuotesse gli animi di una generazione affinché potesse riflettere ancora più approfonditamente sulle relazioni interpersonali, sul fraintendimento dell’amicizia, sulla ricerca di una definizione del sè, delle conseguenze derivate dalla disgregazione familiare, sull’importanza della parola capace a volte di ferire più di un proiettile, della sofferenza che può recare un comportamento che si ascrive alla superficialità mentre invece è un vero e proprio atto di iniquità.

Mi sarebbe piaciuto capire che pena spettasse al belloccio di turno, ambito e desiderato da tutti, capace di fare presa sugli attori principali della scena. Christian, come racconterà lo scenografo nel talk dedicato alle scuole, è stato il suo bullo, oggi sceso dal piedistallo e incapace di risalirci per via dei 20 kg di sovrappeso e di una vita che andata via via scemando verso un vuoto esistenziale. 

Pensavo, altresì, a quanto dolore abbiano provato i suoi amici, quelli veri, ammesso ne avesse, perché dal film, a parte la compagna dei sabati pomeriggio al cinema, non si evincono grandi rapporti sociali, gli insegnanti che quotidianamente vedevano Andrea dentro il banco che non si sono accorti del suo grande disagio. 

Immaginavo un film capace di tutto ciò, e invece per scelta (legittima) della regista si è voluto dare un taglio più leggero, aperto alla vita. Nulla da obiettare, ma si discosta notevolmente da quella che era la storia di Andrea, dagli atti di bullismo e cyberbullismo che ha subito soprattutto quando ha preso che sui social qualcuno si era divertivo a pubblicare le sue foto, a fare commenti sessisti e offensivi. 

Ho trovato un film sproporzionato nei tempi. La prima parte estremamente dettagliata, la seconda troppo veloce come se non si volesse soffermare sulla cruda realtà che Andrea viveva e che per ovvi motivi richiedono una condivisione empatica, come ad esempio la scena della festa organizzata a tradimento da quelli che Andrea reputava amici di cui potersi fidare.

Avrei voluto più incisività sul tema del bullismo e del cyberbullismo, perché sarebbe stata occasione unica per confrontarsi con un mondo, quello adolescenziale, che è diventato sempre di più fragile, ma al contempo spietato e cinico. Lo ha vissuto sulla sua pelle Leonardo Calcina, giovane di 15 anni, di Senigallia, vittima di insulti, umiliazioni e percosse da parte di alcuni compagni di scuola, che si è tolto la vita con la pistola del padre, agente della Polizia municipale meno di 20 giorni fa.

Tanti Andrea e Leonardo vivono oggi la durezza, l’impurità di relazioni disfunzionali perché stupidità e cattiveria possono essere un mix letale per un adolescente che si sta affacciando alla vita e non devono restare chiusi nel silenzio e nella paura per paura di giudizi e di ritorsioni. Parlare, condividere è l’unica ancora di salvezza, e a maggior ragione avrei voluto più forza nel rimarcare che non si è da soli se queste vicende vengono condivise con genitori, amici, insegnanti. 

Questa generazione ha necessità di messaggi forti che scuotano le coscienze troppo allineate a logiche di immagine e dell’apparire, che segua modelli comportamentali “alternativi” fondati sull’ascolto, sulla riflessione e sull’interiorità. 

L’individualismo esasperato, la ricerca smisurata di affermazione e di consenso, conduce a derive nichiliste dove il disumano, nonostante le ripetute lezioni della storia, prende il sopravvento sull’umano.

Su questo era doveroso incidere di più, considerato il vasto pubblico adolescenziale.