Autore: admin

  • Giovani e infertilità: il peso nascosto di alcol e cannabis

    Giovani e infertilità: il peso nascosto di alcol e cannabis

    Infertilità giovanile: un problema crescente

    L’infertilità non è un tema di nicchia ma una realtà che riguarda una persona su sei nel corso della vita (WHO, 2023). Non parliamo di morale o stili di vita “giusti” o “sbagliati”, ma di biologia riproduttiva: l’ambiente e le abitudini incidono direttamente sulla capacità di concepire. Tra i fattori a più alta prevalenza tra i giovani spiccano alcol e cannabis, sostanze spesso sottovalutate quando si discute di fertilità.

    Cannabis e fertilità: il lato oscuro del THC

    Nelle donne

    Uno studio pubblicato su Nature Communications (2025) ha rilevato la presenza di THC nel fluido follicolare di pazienti sottoposte a PMA. Il risultato? Alterazioni del fuso meiotico e riduzione dell’euploidia embrionale, cioè un aumento di embrioni con anomalie cromosomiche e minori possibilità di impianto. Ciò significa che anche esposizioni non quotidiane possono compromettere la qualità ovocitaria.

    Negli uomini

    La cannabis colpisce soprattutto la qualità del DNA spermatico. Una ricerca del 2024 su PLOS ONE ha dimostrato che il THC influenza la struttura epigenetica dello sperma, con ripercussioni sulla qualità embrionale. Altri studi segnalano un aumento della frammentazione del DNA e difetti nella compattazione cromatinica, con conseguente riduzione della motilità e della capacità fecondante.

    In sintesi: la cannabis interferisce con i meccanismi più delicati della riproduzione: meiosi ovocitaria, euploidia embrionale e integrità del genoma spermatico.

    Alcol e fertilità: conta il “quando” e il “quanto”

    Nelle donne

    La finestra più critica è la fase luteale e peri-ovulatoria. Studi prospettici dimostrano che anche un consumo moderato di alcol in questi momenti riduce significativamente la probabilità di concepimento. Il binge drinking peggiora ulteriormente il quadro, influenzando sia l’ovulazione sia la recettività endometriale.

    Negli uomini

    Per l’uomo il fattore determinante è la cumulatività. Il consumo cronico riduce i livelli di testosterone, altera la funzione delle cellule di Sertoli e Leydig e peggiora i parametri seminali (volume, concentrazione, motilità e morfologia). Lo stress ossidativo indotto dall’alcol è uno dei principali responsabili del danno a carico degli spermatozoi.

    Meccanismi biologici alla base

    • Cannabis: il THC altera il sistema endocannabinoide, che regola ovulazione, maturazione ovocitaria e capacità fecondante dello sperma. Interferisce con la meiosi femminile e modifica epigeneticamente il genoma maschile.
    • Alcol: provoca stress ossidativo e interferenze sull’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, compromettendo equilibrio ormonale, spermatogenesi e ovulazione.

    Questi processi non sono “opinioni”, ma risposte fisiologiche misurabili, documentate dalle ricerche più recenti.

    Domande frequenti (e risposte scientifiche)

    • “Una canna nel weekend incide?” Sì: anche esposizioni episodiche sono correlate a minore euploidia embrionale e danno spermatico.
    • “Il vino a cena è pericoloso?” Se consumato nella fase luteale/ovulatoria femminile può ridurre le probabilità di concepimento. Negli uomini gli effetti emergono soprattutto con consumi cronici.
    • “Esistono soglie sicure?” Gli studi non definiscono un limite privo di rischio: la raccomandazione clinica resta l’astensione in fase di ricerca gravidanza o PMA.

    Indicazioni pratiche in fase pre-concezionale

    • Cannabis: astensione per almeno 3 mesi negli uomini (ciclo completo di spermatogenesi) e totale sospensione nelle donne in pre-concepimento e PMA.
    • Alcol: astensione femminile in fase luteale e ovulatoria, riduzione drastica o eliminazione negli uomini con consumo cronico.
    • Counselling clinico: valutazioni su DNA spermatico, riserva ovarica e ormoni sessuali nei giovani esposti ad alcol o cannabis.

