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  • Perché il QI medio sta diminuendo: una nuova crisi cognitiva

    Perché il QI medio sta diminuendo: una nuova crisi cognitiva

    L’inversione dell’effetto Flynn: colpa degli schermi? La popolazione mondiale passa una media di 3 ore al giorno davanti ad uno schermo. Ciò significa che in un anno si passano davanti ad uno schermo 1000 ore, 40 giorni in un anno che in 8 anni fanno 1 anno di vita “regalato” ad uno schermo di smartphone o iPad.

    1. Che cos’è l’effetto Flynn? Un’intelligenza in crescita (fino a un certo punto)

    L’Effetto Flynn è un fenomeno scoperto dallo psicologo neozelandese James R. Flynn, che osservò come il quoziente intellettivo (Q.I.) fosse aumentato in modo sistematico nel corso del XX secolo, in media di circa 3 punti per decennio. Questo incremento veniva attribuito a migliori condizioni sanitarie, educative e nutrizionali, ma anche all’esposizione crescente a pensiero astratto e problem solving.

    Tuttavia, dal 1990 in poi, in molte nazioni sviluppate si è registrata un’inversione di tendenza: un calo significativo del Q.I. medio. Questo dato è stato confermato da studi come quelli del Ragnar Frisch Centre for Economic Research in Norvegia, che analizzando i risultati dei test cognitivi su 730.000 giovani tra il 1970 e il 2009, hanno rilevato una diminuzione tra i 5 e gli 8 punti per generazione.

    2. Cause del declino: non genetiche ma ambientali

    La regressione del Q.I. non è spiegabile geneticamente (le mutazioni genetiche non si manifestano su scale temporali così brevi). Gli esperti puntano il dito contro fattori ambientali, in particolare:

    • Riduzione del pensiero astratto dovuta alla semplificazione cognitiva degli stimoli digitali.
    • Eccessiva esposizione a dispositivi elettronici sin dall’infanzia.
    • Diminuzione della lettura lunga e profonda, sostituita da contenuti frammentati (scroll, storie, video brevi).
    • Deprivazione del gioco all’aperto e delle relazioni interpersonali non mediate.
    • Stili di vita multitasking e iper-stimolanti che impediscono lo sviluppo della memoria di lavoro e della concentrazione.
    • Elevata assunzione di alimenti ultra-processati che mostrano peggiori performance nei test cognitivi, in particolare nella memoria, nell’attenzione e nel linguaggio.

    3. Gli schermi stanno alterando lo sviluppo cerebrale infantile

    L’impatto neurologico dell’esposizione precoce agli schermi è ormai oggetto di consenso scientifico crescente. L’American Academy of Pediatrics (AAP) raccomanda di evitare qualsiasi esposizione agli schermi nei primi 18-24 mesi di vita, ma la realtà è spesso ben diversa.

    Studi come quelli condotti dal National Institutes of Health (NIH) su oltre 11.000 bambini (età 9-10 anni) evidenziano che:

    • Più di 7 ore al giorno di schermo sono correlate a un assottigliamento della corteccia cerebrale, in particolare nelle aree deputate al linguaggio, all’empatia e al pensiero critico.
    • Bambini sotto i 5 anni con alta esposizione ai dispositivi digitali mostrano un ritardo nel linguaggio e una ridotta capacità di autoregolazione.
    • L’eccessiva stimolazione visiva provoca iperattivazione del sistema dopaminergico, generando comportamenti simili a quelli delle dipendenze.

    4. Le principali aree cerebrali compromesse

    Corteccia prefrontale:

    Responsabile di attenzione, giudizio morale e autoregolazione. Negli individui cronicamente esposti a stimoli digitali, si osserva una riduzione della connettività sinaptica e della capacità di pianificazione a lungo termine.

    Ippocampo:

    Centro della memoria e dell’orientamento spaziale. L’uso intensivo dei media digitali è associato a compromissioni nella memoria di lavoro e nella formazione di ricordi durevoli.

    Cervelletto e corpo calloso:

    Aree cruciali per la coordinazione motoria e cognitiva. L’inattività fisica dovuta alla sedentarietà digitale impatta negativamente anche sulla plasticità cerebrale.

    5. In conclusione: effetto Flynn e cultura digitale, una sfida educativa

    L’inversione dell’effetto Flynn è un campanello d’allarme sociale e culturale. Più che un problema individuale, si tratta di una crisi educativa e neurocognitiva collettiva. È urgente:

    • Ripensare i modelli educativi e digitali infantili.
    • Limitare l’uso di schermi nei primi anni di vita.
    • Favorire esperienze reali, multisensoriali e relazionali.

