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  • Un padre, un figlio e l’anoressia…

    Un padre, un figlio e l’anoressia…

    Anche stavolta Matteo Bussola si è superato. Nell’ultimo lavoro La neve in fondo al mare, si percepisce la capacità di far vibrare l’anima del lettore attraverso trame che si collocano tra la narrativa contemporanea più raffinata e la riflessione esistenziale più profonda in un movimento sincrono tra le pieghe delle relazioni umane, della memoria e della perdita.

    Il racconto, rimandando al paradosso del processo adolescenziale consente di identificarsi, alternativamente, con adolescenti alle prese con la costruzione della propria identità e con i loro genitori, che cercano faticosamente una nuova grammatica comunicativa capace di arrivare al cuore di una pragmatica comportamentale che spesso lascia spiazzati.


    Ogni pagina è una finestra aperta sull’anima dei protagonisti, sulle loro paure e sui loro sogni che regalano al lettore una profonda immedesimazione. Così parla d’amore, di distanze affettive, di ciò che si perde e di ciò che resta nel fluire del tempo. C’è una forte attenzione ai dettagli, ai gesti, a quegli istanti che, seppur fugaci, racchiudono l’essenza della vita di un genitore.

    Son tematiche esistenziali complesse che Bussola affronta senza mai cadere nella retorica ma con una capacità di accarezzare le emozioni del lettore con la grazia e la delicatezza di fiocchi di neve che si poggiano al suolo. confermandosi un maestro nell’arte di raccontare la vita nelle sue sfumature più intime e universali.

    È un libro che consiglio perché dietro ogni riga c’è la capacità di lasciare un’impronta convinta che apre alla speranza perché l’amore porta sempre con sé una rinascita.

  • Un romanzo tra mistero, neurodiversità e crescita personale

    Un romanzo tra mistero, neurodiversità e crescita personale

    Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (The Curious Incident of the Dog in the Night-Time) è un’opera singolare e innovativa da Mark Haddon. Il romanzo, vincitore di numerosi premi, si distingue per la sua narrazione atipica e per la straordinaria prospettiva del protagonista, che offre al lettore un accesso privilegiato a una mente che opera secondo logiche peculiari e affascinanti.

    Christopher Boone è un quindicenne dalla spiccata intelligenza logico-matematica, ma con un’evidente difficoltà nel comprendere le dinamiche sociali ed emotive degli altri.Sebbene il testo non menzioni esplicitamente alcuna diagnosi, le caratteristiche di Christopher rimandano a quelle della sindrome di Asperger, una forma dello spettro autistico.

    Il suo rapporto con il mondo è problematico: odia essere toccato, detesta il giallo e marrone, si arrabbia se viene scombinato il suo ordine. Non riesce neppure a interpretare l’espressione del viso delle persone. Haddon riesce a tratteggiare con rara sensibilità la visione del mondo di chi interpreta la realtà secondo schemi assoluti, privi di sfumature emotive. Vive con il padre a Swindon, in Inghilterra, e un giorno si imbatte in un macabro mistero: Wellington, il cane della vicina, è stato ucciso con un forcone.

    Ispirato dal suo eroe letterario, Sherlock Holmes, Christopher decide di indagare, annotando ogni dettaglio in un quaderno e applicando la sua rigorosa razionalità per ricostruire l’accaduto. Tuttavia, ciò che inizialmente sembra un semplice enigma poliziesco si trasforma presto in un viaggio di crescita personale, portandolo a svelare segreti inconfessabili che cambieranno per sempre la sua percezione della famiglia e del mondo circostante.

    Il romanzo è raccontato in prima persona, consentendo al lettore di entrare nella mente di Christopher e di osservare il mondo attraverso il suo peculiare modo di ragionare. La narrazione è caratterizzata da frasi brevi, descrizioni minuziose e una logica inflessibile, riflesso della modalità con cui il protagonista elabora la realtà.

    Haddon arricchisce il testo con grafici, schemi e formule matematiche, strumenti attraverso i quali Christopher cerca di interpretare l’ambiente circostante. Questo espediente non è un semplice orpello stilistico, ma un vero e proprio veicolo di immedesimazione, che permette al lettore di comprendere, almeno in parte, il funzionamento di una mente diversa da quella neurotipica.