    Numeri chiave

    • 1 su 6: adulti che affrontano infertilità (WHO).
    • THC nel follicolo: associato a meno embrioni euploidi (2025).
    • THC sullo sperma: aumenta danno epigenetico e frammentazione del DNA (2024).
    • Alcol in luteale: anche a dosi moderate riduce la probabilità di concepimento.

    Conclusioni

    La ricerca scientifica ci dice chiaramente che non esistono sostanze “neutre” in fase riproduttiva. Cannabis e alcol non vanno interpretati come vizi morali, ma come variabili biologiche che incidono sul destino riproduttivo di molti giovani. Investire in prevenzione, consapevolezza e corretta informazione significa non solo aumentare le chance di concepimento, ma anche garantire benessere psicologico e sanitario alle nuove generazioni.

  • Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Introduzione

    Secondo l’UNESCO (2023) oltre il 60% dei Paesi europei ha introdotto restrizioni all’uso del cellulare in classe. Anche in Italia, il dibattito si è acceso: il divieto è una misura educativa o un’imposizione coercitiva? Per gli adolescenti, lo smartphone non è un semplice strumento tecnologico, ma una vera estensione del sé, tanto che le neuroscienze parlano di “protesi cognitiva e identitaria”.

    Il divieto di cellulare nella mente dell’adolescente

    Per lo studente delle scuole secondarie, il cellulare rappresenta:

    • Connessione sociale: chat e social come spazi vitali di appartenenza.
    • Autonomia percepita: possibilità di scegliere, comunicare, affermarsi.
    • Rifugio emotivo: un modo per sedare ansia e noia.

    Quando interviene il divieto, scatta un conflitto: da un lato la necessità dell’adulto di creare un ambiente di concentrazione, dall’altro la percezione di una limitazione della libertà personale. Studi di Przybylski e Weinstein (2017) parlano di “fear of missing out” (FoMO), ossia la paura di essere esclusi dalle interazioni sociali digitali, che può aumentare l’ansia negli adolescenti.

    Utilità educativa: cosa dicono gli studi

    Il divieto non è solo una misura disciplinare: ha basi scientifiche.

    • Concentrazione: Rosen, Carrier e Cheever (2013) hanno dimostrato che anche brevi interruzioni dovute al cellulare riducono del 20% la capacità di memorizzazione.
    • Apprendimento profondo: un report dell’OECD (2015) evidenzia che un uso eccessivo dei dispositivi digitali in classe è correlato a peggiori risultati scolastici in matematica e lettura.
    • Benessere psicologico: lo studio di Twenge e Campbell (2018) mostra una correlazione tra uso intensivo dello smartphone e sintomi depressivi negli adolescenti, suggerendo l’importanza di momenti di disconnessione.

    Perché è percepito come coercizione

    • Assenza di dialogo: il divieto viene comunicato spesso come regola e non come progetto educativo condiviso.
    • Identità digitale: lo smartphone è parte integrante della costruzione di sé nell’adolescenza.
    • Relazione adulti–studenti: quando non c’è mediazione, la misura appare come un controllo autoritario.

    La chiave sta nella pedagogia del limite: spiegare che un confine non è una negazione, ma uno spazio che permette di crescere.

    Strategie educative alternative

    Il divieto ha senso se integrato in un percorso:

    • Educazione digitale: insegnare uso critico e consapevole dei social.
    • Zone e tempi di disconnessione: creare momenti dedicati all’apprendimento senza dispositivi.
    • Coinvolgimento degli studenti: costruire regole condivise aumenta l’adesione.
    • Supporto psicologico: aiutare gli studenti a gestire ansia e FoMO.

    Linee guida e buone pratiche

    In Europa, la Francia ha introdotto nel 2018 il divieto di cellulare nelle scuole primarie e secondarie, con risultati positivi sulla concentrazione. L’Italia segue una linea più flessibile, demandando alle scuole la regolamentazione interna. Le Linee guida del MIUR (2022) sottolineano l’importanza di un uso “didatticamente orientato” delle tecnologie, non la loro demonizzazione.

