DANILO LITTARRU

Il Natale è una festa di precetto. Nasce Cristo, l’unto di Dio, che sceglie la semplicità di una grotta per compiere un progetto destinato a cambiare le sorti dell’umanità.
Che Dio controverso, questo: un Dio che sceglie di percorrere la strada più ardua, quella del paradosso e dell’incomprensione, che richiede non solo un atto di fede, ma anche un atto di profonda ragione.
Il bambino rifiutato dai proprietari delle mangiatoie è lo stesso che vivrà il rifiuto della folla, la quale sceglierà Barabba, e che cadrà sul pietrisco indurito del Golgota, ferito e tumefatto, con le orbite oculari violacee. Non riesce a vedere, ma riesce a sentire la voce di una Madre addolorata che si dispera e si dimena, perché sa che non ci sono mani capaci di sorreggere il figlio. Anche lei, tuttavia, deve inerpicarsi lungo i tornanti del dolore, affinché si possa compiere la storia della salvezza.
È nel gioco degli estremi che si snoda la vittoria dell’uomo, liberato da sovrastrutture liturgiche, materiali e morali. Il pargolo nudo, avvolto in fasce e adagiato sulla soffice paglia, è lo stesso che, nudo, sarà inchiodato su un legno anonimo, destinato a profumare di resina e santità per i secoli dei secoli.
Solo. Solo davanti agli interrogativi, solo davanti alla paura e al terrore di essere abbandonato.
La nascita di Gesù ci insegna proprio questo: essere soli, saper attendere, leggere oltre i luoghi comuni. Ci insegna che nella semplicità delle cose si possono tessere arazzi di santità e di testimonianza.