  • Storia dell’autismo: evoluzione scientifica

    Storia dell’autismo: evoluzione scientifica

    Il termine “autismo” ha una storia relativamente recente, ma i comportamenti autistici sono stati descritti nei secoli passati. Alcuni studiosi ritengono che casi di autismo siano presenti in resoconti storici di individui con difficoltà nella comunicazione e nell’interazione sociale. Tuttavia, il primo uso scientifico del termine risale all’inizio del XX secolo.

    Il termine “autismo” fu coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler nel 1911, per descrivere un sintomo della schizofrenia caratterizzato da un distacco dalla realtà e un’intensa introspezione. Tuttavia, la definizione moderna dell’autismo inizia negli anni ‘40 grazie agli studi di Leo Kanner e Hans Asperger.

    Nel 1943, il pediatra e psichiatra americano Leo Kanner pubblicò un articolo fondamentale intitolato Autistic Disturbances of Affective Contact. In esso, descrisse 11 bambini con un comportamento insolito: difficoltà nella comunicazione, ripetitività nei gesti e nelle azioni, e un’apparente indifferenza verso gli altri. Kanner coniò il termine autismo infantile precoce, sottolineando che questi bambini sembravano vivere in un mondo interiore separato.Kanner fu il primo a distinguere l’autismo dalla schizofrenia, sottolineando che i sintomi autistici erano presenti sin dalla prima infanzia e non erano dovuti a una regressione. Tuttavia, inizialmente attribuì la causa dell’autismo a una mancanza di calore materno, una teoria successivamente confutata.

    Nel 1944, il pediatra austriaco Hans Asperger pubblicò uno studio su un gruppo di bambini con caratteristiche simili a quelle descritte da Kanner, ma con una maggiore capacità di linguaggio e di adattamento sociale. Asperger notò che questi individui, pur avendo difficoltà nella comunicazione e nell’interazione sociale, spesso possedevano abilità eccezionali in aree specifiche, come la matematica o la memoria.

    A differenza di Kanner, Asperger suggerì che questi tratti potessero rappresentare una variante della neurodiversità, piuttosto che una patologia. La “Sindrome di Asperger” è rimasta una diagnosi distinta fino al 2013, quando è stata inglobata nel Disturbo dello Spettro Autistico (DSA) nel DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali).

    Negli anni ‘50 e ‘60, la teoria della “madre frigorifero” proposta dallo psicoanalista Bruno Bettelheim guadagnò popolarità. Bettelheim suggeriva che l’autismo fosse causato da una madre fredda e distante. Questa teoria fu dannosa per molte famiglie e portò a inutili sensi di colpa nei genitori. Fortunatamente, con il progresso delle neuroscienze e della genetica, questa ipotesi fu abbandonata negli anni ‘70.

    A partire dagli anni ‘80, la ricerca sull’autismo si è spostata su basi scientifiche più solide. Gli studi di Lorna Winge e Uta Frith hanno contribuito a definire l’autismo come uno spettro di condizioni con diversi livelli di gravità. L’autismo non era più visto come una singola patologia, ma come un insieme di caratteristiche che potevano manifestarsi in modi diversi da persona a persona.

    Negli anni ‘90, ricerche di Simon Baron-Cohen hanno portato alla formulazione della teoria della “mente cieca” (theory of mind deficit), secondo cui le persone autistiche hanno difficoltà a comprendere gli stati mentali altrui. Parallelamente, studi genetici e neurobiologici hanno dimostrato che l’autismo è una condizione neurobiologica con una forte componente genetica, non causata da fattori emotivi o educativi.

    Negli anni 2000, si è verificato un aumento delle diagnosi di autismo, grazie a una maggiore conoscenza del disturbo e a criteri diagnostici più inclusivi. Oggi si parla di Disturbo dello Spettro Autistico (DSA), che comprende diverse forme, dalle più lievi (ex Sindrome di Asperger) a quelle più gravi che richiedono un supporto costante.

    Inoltre, il movimento della neurodiversità ha promosso una visione dell’autismo non come una malattia da curare, ma come una diversa modalità di funzionamento cerebrale, con punti di forza e debolezze uniche.