    Conclusione

    Il divieto di cellulare a scuola può essere letto come coercizione se resta solo una regola imposta. Ma se accompagnato da spiegazioni, attività educative e spazi di confronto, diventa occasione di crescita. La sfida non è eliminare la tecnologia, ma insegnare a usarla con consapevolezza. Come scriveva Umberto Eco, “le nuove tecnologie non sono buone né cattive, dipende dall’uso che se ne fa”.

  • “Bambini senza piazze: il futuro rubato al gioco”.

    “Bambini senza piazze: il futuro rubato al gioco”.

    Introduzione

    Le piazze, i parchi e i cortili un tempo erano il cuore pulsante del gioco infantile. Oggi, invece, quegli stessi spazi vengono progressivamente colonizzati da tavolini, dehors e attività commerciali. Il risultato è un impoverimento silenzioso, ma drammatico, per le nuove generazioni: la perdita del gioco libero, spontaneo, non mediato dagli adulti.

    Il valore del gioco libero

    Il gioco libero rappresenta una dimensione pedagogica irrinunciabile:

    • permette di sperimentare regole e conflitti, senza un adulto a fare da giudice;
    • stimola la creatività e la capacità di adattamento;
    • favorisce l’aggregazione sociale spontanea, creando comunità tra pari;
    • sviluppa resilienza, perché il rischio – cadere, litigare, sbagliare – diventa palestra di crescita.

    Non si tratta soltanto di divertimento: è una palestra educativa naturale che plasma il carattere e le competenze sociali di bambini e adolescenti.

    La paura che soffoca la libertà

    Negli ultimi decenni la società occidentale ha sviluppato una forma di paura diffusa: si vedono pericoli ovunque, si immaginano minacce dietro ogni angolo. Per rispondere a questa ansia collettiva, gli adulti hanno ipercontrollato i luoghi e i tempi del gioco.

    Così, il bambino non gioca più nella piazza, ma nel campo sportivo organizzato. Non inventa regole, ma segue quelle codificate da un istruttore. Non costruisce avventure, ma partecipa ad attività strutturate e a pagamento.

    Questa trasformazione ha un costo: il prezzo della sicurezza assoluta è la perdita dell’autonomia, della creatività, della capacità di affrontare l’imprevisto.

    Le conseguenze psicologiche e sociali

    Oggi ne vediamo già le conseguenze:

    • adolescenti chiusi in casa, rifugiati nel digitale;
    • giovani meno capaci di gestire conflitti reali;
    • una crescita di fragilità psicologica, ansia e insicurezza;
    • una perdita di radicamento comunitario: la città non è più un luogo da abitare, ma da consumare.

    Restituire spazi al gioco libero

    Restituire ai bambini le piazze e i parchi non è un vezzo nostalgico, ma una necessità pedagogica e psicologica.
    Serve una politica urbanistica e sociale che ridia fiato all’infanzia, che liberi spazi dai tavolini del business e li restituisca al gioco, all’aggregazione, alla vita.

    Un bambino che gioca liberamente costruisce cittadinanza, fiducia e comunità. E una società che glielo permette, investe nel suo futuro.

  • “Stefano Benni, la scomparsa e l’eredità di Margherita Dolcevita”.

    “Stefano Benni, la scomparsa e l’eredità di Margherita Dolcevita”.

    Ci sono romanzi che, con leggerezza apparente, affondano le mani nel cuore della contemporaneità, smascherandone le fragilità e i cortocircuiti. Margherita Dolcevita (Feltrinelli, 2005) di Stefano Benni è uno di questi: un libro ironico e struggente, che si legge come una favola nera capace di parlare tanto agli adulti quanto agli adolescenti.

    La protagonista è Margherita, detta “Dolcevita”: quattordici anni, cuore generoso, spirito ribelle e uno sguardo acuto che decifra i silenzi degli adulti meglio delle loro parole. Vive in una famiglia eccentrica, tratteggiata con la consueta vena caricaturale di Benni: il padre disilluso, la madre ossessiva, il fratello tecno-dipendente, il nonno visionario. Un microcosmo che riflette, in forma grottesca e poetica, la società italiana sospesa tra consumismo, perdita di valori e omologazione.