    Non è solo questione di Q.I., ma di intelligenza sociale, emotiva e critica: le vere risorse per affrontare il futuro.

  • “Il giorno in cui mia figlia impazzì”: quando l’adolescenza si spezza

    “Il giorno in cui mia figlia impazzì”: quando l’adolescenza si spezza

    In Il giorno in cui mia figlia impazzì, Michael Greenberg ci consegna una testimonianza lacerante e vibrante, che unisce l’impeto del memoir alla lucidità del resoconto clinico. Il libro, edito in Italia da Einaudi, narra l’estate del 1996 in cui Sally, la figlia quindicenne dello scrittore newyorkese, viene travolta da un episodio psicotico acuto, aprendo uno squarcio sulla fragilità della mente adolescente e sulla forza del legame genitoriale.

    Il lettore è trascinato in una New York afosa e rarefatta, ma soprattutto nel caos interiore di una giovane mente che cede sotto il peso di un disturbo mentale ancora misterioso. Greenberg non cerca mai il pietismo, ma offre uno sguardo analitico e poetico, capace di rendere visibile l’invisibile: il delirio, l’ansia, la perdita di contatto con la realtà.

    “Il modo in cui la psicosi prende il controllo della mente di Sally è improvviso, assoluto, come un temporale che squarcia il cielo sereno”, scrive. E in questo gesto narrativo ritroviamo il dolore di ogni genitore che assiste, impotente, al disgregarsi dell’identità del proprio figlio.

    Greenberg si fa cronista e padre, scrittore e caregiver, oscillando tra l’incredulità e l’analisi. La sua prosa è asciutta, incisa, eppure colma di compassione. Il testo diventa così un’opera a metà strada tra la letteratura e la riflessione clinica, rendendolo particolarmente prezioso per pedagogisti, psicologi e psichiatri.

    Il volume è un’illustrazione vivida di ciò che la psichiatria dell’età evolutiva definisce early-onset psychosis. Come sottolinea Massimo Ammaniti, “l’adolescente è un funambolo che cerca equilibrio tra regressione infantile e proiezione verso l’età adulta”. Ed è proprio in questa transizione che Sally inciampa, spinta nel vuoto da una malattia che non fa sconti, nemmeno alla giovinezza.

    Dal punto di vista clinico, il libro può essere letto come una testimonianza del ruolo fondamentale della famiglia nel percorso terapeutico. Il DSM-5 colloca la psicosi giovanile in una zona grigia, dove diagnosi e prognosi si muovono tra incertezza e speranza. Greenberg incarna questa ambivalenza, restituendola al lettore in tutta la sua crudezza.

    Perché leggerlo

    Il giorno in cui mia figlia impazzì è molto più che un diario del dolore. È un testo necessario, che dà voce a milioni di genitori e figli coinvolti nel labirinto della sofferenza mentale. Un libro da leggere per comprendere, per non sentirsi soli, per imparare a nominare ciò che spesso resta impronunciabile.

  • Il figlio nella madre: un legame tra scienza, cuore e psiche

    Il figlio nella madre: un legame tra scienza, cuore e psiche

    «Della madre non ci si libera mai del tutto, anche quando si è tagliato il cordone ombelicale» scrive la poetessa svedese Karin Boye. Questa affermazione, intensa e simbolica, trova oggi un’eco scientifica sorprendente: la scienza ha scoperto che le cellule del figlio possono persistere nel corpo materno per decenni, insinuandosi in organi vitali come il cuore, il fegato e persino il cervello. Questo fenomeno affascinante prende il nome di microchimerismo fetale.

    Un legame biologico che va oltre la nascita

    Durante la gravidanza, cellule del feto attraversano la barriera placentare e si integrano nei tessuti materni. Alcuni studi, come quello pubblicato sul Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS, 2012), hanno dimostrato che cellule fetali sono presenti nel cervello materno anche 18 anni dopo il parto, sollevando interrogativi su come queste cellule influenzino la neurobiologia e la psicologia materna.

    Cellule che curano, organi che ricordano

    La presenza di queste cellule non è puramente simbolica: esse intervengono nella rigenerazione dei tessuti, in particolare in caso di danno. Ricerche pubblicate su Nature Reviews Cardiology suggeriscono che cellule fetali possono differenziarsi in cardiomiociti, contribuendo alla riparazione del muscolo cardiaco dopo un infarto.