    La storia dell’autismo è passata da fraintendimenti e stereotipi a una comprensione più scientifica e inclusiva. Oggi, grazie alla ricerca e alla sensibilizzazione, le persone autistiche hanno maggiori opportunità di essere riconosciute, comprese e supportate nella società.

  • “Gli sdraiati”: critica alla gioventù o incomprensione generazionale?

    “Gli sdraiati”: critica alla gioventù o incomprensione generazionale?

    Michele Serra, con Gli sdraiati, compone un monologo interiore che si fa affresco generazionale, un lamento paterno che rasenta il soliloquio dostoevskiano, un’analisi pungente e disillusa della distanza siderale tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti. Ma, in questo tentativo di comprendere e, forse, redimere la gioventù mollemente adagiata sul divano dell’apatia contemporanea, il testo si avviluppa in una narrazione che, sebbene affilata e ironica, rischia di scivolare nel moralismo e in un’epica nostalgica che ha il sapore del rimpianto anziché della comprensione.

    Serra scrive con la penna acuminata del giornalista di lungo corso, con la sensibilità del polemista raffinato e con il guizzo dello scrittore che sa mescolare lirismo e sarcasmo. Tuttavia, il suo ritratto della giovinezza contemporanea si appiattisce su un’immagine quasi caricaturale: i giovani come “sdraiati”, pigri, disinteressati, avulsi dalla realtà e ripiegati in un solipsismo tecnologico, incapaci di reggere lo sguardo del mondo se non attraverso lo schermo di uno smartphone.

    Eppure, questa rappresentazione sembra incagliarsi in una dicotomia semplicistica: il padre moralizzatore e il figlio svogliato, l’ordine e il caos, la cultura e il nulla. Se l’ironia, in alcuni passaggi, riesce a illuminare con lampi fulminei l’incomprensione tra le generazioni, in altri rischia di diventare un’invettiva monocorde, una lamentazione che rimane prigioniera del proprio disincanto. L’assenza di un vero dialogo tra padre e figlio – dove il primo monologa e il secondo resta sullo sfondo come un’ombra sfocata – non fa che amplificare questa sensazione di unidirezionalità narrativa.

    Ma i giovani di Serra sono davvero “sdraiati” nel senso di inerti? O piuttosto si muovono lungo traiettorie che sfuggono alla comprensione di chi li osserva con lo sguardo rivolto all’indietro? L’autore pare dimenticare che il suo stesso sguardo adulto è inevitabilmente condizionato da una nostalgia di tempi andati, da un’idealizzazione dell’adolescenza vissuta senza tecnologia, fatta di corse in bicicletta e gesti eroici che oggi sembrano mancare.

    Eppure, le nuove generazioni si muovono, eccome: esplorano, si informano, creano, reinventano modi di pensare e di esistere che non possono essere misurati con il metro delle generazioni precedenti. L’idea che il loro rapporto con il digitale sia solo una forma di estraniazione dalla realtà è una lettura parziale: il mondo virtuale è oggi parte del reale, è un’estensione dell’identità, un terreno di sperimentazione esistenziale e culturale che non può essere liquidato con un’alzata di spalle.

    A distanza di anni dalla pubblicazione di Gli sdraiati, il mondo è cambiato in modi che lo stesso Serra forse non avrebbe potuto prevedere. I giovani di oggi sono sopravvissuti a pandemie, crisi economiche, mutamenti climatici e guerre digitali di narrazione. Sono cresciuti in un contesto di insicurezza e trasformazione, in cui il concetto stesso di stabilità – lavorativa, affettiva, sociale – è stato eroso dalle sabbie mobili della post-modernità. Se prima potevano sembrare sdraiati, oggi molti di loro si rivelano resilienti, iperconnessi ma consapevoli, critici, attenti alle questioni globali, protagonisti di movimenti che scuotono le coscienze.

    Il rischio di un libro come Gli sdraiati è, quindi, quello di rimanere ancorato a una visione statica della gioventù, a un paradigma interpretativo che non coglie il movimento profondo che si agita sotto la superficie. La generazione Z e quella che verrà dopo di essa non sono semplicemente distese su un divano: stanno scrivendo la propria storia con un alfabeto nuovo, e il vero compito di un osservatore acuto sarebbe quello di tentare di decifrarlo senza pregiudizi.