    Il romanzo si anima con l’arrivo dei “Del Bene”, misteriosi vicini che incarnano un capitalismo scintillante e predatorio. Case perfette, sorrisi di plastica, promesse di benessere assoluto: dietro la facciata, la voragine dell’alienazione. Margherita, con il suo occhio critico e la sua sensibilità ferita, diventa coscienza e resistenza: la sua adolescenza non è un’età spensierata, ma il luogo drammatico in cui si combatte la lotta per l’anima della società.

    Lo stile di Benni alterna lirismo e comicità, favola e satira sociale. La lingua, intrisa di invenzioni, calembour e iperboli, costruisce una narrazione che sa far ridere e, nello stesso tempo, inquietare. Il lettore avverte, sotto la risata, la malinconia di un mondo che rischia di spegnersi nella sua stessa iperconnessione e nei suoi falsi bisogni.

    Margherita Dolcevita è una metafora attualissima dell’adolescenza e del nostro tempo: ci ricorda che crescere significa difendere la propria capacità di sognare, senza cedere alle sirene del conformismo. È un libro che genitori, educatori e terapeuti dovrebbero leggere per comprendere lo sguardo ferito e insieme lucido delle nuove generazioni.

    Con la scomparsa di Stefano Benni, avvenuta oggi, 9 settembre 2025, a Bologna, si chiude un capitolo luminoso della letteratura italiana contemporanea. Aveva 78 anni e da tempo lottava contro una lunga e invalidante malattia.

    Addio, ad uno scrittore che non salì mai in cattedra, che amava sorprenderci con neologismi, iperboli, paradossi e invenzioni linguistiche — un autore che ha saputo rendere la satira culturale un atto d’amore per il mondo e per la parola. Che il suo lascito continui, in ogni frase letta ad alta voce, a farci ridere, a indurci a guardare il mondo con occhi più acuti, più solidali, più vivi.

    “Noi siamo quello che sembriamo ma non sempre sembriamo quello che pensiamo di sembrare.”

    Stefano Benni 12 Agosto 1947 – 9 Settembre 2025

  • Psicologia e tradizioni popolari: perché crediamo nei rituali magici?

    Psicologia e tradizioni popolari: perché crediamo nei rituali magici?

    Introduzione

    Dal malocchio agli amuleti, dalle formule segrete alle superstizioni quotidiane: l’essere umano, in tutte le culture, ha creato rituali per proteggersi da ciò che non può controllare.
    Ma perché crediamo così facilmente a queste pratiche? Perché siamo disposti a piegare le nostre decisioni a riti e credenze, pur di sentirci dire ciò che, inconsciamente, desideriamo?

    Malocchio e bisogno di controllo

    Il malocchio è uno degli esempi più diffusi di credenza popolare: uno sguardo carico d’invidia o cattiva intenzione capace di “colpire” la vittima.
    La psicologia spiega questo fenomeno come strategia di riduzione dell’incertezza. Quando la vita sembra fuori controllo, il cervello tende a “vedere” connessioni anche dove non ci sono. Whitson e Galinsky (2008) hanno dimostrato che la mancanza di controllo aumenta la percezione di pattern inesistenti: un meccanismo che alimenta superstizioni e rituali.

    La forza del rituale: placebo e suggestione

    Quando una persona “si fa togliere l’occhio” attraverso acqua, olio o formule segrete, spesso sperimenta un reale sollievo. Perché?
    Entra in gioco la risposta placebo. Come spiega Fabrizio Benedetti (2005), il contesto simbolico di cura può attivare nel cervello sistemi neurochimici legati a dopamina e oppioidi endogeni, generando benessere autentico. Non è “solo credere”: è un effetto biologico innescato da aspettative e ritualità.

    Il potere delle parole

    Un altro fattore decisivo è la psicologia del riconoscimento. Le persone si sentono attratte da chi sa dire ciò che inconsciamente vogliono sentire: che il male non dipende da loro, che c’è una spiegazione esterna, che esiste un rimedio accessibile.
    È lo stesso meccanismo che rafforza gli oroscopi o i consigli “magici”: dare un nome all’angoscia e trasformarla in una narrazione condivisibile. Come notava Clifford Geertz, l’uomo ha bisogno di sistemi simbolici per dare senso al dolore e all’incertezza.