    Analogamente, uno studio del 2020 (pubblicato su Frontiers in Immunology) ha evidenziato il ruolo del microchimerismo fetale nel modulare la risposta immunitaria materna, con implicazioni sia protettive che patologiche, come in alcune malattie autoimmuni.

    Una memoria cellulare dell’amore

    Il microchimerismo non è un semplice residuo biologico: è una testimonianza viva della relazione madre-figlio. La scoperta di cellule fetali nel cervello apre la possibilità che queste influenzino comportamenti, emozioni e persino la resilienza psicologica della madre. In tal senso, la maternità diventa una scrittura cellulare incisa nel corpo, una memoria molecolare dell’amore.

    Un vincolo bidirezionale?

    Alcuni studi indicano anche un microchimerismo inverso, ovvero cellule materne nei tessuti fetali. Si delinea così una relazione biologica bidirezionale, un’eco molecolare dell’intimità della gravidanza, che sopravvive all’infanzia, all’adolescenza, e forse alla vita stessa.

    Conclusione

    Il microchimerismo fetale rappresenta una delle scoperte più poeticamente potenti della biologia moderna: il figlio, una volta formato nel grembo, non se ne va mai del tutto. Resta come traccia cellulare, come potenziale guarigione, come memoria vivente dell’unione originaria. È la materia stessa dell’amore materno, scritta nei tessuti e negli organi, forse anche nei pensieri.

    Come scrisse Emily Dickinson:

    «La madre è uno scrigno che custodisce ciò che il mondo non può vedere».

    Oggi la scienza ci dice che questo scrigno è fatto anche di cellule altrui: quelle dei figli.

  • Pisantrofobia: la paura di fidarsi degli altri spiegata dalla psicologia

    Pisantrofobia: la paura di fidarsi degli altri spiegata dalla psicologia

    Cos’è la pisantrofobia: definizione e significato psicologico

    La pisantrofobia è la paura persistente e irrazionale di fidarsi delle persone, specialmente in ambito affettivo e relazionale. Il termine deriva dal greco pisteuo (πιστεύω, “credere”) e phobos (φόβος, “paura”). Chi soffre di pisantrofobia tende a isolarsi, sperimentando ansia intensa all’idea di stringere rapporti profondi o di aprirsi emotivamente.

    Nel panorama clinico, la pisantrofobia non è ancora riconosciuta come disturbo autonomo nei manuali diagnostici ufficiali (DSM-5, ICD-11), ma viene spesso associata a condizioni come il disturbo evitante di personalità, il disturbo post-traumatico da stress (PTSD) o gli effetti di traumi relazionali.

    Cause della pisantrofobia: tra trauma e modelli relazionali disfunzionali

    Le origini della pisantrofobia sono spesso radicate in esperienze pregresse di tradimento, abuso emotivo, bullismo o abbandono. Studi condotti da Mikulincer e Shaver (2016) hanno dimostrato che individui con attaccamento insicuro da bambini sono più propensi a sviluppare paure legate alla fiducia interpersonale.

    Secondo una ricerca pubblicata su Frontiers in Psychology (2020), il 38% delle persone che hanno subito un trauma relazionale significativo riferiscono difficoltà estreme nel fidarsi degli altri, a conferma che la pisantrofobia può essere un meccanismo di difesa appreso.

    I sintomi della pisantrofobia: come riconoscerla

    Tra i segnali più comuni troviamo:

    • paura intensa di essere traditi o manipolati
    • ipervigilanza nei rapporti sociali
    • ansia o attacchi di panico in contesti relazionali
    • isolamento volontario
    • bassa autostima e convinzioni negative sugli altri

    È importante notare che questi sintomi possono compromettere significativamente la qualità della vita, aumentando il rischio di depressione e ansia sociale.

    Come superare la pisantrofobia: strategie e percorsi terapeutici

    Affrontare la pisantrofobia richiede spesso un percorso psicoterapeutico. Gli approcci più efficaci includono:

    • Terapia cognitivo-comportamentale (CBT): per ristrutturare convinzioni irrazionali sulla fiducia.
    • Terapia basata sulla mentalizzazione (MBT): per migliorare la comprensione delle emozioni proprie e altrui.
    • EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing): utile nei casi legati a traumi relazionali.