    Michele Serra, con la sua prosa raffinata e la sua vena ironica, ha il merito di portare a galla un disagio generazionale che esiste e persiste. Tuttavia, il limite del suo sguardo è quello di trasformare questo disagio in un’immagine immobile, un’istantanea in bianco e nero di un mondo che, invece, si colora di infinite sfumature. Forse il vero dialogo tra generazioni non si gioca nella nostalgia né nel rimprovero, ma nella capacità di ascoltare con mente aperta, di accettare la diversità dei percorsi, di riconoscere che ogni epoca ha i suoi sdraiati e i suoi inquieti esploratori.

  • L’assente: un romanzo sul bullismo che scuote le coscienze

    L’assente: un romanzo sul bullismo che scuote le coscienze

    Il romanzo “L’assente” di Jan de Zanger si presenta come un’opera di rara intensità emotiva e profondità morale, un testo che scava con chirurgica precisione nei recessi della coscienza umana, laddove il senso di colpa e il dolore si annidano, sedimentandosi nel tempo fino a diventare insopportabili.

    La narrazione si muove con uno stile essenziale, quasi lapidario, in cui ogni parola pesa come una condanna e ogni silenzio si fa eco di un tormento mai sopito. Il protagonista, Pieter Vink, rappresenta l’archetipo dell’adulto in fuga dal proprio passato, ma incapace di sottrarsi all’inesorabile richiamo della memoria. L’invito alla celebrazione del centenario della sua vecchia scuola si configura come una trappola dell’anima, un’improvvisa apertura di quel vaso di Pandora che per venticinque anni aveva cercato di sigillare. Il suo disagio è palpabile, le amnesie selettive un grido di autodifesa contro un ricordo che non vuole affiorare, eppure lo sovrasta.

    Il punto nevralgico del romanzo è il banco vuoto di Sigi Boonstra, presenza-assenza che grava sulle coscienze dei compagni di classe come un monito ineluttabile. Sigi, il ragazzo timido, il piccolo genio respinto, il fragile corpo esposto al ludibrio dei bulli, diventa il simbolo dell’ingiustizia taciuta, della violenza normalizzata, del male banale che si consuma nell’indifferenza collettiva. Il suicidio di Sigi, precipitato sotto un treno poco prima dell’esame di maturità, non è un episodio relegabile al passato, bensì una ferita aperta che reclama giustizia. Pieter, con la sua indagine interiore, diviene il testimone involontario di una tragedia che il tempo non ha potuto cancellare.

    L’autore riesce con mirabile maestria a costruire un racconto in cui il lettore si trova costretto a interrogarsi, a prendere posizione, a chiedersi cosa avrebbe fatto al posto dei protagonisti. La sofferenza di Sigi non è narrata con toni melodrammatici, ma con la cruda freddezza di una realtà ineluttabile: un destino scritto nelle dinamiche del branco, nell’assenza di una guida adulta capace di spezzare il ciclo della crudeltà, nell’omertà che trasforma il silenzio in complicità.

    La scelta dell’autore di dare voce non alla vittima, ma ai carnefici e agli spettatori passivi, rende il romanzo ancora più disturbante. Non c’è conforto, non c’è catarsi immediata: la verità emerge a poco a poco, come un corpo trascinato a riva dalle onde. Ed è una verità dolorosa, inaccettabile, che pone ogni lettore di fronte alla propria responsabilità morale.

    Se “L’assente” è un libro che scuote nel profondo, lo si deve anche alla sua natura di specchio della società contemporanea. Il bullismo descritto nelle pagine del romanzo non è relegato a un’epoca passata: al contrario, continua a manifestarsi con spietata attualità nelle scuole di oggi, nei social network, nelle comunità giovanili. Sigi Boonstra è il volto di tutti quei ragazzi che si sono sentiti invisibili, umiliati, respinti fino a perdere il senso della propria esistenza.

    La conclusione del romanzo, con Pieter che finalmente si fa carico del proprio fardello e affronta l’assemblea dei suoi ex compagni, rappresenta una presa di coscienza tardiva, ma necessaria. Non si tratta più di cercare il colpevole, bensì di riconoscere la propria parte di responsabilità, di guardare negli occhi la propria codardia, di smettere di fuggire.