    Norme sociali e conformità

    Le credenze popolari non vivono solo nella mente individuale: sono pratiche sociali. Adeguarsi al rito significa restare parte della comunità. Gli esperimenti sulla conformità (Asch, 1951 e repliche moderne) dimostrano che le persone preferiscono spesso sbagliarsi insieme agli altri piuttosto che avere ragione da sole. Così il rituale diventa anche un codice di appartenenza.

    Psicologia antropologica: cosa ci incastra davvero?

    Questi rituali funzionano perché intrecciano diversi livelli:

    • Psicologico: riducono ansia e offrono sollievo simbolico.
    • Biologico: attivano meccanismi placebo che influenzano corpo e mente.
    • Antropologico: rafforzano identità e coesione sociale.
    • Fenomenologico: sono esperienze incarnate, vissute nel corpo come liberazione.

    In altre parole, crediamo perché il rito parla contemporaneamente alla nostra psiche, al nostro corpo e al nostro bisogno di comunità.

    Conclusione

    Il malocchio, la medicina dell’occhio, gli amuleti: non sono semplici superstizioni, ma strumenti culturali che hanno dato all’uomo la possibilità di sentirsi meno solo di fronte al dolore. La psicologia ci mostra che ciò che chiamiamo “magia” è spesso una risposta sofisticata al bisogno di significato e appartenenza.
    E allora la domanda diventa: davvero siamo così lontani da quei rituali? O continuiamo, ogni giorno, a cercare qualcuno che ci dica esattamente quello che vogliamo sentire?

  • Sbadiglio e scuola: quando il cervello chiede una pausa

    Sbadiglio e scuola: quando il cervello chiede una pausa

    Oltre la noia: un segnale da interpretare

    In classe lo sbadiglio viene spesso letto da insegnanti e compagni come sinonimo di noia o disinteresse. Ma le neuroscienze educative ci dicono che non è così semplice: lo sbadiglio può essere un indice di sovraccarico cognitivo.

    Uno studente che segue una lezione frontale lunga, in un’aula rumorosa e con richieste multiple, sta consumando molte risorse attentive. Lo sbadiglio diventa allora un atto di autoregolazione fisiologica, simile a una valvola di sfogo, per segnalare che la mente ha bisogno di una pausa.

    Evidenze scientifiche sullo sbadiglio

    Diversi studi hanno approfondito la funzione neurocognitiva dello sbadiglio. Andrew C. Gallup (2014) ha ipotizzato che lo sbadiglio sia un meccanismo di termoregolazione cerebrale, utile a raffreddare il cervello sotto stress cognitivo. Smith e colleghi (2021) hanno osservato che gli studenti sbadigliano più frequentemente in condizioni di compiti attentivi prolungati, specialmente quando la lezione supera i 30-40 minuti senza pause. Altri lavori (Eldakar & Gallup, 2012) hanno collegato lo sbadiglio a processi di sincronizzazione sociale: in classe, lo sbadiglio di uno studente può innescare una risposta simile negli altri, segnalando un calo collettivo dell’attenzione.

    Questi dati confermano che lo sbadiglio non è un semplice atto riflesso, ma un indice sensibile di sovraccarico cognitivo e stato attentivo, con implicazioni dirette nella progettazione didattica.

    Carico cognitivo e apprendimento

    La teoria del carico cognitivo (Sweller, 1988) applicata alla scuola ci ricorda che la memoria di lavoro ha limiti precisi: se il flusso di informazioni è troppo denso, l’apprendimento si blocca.
    Lo sbadiglio in classe, quindi, può dirci che:

    • la lezione è troppo lunga o monotona,
    • le strategie didattiche non alternano abbastanza canali (uditivo, visivo, motorio),
    • lo studente sta vivendo un sovraccarico sensoriale (tipico in alcuni alunni con ADHD o ASD).

    Didattica e autoregolazione

    Cosa possono fare gli insegnanti?

    • Prevedere micro-pause: anche solo 2 minuti di movimento o respirazione.
    • Variare il ritmo didattico: spiegazione, attività breve, confronto.
    • Accogliere i segnali corporei (sbadiglio, irrequietezza, perdita di attenzione) come indicatori di limite cognitivo, non come “maleducazione”.
    • Favorire strategie di autoregolazione: insegnare agli studenti che lo sbadiglio è un segnale utile, non qualcosa da reprimere.