    Un percorso di psicoterapia può aiutare a costruire gradualmente fiducia sicura, attraverso esperienze correttive e relazioni terapeutiche stabili. Come scriveva Marcel Proust“La fiducia si guadagna col tempo, ma si perde in un istante.” — un monito che riassume perfettamente il nucleo fragile su cui si costruiscono (o si spezzano) i legami umani.

    Conclusioni: la fiducia è una sfida possibile

    La pisantrofobia non deve diventare una condanna al solitario. Attraverso la comprensione delle sue radici psicologiche e con l’aiuto di professionisti della salute mentale, è possibile ricostruire un senso di fiducia nelle relazioni. La strada è lunga, ma come ricordava Erich Fromm“La fede nell’altro è l’atto più coraggioso che possiamo compiere.”

  • Amore e Psiche: l’innamoramento tra cervello e cuore

    Amore e Psiche: l’innamoramento tra cervello e cuore

    L’amore è forse l’enigma più potente e misterioso che accompagna l’esistenza umana, un legame invisibile tra la razionalità della mente e l’irrazionalità del cuore, tra impulso e riflessione, tra bisogno e scelta. Fin dall’antichità, la dicotomia fra cuore e cervello ha dominato la riflessione filosofica e poetica, ma oggi è la scienza a svelare i meccanismi più intimi del sentimento amoroso, conducendoci nel laboratorio dell’anima dove la chimica neuronale si mescola ai sussulti del desiderio.

    Secondo gli studi di Helen Fisher, antropologa biologica presso la Rutgers University, l’innamoramento è il frutto di una complessa interazione tra tre sistemi cerebrali distinti ma interconnessi: il desiderio sessuale, l’attrazione romantica e l’attaccamento. Questi sistemi attivano diverse aree del cervello, coinvolgendo neurotrasmettitori come la dopamina, la serotonina e l’ossitocina, molecole che orchestrano la sinfonia delle emozioni e dei legami. La dopamina, in particolare, agisce come il regista dell’euforia amorosa, accendendo il circuito della ricompensa nel nucleus accumbens, la stessa area stimolata dal consumo di cocaina, a testimonianza dell’intensità e della potenziale dipendenza emotiva dell’innamoramento.

    La risonanza magnetica funzionale ha permesso di osservare come, nei soggetti innamorati, si attivino specifici network cerebrali legati alla motivazione e al piacere, mentre si spengono aree deputate al giudizio critico, spiegando perché l’amore renda ciechi e indulgenti. Ma se il cervello è l’organo dell’amore, il cuore rimane il suo simbolo universale: le emozioni amorose non si limitano alla dimensione cognitiva, bensì influenzano la fisiologia, il battito cardiaco, la respirazione, la sudorazione, generando una corporeità affettiva che nessuna mappa neuronale può contenere. L’amore, dunque, non risiede esclusivamente né nel cuore né nel cervello, ma scorre tra i due come un ponte fragile e splendente, un equilibrio dinamico tra ragione e sentimento. Non ci innamoriamo solo per scelta, né solo per istinto: ci innamoriamo perché la nostra psiche, il nostro inconscio e la nostra biologia danzano insieme in un gioco millenario di selezione, proiezione e narrazione.

    Il cuore batte, ma è il cervello che scrive la storia d’amore. Un esempio significativo è lo studio condotto dal team del neuroscienziato Andreas Bartels al Wellcome Department of Imaging Neuroscience di Londra, che ha mostrato come la visione della persona amata riduca l’attività nelle aree cerebrali responsabili del conflitto e della valutazione negativa, dimostrando che l’amore modifica la percezione e favorisce una forma di fiducia radicale. 

    In questa prospettiva, l’amore è un atto neuropsicologico, ma anche un viaggio mitico dentro sé stessi, come racconta la leggenda di Amore e Psiche: una tensione verso l’altro che diventa scoperta dell’anima, fusione e separazione, caduta e rinascita. L’amore non è un’illusione, ma un’esperienza reale inscritta nella carne e nel pensiero, capace di trasformarci nelle profondità della nostra coscienza.