    L’assente” è un’opera che lascia il segno, un libro che merita di essere letto non solo dai ragazzi, ma anche dagli adulti, in particolare da chi ha il compito di educare e proteggere. Perché il vero orrore non risiede solo negli atti di bullismo, ma nel silenzio che li circonda. E ogni assenza pesa, in eterno, sul cuore di chi ha voltato lo sguardo altrove.

  • Se sbagli non fa niente: un viaggio nell’apprendimento senza paura

    Se sbagli non fa niente: un viaggio nell’apprendimento senza paura

    Il libro che propongo oggi non deve mancare nella libreria di un genitore e di un’insegnante. L’autrice, Daniela Lucangeli, ha il merito di rivoluzionare il concetto di errore nell’apprendimento. Un libro essenziale basato su neuroscienze e didattica emotiva.

    Daniela Lucangeli, esperta di psicologia dello sviluppo e neuroscienze dell’apprendimento, con Se sbagli non fa niente ci accompagna in una riflessione profonda e accessibile sul ruolo dell’errore nel processo educativo. Questo libro non è solo un invito alla resilienza cognitiva, ma una vera e propria rivoluzione nel modo in cui concepiamo la scuola e l’insegnamento.

    Lucangeli parte da un assunto fondamentale: l’errore non è un fallimento, ma un passaggio essenziale dell’apprendimento. L’autrice, attraverso una solida base neuroscientifica, spiega come il cervello elabori le informazioni e come la paura di sbagliare possa inibire l’acquisizione di nuove competenze. La sua argomentazione è chiara e supportata da studi scientifici sulla plasticità neuronale e sul ruolo delle emozioni nell’apprendimento. Il libro ci aiuta a capire che l’errore, quando vissuto senza ansia, diventa un’opportunità di crescita.

    Uno degli aspetti più interessanti è la critica ai metodi educativi tradizionali, spesso basati sulla rigidità del giusto/sbagliato. Lucangeli sottolinea come l’ambiente scolastico debba trasformarsi in un contesto in cui il bambino si senta libero di esplorare, sperimentare e correggersi senza timore di essere giudicato. L’errore non deve essere sanzionato, ma rielaborato per costruire nuove connessioni cognitive.

    Il libro offre spunti concreti per genitori e insegnanti, proponendo strategie per favorire un apprendimento positivo. La chiave sta nel rendere i bambini protagonisti attivi del loro sapere, stimolando la curiosità e il piacere della scoperta. Attraverso racconti ed esempi pratici, Lucangeli dimostra come un’educazione basata sull’accoglienza dell’errore possa portare a risultati sorprendenti in termini di motivazione e autostima.

    Perché leggere Se sbagli non fa niente?

    Perché è un testo che ribalta le convinzioni tradizionali sull’apprendimento e ci offre una prospettiva nuova e illuminante. È una lettura essenziale per chiunque abbia a cuore il benessere educativo e voglia comprendere come rendere la scuola un luogo in cui il fallimento non sia più vissuto con paura, ma con la consapevolezza che ogni errore è un passo in avanti verso la conoscenza.

  • Sovraccarico cognitivo e rendimento scolastico

    Sovraccarico cognitivo e rendimento scolastico

    Il sovraccarico cognitivo rappresenta una sfida significativa nell’era dell’informazione, influenzando vari ambiti della società, inclusa l’istruzione. La teoria del carico cognitivo, sviluppata da John Sweller negli anni ’80, sottolinea l’importanza di strutturare l’apprendimento in modo da rispettare i limiti della memoria di lavoro umana. Un eccesso di informazioni può compromettere la capacità degli studenti di elaborare e memorizzare efficacemente i contenuti, portando a frustrazione e riduzione delle performance accademiche.