    Una prospettiva inclusiva

    Nella scuola inclusiva, osservare i comportamenti fisiologici come lo sbadiglio significa leggere i bisogni dietro i gesti. Per un alunno con DSA o ADHD, ad esempio, sbadigliare ripetutamente non vuol dire disinteresse, ma “sto faticando a tenere il passo”.
    Riconoscerlo permette di adattare la lezione e di rispettare i tempi di apprendimento di ciascuno.

  • Educare alla sessualità: oltre il consumo, verso una relazione autentica

    Educare alla sessualità: oltre il consumo, verso una relazione autentica

    Introduzione

    L’educazione alla sessualità in adolescenza costituisce una delle sfide più delicate e decisive della scuola e della famiglia contemporanea. Lungi dall’essere mera trasmissione di nozioni biologiche o precauzioni igienico-sanitarie, essa richiede un’antropologia di riferimento capace di orientare la persona verso una maturazione integrale, dove la sessualità non sia ridotta a consumo, ma riconosciuta come linguaggio di relazione, crescita e condivisione.

    Antropologia relazionale come fondamento

    L’adolescente, posto di fronte alle trasformazioni corporee e identitarie, ricerca significati profondi attraverso la propria esperienza affettiva. È qui che una visione antropologica relazionale diviene imprescindibile: l’essere umano non si definisce solo in termini di istinto, ma come soggetto in relazione, in cui l’incontro con l’altro rappresenta un cammino di crescita reciproca.
    La sessualità, in tale prospettiva, non è un atto isolato, ma la conseguenza di dinamiche di fiducia, comunicazione e riconoscimento reciproco.

    Il rischio del consumismo sessuale precoce

    I dati epidemiologici confermano un abbassamento progressivo dell’età del primo rapporto sessuale (in Italia tra i 15 e i 16 anni, ISTAT 2023). Parallelamente, si registra un aumento di comportamenti a rischio, dal sexting all’esposizione precoce a contenuti pornografici. Questo fenomeno, che potremmo definire consumismo sessuale precoce, veicola un messaggio illusorio: la sessualità come oggetto di mercato e non come incontro esistenziale.
    Tale dinamica produce fragilità psichiche, compromettendo lo sviluppo di una sana capacità di scelta e di elaborazione affettiva.

    La scuola come spazio educativo privilegiato

    La scuola, lungi dall’essere luogo neutro, rappresenta un laboratorio di convivenza e di crescita. L’educazione alla sessualità non può limitarsi a interventi occasionali, ma deve inserirsi in un progetto formativo coerente, capace di integrare dimensioni psicologiche, etiche, corporee e sociali.
    Si tratta di promuovere una pedagogia della responsabilità, dove il corpo non sia ridotto a oggetto, ma riconosciuto come dimensione essenziale della persona, dotata di dignità e potenzialità relazionali.

    Verso una sessualità come linguaggio di vita

    Educare significa restituire ai ragazzi la possibilità di comprendere che la sessualità non è il punto di partenza, bensì l’approdo di una relazione che ha già conosciuto la cura, la fiducia e il rispetto. Solo in questo orizzonte l’atto sessuale perde il carattere consumistico e diviene esperienza di autentica reciprocità.
    L’adolescente che impara a leggere la sessualità come narrazione di sé e dell’altro sarà un adulto più capace di vivere la propria intimità con responsabilità e libertà interiore.

  • Il complesso edipico: genealogia psicoanalitica di un paradigma fondativo

    Il complesso edipico: genealogia psicoanalitica di un paradigma fondativo

    Introduzione

    Il complesso edipico rappresenta una delle strutture cardine della teoria psicoanalitica freudiana e continua a costituire un dispositivo ermeneutico imprescindibile nello studio dello sviluppo psicodinamico infantile. Introdotto da Sigmund Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) e successivamente rielaborato in scritti più maturi, il concetto assume valenza universale nell’esplicitare i processi attraverso cui il soggetto costruisce la propria identità, la dimensione della legge e il rapporto con la desiderabilità dell’Altro.