  • Articolo senza titolo 657

    ARFID: La nuova frontiera dei disturbi alimentari nell’infanzia e adolescenza

    Nell’orizzonte clinico dei disturbi dell’alimentazione, l’ARFID (Avoidant/Restrictive Food Intake Disorder) rappresenta una nuova e insidiosa declinazione, distinta dall’anoressia nervosa e dalla bulimia per l’assenza di preoccupazioni circa il peso corporeo o l’immagine di sé. L’ARFID è caratterizzato da un’evidente restrizione alimentare che conduce a deficit nutrizionali significativi, compromissione della crescita e disfunzioni psicosociali. Il disturbo si manifesta prevalentemente in età evolutiva e presenta una complessità diagnostica che richiede un approccio multidisciplinare.

    Recenti ricerche condotte in Europa, tra cui lo studio multicentrico “Pica, ARFID, and Rumination Disorder” (Koomar et al., 2021), stimano una prevalenza di ARFID tra l’1,5% e il 5% della popolazione pediatrica. Un’indagine condotta nel 2023 su scala europea dalla European Society for Child and Adolescent Psychiatry (ESCAP) evidenzia come il 3,2% dei bambini tra i 7 e i 14 anni manifesti sintomi compatibili con una diagnosi di ARFID.

    La diagnosi di ARFID richiede un’attenta anamnesi alimentare, la valutazione nutrizionale e l’esclusione di condizioni mediche sottostanti. Strumenti come l’”Nine Item ARFID Screen” (NIAS) si sono rivelati utili nel supportare la pratica clinica, offrendo una prima identificazione di soggetti a rischio.

    Fondamentale è la distinzione tra neofobia alimentare fisiologica, tipica dell’età prescolare, e restrizione patologica che persiste oltre le fasi evolutive normali.

    I dati suggeriscono un incremento delle diagnosi, complice una maggiore sensibilità clinica e l’ampliamento dei criteri diagnostici rispetto ai tradizionali disturbi alimentari. Particolarmente colpiti risultano i soggetti con preesistenti disturbi d’ansia o dello spettro autistico, nei quali la selettività alimentare assume connotazioni patologiche.

    Il trattamento dell’ARFID si configura come un percorso complesso e altamente personalizzato. Secondo le linee guida europee recenti, le strategie terapeutiche più efficaci comprendono la Terapia cognitivo-comportamentale adattata per ARFID con interventi focalizzati sulla progressiva esposizione ai cibi evitati, connesso a un supporto nutrizionale specialistico con piani alimentari calibrati sulle necessità del bambino/adolescente. Resta fondamentale il coinvolgimento familiare, strumento fondamentale per sostenere il cambiamento comportamentale e migliorare l’aderenza al trattamento. In casi particolarmente complessi, si rende necessaria l’integrazione con terapie farmacologiche, mirate alla gestione dell’ansia associata alla fobia alimentare.

    L’ARFID si impone come un disturbo in forte ascesa nella psicopatologia evolutiva, richiedendo un riconoscimento precoce e un intervento specialistico tempestivo. La crescente mole di dati epidemiologici e clinici a livello europeo impone alla comunità scientifica un impegno costante nell’affinare strumenti diagnostici e strategie terapeutiche, al fine di garantire a bambini e adolescenti un percorso di cura efficace e rispettoso delle loro peculiari esigenze di crescita.

  • Stress: il malessere moderno

    Stress: il malessere moderno

    l concetto di stress, oggi ampiamente usato in ambito psicologico, medico e sociale, trova le sue radici nella medicina del primo Novecento, grazie agli studi del fisiologo Hans Selye. Fu proprio Selye, nel 1936, a introdurre per la prima volta il termine “stress” in un contesto scientifico, definendolo come la risposta aspecifica dell’organismo a ogni richiesta effettuata su di esso. Da queste osservazioni nacque la teoria della General Adaptation Syndrome, una sindrome che descrive la risposta fisiologica allo stress in tre fasi distinte: allarme, resistenza ed esaurimento. Questo modello rimane un punto di riferimento fondamentale per la comprensione clinica del fenomeno. Negli anni ’80, Lazarus e Folkman riformularono il concetto in chiave cognitiva, definendo lo stress come un’interazione dinamica tra persona e ambiente, influenzata dalla valutazione soggettiva degli eventi stressanti e dalle risorse di coping disponibili.

    Lo stress, in questa visione ampliata, si configura non solo come una tensione nervosa ma come una risposta sistemica e complessa, che coinvolge meccanismi neuroendocrini, immunitari e psicologici. Recenti studi hanno confermato il ruolo centrale degli assi HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene) e SAM (sistema simpatico-adreno-midollare) nella risposta allo stress, con attivazione ormonale che prepara l’organismo ad affrontare situazioni percepite come minacciose (NCBI). Questa attivazione, se cronica, può causare disfunzioni nel sistema immunitario, disordini dell’umore e patologie psicosomatiche.