    In Italia, l’uso precoce e intensivo di dispositivi digitali tra i giovani è in aumento. Secondo un rapporto di Save the Children, il 43% dei bambini tra i 6 e i 10 anni nel Sud e nelle Isole utilizza uno smartphone quotidianamente. Questa esposizione prolungata può contribuire al sovraccarico cognitivo, interferendo con la capacità di concentrazione e apprendimento. Uno studio condotto dall’Università Milano-Bicocca e SUPSI ha evidenziato una correlazione negativa tra l’uso intensivo dei media digitali e il rendimento scolastico, suggerendo che l’eccesso di stimoli digitali possa compromettere le performance educative

    La scuola italiana si trova quindi ad affrontare la sfida di integrare le tecnologie digitali nell’educazione senza sovraccaricare gli studenti. Nonostante l’adozione di strumenti digitali possa arricchire l’esperienza didattica, è fondamentale bilanciare l’uso della tecnologia con metodi tradizionali di insegnamento. Un approccio equilibrato potrebbe includere la promozione della metacognizione, ovvero la capacità degli studenti di riflettere sul proprio processo di apprendimento, e l’implementazione di pause regolari durante le attività didattiche per prevenire l’affaticamento mentale. Statistiche recenti indicano che il 36% dei lavoratori italiani fatica a disconnettersi dal lavoro a causa del sovraccarico cognitivo, una problematica che si riflette anche nel contesto educativo. La pandemia ha accentuato questo fenomeno, con un aumento significativo del tempo trascorso online sia per motivi professionali che personali. 

    In conclusione, è essenziale che il sistema educativo italiano riconosca e affronti il problema del sovraccarico cognitivo. Ciò implica una progettazione didattica che tenga conto dei limiti cognitivi degli studenti, l’adozione di strategie di insegnamento che promuovano un apprendimento profondo e significativo, e una riflessione critica sull’uso delle tecnologie digitali in aula. Solo attraverso un approccio consapevole e informato sarà possibile garantire un’educazione efficace e sostenibile per le future generazioni.

  • Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Giovanni Stanghellini, filosofo e psichiatra di fama internazionale, è noto per la sua capacità di intrecciare psicopatologia, fenomenologia e antropologia in una riflessione profonda sulla condizione umana. Nel suo libro Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, pubblicato nel 2017, l’autore esplora le dinamiche dell’identità e della percezione del sé in una società dominata dall’immagine e dalla rappresentazione virtuale. Il tema del selfie, inteso non solo come pratica tecnologica ma come fenomeno esistenziale, diventa il punto di partenza per un’indagine sulla costruzione dell’io attraverso lo sguardo altrui.

    L’opera si configura come un saggio di straordinaria attualità, in cui Stanghellini analizza la necessità dell’essere umano di essere visto e riconosciuto dagli altri, una condizione fondamentale per la formazione della propria identità. Il selfie, in questa prospettiva, non è un mero atto di narcisismo ma il sintomo di un bisogno profondo di conferma e legittimazione. Il libro affronta il tema con un linguaggio che fonde rigore accademico e accessibilità, rendendolo un’opera adatta sia agli studiosi di psicologia e filosofia sia a un pubblico più ampio, interessato a comprendere il peso dello sguardo sociale nella costruzione del sé.

    Il selfie come fenomeno esistenziale: narcisismo o bisogno di riconoscimento?

    Il selfie non è semplicemente un atto estetico o un’esibizione narcisistica, ma un fenomeno esistenziale profondo, strettamente legato alla costruzione dell’identità e al bisogno di riconoscimento. Giovanni Stanghellini analizza il ruolo dello sguardo altrui nella definizione del sé, mostrando come l’immagine che proiettiamo sia parte di un processo di autoaffermazione e di legittimazione sociale.

    L’essere umano è, per sua natura, un animale relazionale, la cui identità si forma attraverso l’interazione con gli altri. La fenomenologia e la psicopatologia ci insegnano che l’identità individuale non è un’entità chiusa e statica, ma una costruzione che avviene nel rapporto con il mondo e con gli altri. Il selfie, in questo contesto, rappresenta un dispositivo attraverso cui cerchiamo di rispondere alla domanda esistenziale “Chi sono io per gli altri?”.

    Il selfie come manifestazione della dialettica tra essere e apparire

    Il problema centrale del selfie risiede nella tensione tra autenticità e rappresentazione. Nell’epoca digitale, il volto non è più solo un riflesso dell’identità, ma un mezzo attraverso cui l’individuo si narra, si ricostruisce e si adatta alle aspettative altrui. Il selfie non è mai un’immagine neutra: ogni scatto è frutto di una selezione, di una posa studiata, di una precisa scelta comunicativa che ha come fine ultimo la validazione sociale.