    Definizione tecnica

    Il complesso edipico designa l’insieme di fantasie inconsce e di investimenti libidici che il bambino, attorno ai 3-6 anni, rivolge nei confronti del genitore di sesso opposto, vissuto come oggetto privilegiato di amore e desiderio. Parallelamente, il genitore dello stesso sesso viene percepito come rivale e ostacolo, catalizzando sentimenti ambivalenti di ostilità, gelosia e al contempo di identificazione.

    Dal punto di vista tecnico, tale dinamica costituisce la matrice originaria del Super-Io, in quanto l’interiorizzazione della figura genitoriale frustrante o proibente determina la costruzione delle istanze morali e normative che regolano la vita psichica adulta.

    Dimensione simbolica e strutturale

    Il complesso edipico non è riducibile a un mero conflitto pulsionale. Esso si configura piuttosto come nucleo strutturante della soggettività, nella misura in cui introduce il bambino all’ordine simbolico, al riconoscimento del limite e alla necessità della rinuncia pulsionale. Come sottolinea Jacques Lacan, l’Edipo va interpretato non solo come vicenda familiare, bensì come “funzione del Nome-del-Padre”, ossia la possibilità di accesso al linguaggio, alla legge e al desiderio mediato dall’Altro.

    Aspetti evolutivi e clinici

    Lo scioglimento del complesso edipico, che avviene normalmente intorno alla latenza (6-11 anni), rappresenta un passaggio imprescindibile verso l’acquisizione di una identità sessuata stabile e di una più complessa organizzazione relazionale.
    In psicopatologia, fissazioni o regressioni a tale fase possono manifestarsi in diverse configurazioni:

    • nevrosi ossessive, nelle quali la colpa edipica permane come nodo irrisolto;
    • disturbi dell’identità e difficoltà nelle relazioni oggettuali;
    • configurazioni di dipendenza o di rivalità patologica.

    Attualità del concetto

    Nonostante le critiche provenienti da approcci post-freudiani, femministi e neuroscientifici, il concetto mantiene una forza esplicativa significativa. Recenti studi interculturali (Shweder, 2003; Chodorow, 2012) dimostrano come la dinamica edipica si presenti con modulazioni differenti nei vari contesti sociali, ma permanga come struttura simbolica universale nell’organizzazione del desiderio e dell’interdizione.

    Conclusione

    Il complesso edipico, lungi dall’essere un relitto teorico, resta una chiave interpretativa fondamentale per la comprensione del divenire soggettivo, delle dinamiche familiari e delle configurazioni cliniche. La sua attualizzazione nel contesto odierno richiede uno sguardo comparativo e transculturale, capace di integrare i paradigmi psicoanalitici con le neuroscienze affettive e la psicologia dello sviluppo.

  • Disturbo Oppositivo Provocatorio nei bambini e negli adolescenti.

    Disturbo Oppositivo Provocatorio nei bambini e negli adolescenti.

    Il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) è una delle sfide educative più complesse che i genitori possano affrontare. Non si tratta di semplici “capricci”, ma di un quadro clinico caratterizzato da comportamenti oppositivi, provocatori e polemici che logorano la vita familiare e scolastica. Molti genitori arrivano allo studio dello psicologo con la stessa domanda: “Come si spegne la polemica? Dobbiamo dire sempre sì, anche quando non dovremmo?”

    La risposta è no: dire sempre sì non aiuta, ma nemmeno lo scontro continuo è la strada. Serve un approccio educativo basato su fermezza calma, regole chiare e strategie comunicative efficaci.

    Disturbo Oppositivo Provocatorio in età infantile

    Nei bambini piccoli il DOP si manifesta con:

    • rifiuto di eseguire compiti semplici,
    • opposizione sistematica agli adulti,
    • scoppi d’ira frequenti,
    • sfida costante alle regole.

    In questa fase la gestione passa soprattutto dal contenimento emotivo e dall’insegnare gradualmente la tolleranza alla frustrazione.

    Disturbo Oppositivo Provocatorio in adolescenza

    Quando il DOP arriva all’adolescenza, la situazione si complica. L’oppositività si intreccia con la fisiologica ricerca di autonomia tipica di questa età.