    Secondo il rapporto Stress in America 2024 dell’American Psychological Association, oltre il 70% degli adulti americani indica lo stress per il futuro della società come una fonte importante di disagio (APA). A livello globale, lo stress sul posto di lavoro è in forte crescita: un report del 2024 rivela che il 60% dei lavoratori riferisce un aumento dello stress professionale, con il 79% che lo identifica come la principale causa di malessere.

    L’impatto dello stress sulla salute mentale è ulteriormente documentato da studi che mostrano come l’attivazione prolungata delle risorse cognitive in condizioni di stress alteri la capacità di regolazione emotiva e decisionale. A livello fisiologico, la variabilità della frequenza cardiaca (HRV) si è rivelata un indicatore affidabile dello stato di stress: livelli ridotti di HRV sono associati a una maggiore vulnerabilità psicologica e a esaurimento emotivo.

    La psiconeuroimmunologia, infine, ha dimostrato come lo stress moduli le risposte immunitarie: la presenza prolungata di citochine infiammatorie può facilitare l’insorgenza di malattie croniche, mentre interventi psicologici adeguati — in particolare la terapia cognitivo-comportamentale — hanno mostrato efficacia nel ridurre questi marker biologici e migliorare la qualità della vita.

    In definitiva, comprendere lo stress nella sua evoluzione storica e scientifica significa riconoscerne la natura multidimensionale, che richiede un approccio clinico integrato e personalizzato, capace di coniugare diagnosi psicologica, educazione emotiva e promozione del benessere mentale.

  • Cherofobia: il timore della felicità nel limbo della vita quotidiana

    Cherofobia: il timore della felicità nel limbo della vita quotidiana

    In un’epoca in cui si celebra la felicità come obiettivo supremo, cresce silenziosamente una generazione che non sa più cosa significhi essere felici, o che teme di esserlo. La cherofobia, termine derivante dal greco chairo (rallegrarsi) e phobos (paura), indica una condizione psicologica ancora poco esplorata, ma sempre più presente nei racconti clinici: il timore, spesso inconscio, di provare emozioni positive, perché associate al rischio, alla perdita o al fallimento. Un limbo esistenziale che paralizza la possibilità di sentire.

    Chi soffre di cherofobia non è necessariamente depresso nel senso clinico del termine, ma si trova sospeso in uno stato di anestesia affettiva, in cui la serenità è vissuta come sospetta e la quotidianità si colora di una tonalità grigia, priva di slanci, ma anche priva di autentico dolore. Come nota la psicologa Lucy Foulkes (University of Oxford), in Losing Our Minds (2021), molti giovani adulti oggi si muovono dentro una zona emotiva neutra, quasi dissociativa, dove la felicità non è negata, ma evitata. Ciò avviene spesso per ragioni apprese: da un lato vi è una cultura che ipervaluta la prestazione e considera la leggerezza come un disvalore; dall’altro, esperienze infantili di instabilità emotiva possono portare il soggetto a legare la gioia a un imminente trauma, come se ogni felicità portasse in sé il seme della sua fine.

    La cherofobia non è solo una reazione individuale, ma un sintomo culturale. In un mondo iperproduttivo e cronicamente connesso, la felicità è diventata un compito da raggiungere, una prestazione da dimostrare. Lo stress cronico, la pressione sociale e il confronto digitale costante alimentano una condizione di happiness anxiety, come definita in una recente ricerca pubblicata nel Journal of Affective Disorders (2022), in cui il 37% dei soggetti under 35 intervistati riferisce di provare disagio di fronte a momenti di apparente felicità. Questo disagio non è legato alla tristezza, ma all’incapacità di sostare nel piacere.

    La neuroscienza offre un ulteriore sguardo: studi di neuroimaging condotti presso l’Università di Tokyo (2019) mostrano che, in soggetti con alti livelli di cherofobia, si osserva una minore attivazione dell’area ventromediale prefrontale e dell’amigdala quando esposti a stimoli positivi. Ciò suggerisce una disregolazione della risposta dopaminergica, con una tendenza a “disinnescare” l’emozione prima che possa stabilizzarsi. In parole semplici: il cervello impara a non fidarsi della felicità.