    Stanghellini evidenzia come, dietro questa pratica, si nasconda un bisogno primordiale di essere visti. Il selfie non è solo un atto individuale, ma un fenomeno collettivo: scattare una foto di sé ha senso solo se esiste uno sguardo altro che la riconosca, la interpreti e la validi. In tal senso, la società digitale amplifica un meccanismo che, seppur presente da sempre nell’essere umano, assume oggi una nuova centralità.

    L’eccessiva ricerca di conferma può però condurre a una dissonanza tra l’immagine rappresentata e l’essenza autentica dell’individuo. La costruzione di un sé socialmente accettabile può diventare un limite, spingendo l’individuo a identificarsi con un’immagine artificiale piuttosto che con la propria interiorità. Questo scollamento tra essere e apparire può generare un profondo senso di vuoto esistenziale, creando dipendenza dalla continua approvazione esterna.

    La fragilità dell’Io nello specchio del selfie

    Dal punto di vista psicologico, il selfie diventa dunque un mezzo di gestione dell’insicurezza esistenziale. L’immagine condivisa diventa una sorta di scudo contro il timore di non essere abbastanza, un tentativo di plasmare la percezione di sé in base al feedback degli altri. In questo senso, il selfie può essere interpretato come una strategia di controllo identitario: attraverso la selezione delle immagini migliori, si costruisce una versione potenziata del sé, con lo scopo di rafforzare la propria autostima e ridurre l’ansia sociale.

    Tuttavia, questa ricerca di validazione esterna può facilmente trasformarsi in un circolo vizioso. Il bisogno costante di like, commenti e conferme diventa una misura del proprio valore, e il rischio è quello di legare la propria autostima a un riscontro effimero e instabile. Qui si inserisce la riflessione di Stanghellini sul selfie come paradosso: se da un lato è un tentativo di autoaffermazione, dall’altro può trasformarsi in una gabbia in cui l’individuo è costretto a reiterare la propria immagine ideale, con il timore costante di non essere all’altezza delle aspettative.

    Conclusione: il selfie come metafora della condizione umana

    Il selfie, nella lettura di Stanghellini, non è soltanto un’icona della società digitale, ma una vera e propria metafora della condizione umana. Esso riflette il desiderio innato di essere riconosciuti, la tensione tra autenticità e costruzione dell’immagine, la necessità di trovare un equilibrio tra il sé interiore e la sua rappresentazione esterna.

    L’opera di Stanghellini ci invita a riflettere sulla natura del nostro rapporto con l’immagine e con l’altro. La nostra identità è sempre il frutto di un’interazione, di uno scambio, di uno sguardo che ci restituisce chi siamo. Tuttavia, in un’epoca in cui la visibilità sembra essere diventata sinonimo di esistenza, è fondamentale interrogarsi su quanto di noi stessi stiamo sacrificando sull’altare della rappresentazione.

    Il selfie può essere uno strumento di espressione, ma anche una trappola. La sfida, allora, è imparare a usarlo senza smarrire la propria autenticità, a cercare il riconoscimento senza perdere il senso di sé, a guardarsi nello specchio digitale senza dimenticare che la vera essenza di un individuo non può mai ridursi a un’immagine.

  • San Valentino: il patrono degli innamorati

    San Valentino: il patrono degli innamorati

    L’origine della festa di San Valentino si perde in un intreccio di riti antichi e tradizioni che hanno segnato la storia dell’umanità, rivelando un percorso che unisce il fervore delle celebrazioni pagane e la profondità del simbolismo cristiano. Nella Roma antica, la Lupercalia veniva celebrata con una ritualità quasi mistica, un rito di purificazione e fertilità che apriva le porte alla rinascita della natura e al rinnovamento dell’anima. I Lupercàli (Lupercalia in latino) erano un’antica festività romana, celebrata nei giorni nefasti di febbraio, mese tradizionalmente dedicato alla purificazione. Il rito si svolgeva dal 13 al 15 febbraio in onore del dio Fauno.