    Caratteristiche principali in adolescenza:

    • Sfide più forti: i “no” diventano aperti atti di ribellione, spesso davanti ai pari o agli insegnanti.
    • Conflitti familiari accesi: ogni regola diventa terreno di scontro, con escalation che possono degenerare in rottura del dialogo.
    • Rischi maggiori: aumento della possibilità di comportamenti a rischio (uso di sostanze, bullismo, abbandono scolastico).
    • Autostima fragile: dietro la rabbia c’è spesso un senso di inadeguatezza non riconosciuto.

    Strategie educative per genitori di adolescenti con DOP

    1. Regole poche ma chiare – un adolescente con DOP non tollera il controllo costante, ma ha bisogno di confini stabili.
    2. Dialogo senza prediche – comunicare in modo diretto, evitando sermoni infiniti che innescano la sfida.
    3. Responsabilità condivisa – coinvolgere l’adolescente nella definizione delle regole aumenta la percezione di controllo.
    4. Gestione della rabbia – insegnare tecniche di autoregolazione emotiva (respirazione, sport, musica, attività creative).
    5. Alleanza con la scuola – fondamentale un fronte educativo comune tra docenti e genitori.

    Consigli pratici per spegnere la polemica

    • Evitare di reagire alle provocazioni con urla.
    • Usare il sì condizionato (“Sì, puoi uscire… quando hai finito lo studio”).
    • Rinforzare i comportamenti positivi anche se minimi.
    • Restare calmi e non alimentare la spirale di sfida.
    • Cercare un supporto psicologico specializzato quando il conflitto supera la gestione familiare.

    Conclusione

    Il Disturbo Oppositivo Provocatorio, sia nei bambini sia negli adolescenti, non si affronta con il “sì” a tutti i costi, ma con no coerenti, regole chiare e capacità di mantenere la calma. Nell’adolescenza la sfida è più complessa, ma anche più decisiva: gestire la ribellione senza spegnere la personalità significa trasformare il conflitto in un percorso di crescita.

  • Un nuovo anno scolastico

    Un nuovo anno scolastico

    Pensieri sparsi per gli insegnanti.

    Caro collega

    l’inizio di un nuovo anno scolastico porta con sé più interrogativi che certezze. La scuola italiana si trova oggi a fronteggiare sfide complesse e inedite, che interpellano tanto la pedagogia quanto la politica educativa.

    Le recenti indicazioni del Ministro Valditara pongono attenzione a due nodi cruciali: l’uso regolamentato degli smartphone e l’ingresso dell’intelligenza artificiale nei processi formativi. Sono strumenti che non possono essere liquidati come nemici, ma che devono essere governati con consapevolezza: la loro presenza chiede di ripensare metodi, contenuti e ruoli educativi.

    Neurodivergenze e ansia scolastica

    Sempre più evidenti sono i bisogni legati alle neurodivergenze e al diffondersi dell’ansia scolastica. Non si tratta di emergenze isolate, ma di fenomeni strutturali che chiedono di riformulare le programmazioni didattiche con maggiore flessibilità. La scuola è chiamata a diventare realmente inclusiva, capace di piegarsi senza spezzarsi.

    In questo senso, ciascun docente dovrebbe sentirsi, almeno in parte, insegnante di sostegno: non per sostituirsi a figure specialistiche, ma per riconoscere che la conoscenza cresce soltanto se trova terreno fertile nella relazione educativa.

    La questione della dignità

    C’è poi un capitolo che riguarda da vicino la condizione degli insegnanti: gli stipendi. L’Italia resta in ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Non è una questione meramente economica: più risorse significano più dignità professionale, più tempo per la formazione, più possibilità di crescita.

    Occorrerebbe introdurre un diritto a un anno sabbatico ogni sette, destinato all’aggiornamento, allo studio e alla ricerca. Sarebbe un investimento sulla qualità dell’istruzione, non un privilegio individuale.

    Una riflessione conclusiva

    Italo Calvino scriveva: «La scuola è il luogo dove si impara a leggere il mondo e a scriverlo di nuovo».
    Questa è la vera sfida: preservare la missione educativa della scuola italiana, rinnovandola senza tradirne il senso profondo.