    Il filosofo e psichiatra Viktor Frankl, sopravvissuto ai campi di sterminio e padre della logoterapia, sosteneva che la felicità non va cercata, ma segue come conseguenza di una vita dotata di significato. Eppure oggi il significato sembra latitare, sommerso da urgenze, impegni e richieste. La perdita di rituali, la dissoluzione delle comunità e la virtualizzazione del legame sociale rendono la quotidianità un tempo non abitato, ma subito.

    La psicologia contemporanea suggerisce un ritorno alla microesperienza: imparare a riconoscere le piccole gioie, riabilitare la lentezza, riappropriarsi del silenzio. Come afferma il terapeuta statunitense Jonah Paquette nel volume Real Happiness (2020), occorre educare il sistema nervoso alla gratitudine e alla presenza, allenando il cervello a tollerare anche la calma, non solo l’ansia. Il benessere non è l’euforia, ma la disponibilità a ricevere senza attaccarsi, a sentire senza difendersi, a vivere senza correre.

    Nella dimensione clinica, la cherofobia si lega spesso a tratti ansiosi, a storie di controllo affettivo o a dinamiche di attaccamento disfunzionale. Il lavoro terapeutico punta non a “curare” la felicità, ma a renderla accessibile, sostenibile, non colpevole. In un mondo dove la felicità è slogan, chi la teme non è malato, ma forse semplicemente stanco di inseguire un ideale irraggiungibile. La vera sfida educativa e terapeutica, oggi, è re-imparare a sostare nel quotidiano, a non temere la luce dopo tanta ombra, a non sabotarci proprio quando la vita ci accarezza.

  • Disregolazione emotiva nei bambini

    Disregolazione emotiva nei bambini

    La disregolazione emotiva nei bambini rappresenta oggi una delle principali sfide educative e cliniche che genitori, insegnanti e professionisti della salute mentale si trovano ad affrontare. Non si tratta semplicemente di capricci o di un temperamento difficile, ma di una condizione complessa in cui il bambino manifesta un’incapacità persistente di modulare in modo adeguato le proprie emozioni, con ripercussioni significative sul comportamento, sull’apprendimento e sulla qualità delle relazioni.

    In un mondo sempre più stimolante e talvolta disorientante, il bisogno di un’alfabetizzazione emotiva precoce non è mai stato così urgente. Studi recenti, come quello pubblicato sull’International Journal of Environmental Research and Public Health (2020), hanno evidenziato che circa il 30% dei bambini in età prescolare manifesta segnali di disregolazione emotiva che, se non riconosciuti e trattati, possono evolvere in disturbi più strutturati nell’adolescenza, come il disturbo oppositivo-provocatorio o i disturbi d’ansia. Un’ulteriore indagine del Child Mind Institute (2023) sottolinea come la disregolazione emotiva sia frequentemente associata a esperienze di stress cronico, stili educativi incoerenti o traumi non elaborati, e che essa sia spesso sottostimata nei contesti scolastici. Dal punto di vista neurobiologico, emerge un coinvolgimento diretto della corteccia prefrontale, ancora in fase di sviluppo nei primi anni di vita, e del sistema limbico, responsabile della reattività emotiva: una combinazione che rende i bambini particolarmente vulnerabili a sbalzi d’umore, scatti di rabbia o reazioni sproporzionate, apparentemente ingiustificate. Tuttavia, la disregolazione non è solo un sintomo da contenere, ma un messaggio da decifrare, un segnale del bisogno urgente di contenimento, guida e presenza empatica.

    La prospettiva pedagogica invita a non reprimere, ma a tradurre l’emozione in parola, a dare un nome all’impulso, a costruire nel bambino – anche attraverso il gioco simbolico, la narrazione e l’ascolto – una grammatica interiore capace di trasformare il caos emotivo in narrazione coerente di sé. Come afferma il neuropsichiatra infantile Daniel J. Siegel, la co-regolazione emotiva da parte dell’adulto è la base su cui si costruisce l’autoregolazione del bambino: non si può pretendere equilibrio emotivo da chi ancora non lo ha mai sperimentato.

    In un’epoca in cui si parla molto di competenze cognitive e prestazione scolastica, questo tipo di fragilità, silenziosa e trasversale, rischia di passare inosservata, con esiti che possono protrarsi nell’adolescenza e oltre. Investire in prevenzione, formazione e ascolto significa non solo contenere l’insorgenza di patologie, ma coltivare il benessere psichico e relazionale delle future generazioni.