    Secondo un’altra interpretazione, avanzata dallo storico Dionigi di Alicarnasso, i Lupercalia commemoravano il leggendario allattamento dei gemelli Romolo e Remo da parte di una lupa che aveva appena partorito. Un resoconto dettagliato di questa festività si trova nelle Vite parallele di Plutarco. Le celebrazioni si svolgevano nella grotta chiamata Lupercale, situata sul Palatino, dove, secondo la tradizione, Romolo e Remo sarebbero stati allevati dalla lupa prima di fondare Roma.

    Con l’avvento del Cristianesimo, le celebrazioni pagane vennero reinterpretate, e la figura di un martire coraggioso, che osò infrangere le rigide imposizioni dell’autorità imperiale celebrando unioni segrete, divenne il simbolo di un amore redentore e rivoluzionario. San Valentino è venerato dalla Chiesa Cattolica come martire cristiano, ed è considerato il patrono degli innamorati. Tuttavia, la sua figura storica è avvolta nel mistero e spesso confusa con altre omonime.

    Secondo la Passio Sancti Valentini, Valentino sarebbe stato un vescovo di Terni vissuto nel III secolo d.C., durante il regno dell’imperatore Claudio II il Gotico. La tradizione narra che fosse noto per il suo impegno nel celebrare matrimoni tra cristiani, nonostante le persecuzioni dell’epoca. Avrebbe anche benedetto le unioni tra giovani coppie, andando contro il decreto imperiale che proibiva i matrimoni per i soldati, considerati più valorosi se non sposati.

    Per la sua opera di evangelizzazione e per aver sfidato le autorità romane, Valentino venne arrestato e condannato a morte. Secondo la leggenda, prima della sua esecuzione avrebbe guarito la figlia cieca di un suo carceriere e le avrebbe scritto un biglietto firmato “Tuo Valentino”, da cui deriverebbe l’usanza degli auguri d’amore nel giorno della sua festa.

    San Valentino fu decapitato il 14 febbraio 273 d.C. e sepolto lungo la Via Flaminia. Il culto si diffuse rapidamente e nel 496 d.C. papa Gelasio I istituì ufficialmente la sua festa per sostituire i Lupercalia.

    Le sue reliquie sono conservate in diverse città italiane, tra cui Terni, dove è patrono, e Roma, nella Basilica di San Valentino. Il 14 febbraio è celebrato come il giorno degli innamorati, una tradizione che ha radici sia nella religione cristiana che nelle consuetudini medievali legate all’amore cortese.

    Studi interdisciplinari che spaziano dall’antropologia alle neuroscienze hanno dimostrato come l’amore sia radicato in meccanismi cerebrali ben definiti, capaci di innescare la produzione di neurotrasmettitori e ormoni che regolano il benessere emotivo e fisico. Questa sintesi tra tradizione e scienza conferisce alla festa di San Valentino una valenza profonda e ambivalente, in cui il sentimento si trasforma da ideale romantico a fenomeno misurabile, capace di resistere al tempo e alle convenzioni sociali. In un’epoca segnata dall’individualismo e dalla frenesia, il ricordo delle origini di questa celebrazione funge da monito: l’amore, nella sua essenza più pura, è una forza che illumina anche gli angoli più oscuri dell’esistenza, sfidando le tempeste del destino e offrendo una via di speranza e redenzione.

    San Valentino incarna il connubio tra spiritualità e sentimento, tra la tradizione cristiana e il significato universale dell’amore. Il suo culto, nato in un’epoca di persecuzioni e sacrificio, si è trasformato nei secoli in un simbolo di unione e affetto, mantenendo vivo il messaggio di altruismo e dedizione.

    Che si tratti di un amore romantico, familiare o universale, la sua figura ci ricorda che l’amore autentico è dono, impegno e speranza. Il 14 febbraio non è solo una celebrazione consumistica, ma un’occasione per riscoprire il valore profondo del legame con gli altri, costruito su fiducia, rispetto e sincera connessione dell’anima.

    Nel mondo frenetico di oggi, dove spesso i sentimenti vengono sminuiti o dati per scontati, questa ricorrenza ci invita a riflettere sull’importanza di amare con autenticità, senza paura e senza riserve. Perché, come scriveva Dante, “Amor che move il sole e l’altre stelle”, è la forza più grande e inesauribile dell’universo.