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  • Dipendenza da internet: impatti psicologici e come superarla

    Dipendenza da internet: impatti psicologici e come superarla

    La dipendenza da Internet, tecnicamente definita Internet Addiction Disorder (IAD) o Disturbo da Dipendenza da Internet, rappresenta un fenomeno in continua espansione, soprattutto tra gli adolescenti. Si tratta di una dipendenza comportamentale caratterizzata da un utilizzo eccessivo, incontrollato e compulsivo della rete, con conseguenze negative sulla vita personale, sociale, scolastica e lavorativa. Sebbene non sia ancora ufficialmente riconosciuta come disturbo a sé stante nel DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), la IAD è oggetto di numerosi studi scientifici, che ne evidenziano l’impatto crescente nella società digitale. Altri termini utilizzati in ambito scientifico per descrivere questa problematica includono Problematic Internet Use (PIU), Compulsive Internet Use (CIU) e, per specifici casi legati ai videogiochi, Gaming Disorder, quest’ultimo già riconosciuto come patologia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nella classificazione ICD-11. 

    Negli adolescenti, il fenomeno della dipendenza da Internet si sta diffondendo con caratteristiche quasi epidemiche. Secondo Federico Tonioni, responsabile del primo ambulatorio italiano dedicato a questo disturbo presso il Policlinico Gemelli di Roma, molti giovani sviluppano un rapporto malsano con il web, soprattutto attraverso un uso compulsivo di social network come Facebook, Instagram, TikTok e chat. Questo tipo di comportamento, definito anche “binge digitale“, è caratterizzato da sessioni di connessione prolungate e incontrollate che riducono la capacità di interazione reale. Il web tende a privilegiare relazioni duali e virtuali, che spesso sostituiscono il dialogo diretto e l’incontro personale, con conseguenti difficoltà nello sviluppo di relazioni autentiche e nel rafforzamento dell’identità personale.  

    Dal punto di vista clinico, i sintomi della dipendenza da Internet sono simili a quelli di altre dipendenze comportamentali. I soggetti colpiti possono manifestare craving (desiderio incontrollabile di connettersi), irritabilità e disagio quando non hanno accesso alla rete, oltre a impulsività e compromissione delle capacità cognitive. Questo disturbo è spesso associato ad altri problemi psichiatrici, tra cui depressione, ansia sociale, disturbi di rabbia e dipendenza da sostanze. Studi neuroscientifici, come quelli pubblicati sull’American Journal of Psychiatry, hanno dimostrato che l’abuso della rete altera il sistema di ricompensa del cervello, favorendo una ricerca continua di gratificazione immediata, tipica delle interazioni virtuali come i “like” e i commenti sui social media.  

    In adolescenza, la situazione si complica ulteriormente a causa della delicata fase di sviluppo identitario. L’immersione nel mondo virtuale, descritta dal filosofo Jean Baudrillard come un’esperienza in cui “ci si tuffa” senza confrontarsi con la realtà, può confondere i giovani su chi sono realmente e su chi vogliono diventare. La sperimentazione di identità virtuali in questa fase della vita può aumentare il rischio di alienazione sociale e ostacolare la costruzione di un progetto personale radicato nella realtà.  

    La prima ricerca sistematica sul fenomeno, condotta dalla dottoressa Kimberly Young nel 1996, ha evidenziato come l’abuso della rete possa provocare isolamento sociale e una significativa riduzione della qualità della vita. Da allora, la comunità scientifica ha approfondito lo studio della IAD e delle sue varianti, proponendo trattamenti basati su approcci multidisciplinari che coinvolgono psicologi, psichiatri e pedagogisti. Interventi educativi e terapeutici mirano ad aiutare i giovani a sviluppare un uso consapevole e moderato della rete, promuovendo al contempo il recupero delle relazioni reali e il rafforzamento dell’autostima.  

    In conclusione, la dipendenza da Internet rappresenta una delle maggiori sfide per la società contemporanea. Il riconoscimento della sua natura tecnica e scientifica è essenziale per sviluppare strategie preventive e terapeutiche efficaci. Solo attraverso un approccio integrato sarà possibile aiutare le nuove generazioni a trovare un equilibrio tra la dimensione virtuale e quella reale, riducendo il rischio di alienazione e promuovendo una crescita personale sostenibile e autentica.

  • “Siblings e neurodiversità: la sfida invisibile e il cammino verso la resilienza familiare”

    “Siblings e neurodiversità: la sfida invisibile e il cammino verso la resilienza familiare”

    La sofferenza familiare che deriva dalla gestione di un figlio neurodiverso rappresenta un’esperienza complessa che mette a dura prova la capacità di resilienza delle famiglie. Sul piano emotivo, questo dolore si configura come un’esperienza totalizzante, che modifica radicalmente le dinamiche relazionali e impone un riadattamento costante. La neurodiversità, termine introdotto da Thomas Armstrong per descrivere la diversità neurologica come elemento naturale della condizione umana, viene oggi interpretata non come un deficit, ma come un’opportunità per comprendere la varietà e la complessità del cervello umano. Tuttavia, l’ecosistema familiare spesso si trova in una situazione di stress cronico che coinvolge tutti i suoi membri, inclusi i fratelli e le sorelle dei bambini con disabilità, noti come siblings

    I siblings, come dimostrato da numerosi studi, tra cui quelli condotti da Meyer e Vadasy (2008), sperimentano un doppio carico emotivo: da un lato devono far fronte al senso di abbandono derivante dall’attenzione dei genitori focalizzata sul fratello con disabilità, dall’altro affrontano un’eccessiva responsabilizzazione che accelera il loro sviluppo psicologico in direzione di un’adultizzazione precoce. La letteratura psicologica evidenzia come tali dinamiche possano portare a sentimenti di gelosia, rabbia e tristezza, che, se non riconosciuti e gestiti, possono evolvere in ansia, depressione e difficoltà di adattamento sociale. Studi di Fisman e Wolf (1991) hanno evidenziato che i siblings di bambini con autismo o altre forme di disabilità tendono a sviluppare livelli elevati di empatia, ma anche un rischio maggiore di disagio emotivo rispetto ai coetanei. 

    Dal punto di vista neurobiologico, il continuo stato di stress può influenzare lo sviluppo delle aree cerebrali legate alla regolazione emotiva, come evidenziato dalle ricerche di Gunnar e Quevedo (2007), che sottolineano il ruolo dell’ambiente familiare nella modulazione della risposta allo stress. Per questo motivo, è fondamentale adottare un approccio sistemico che includa l’intera famiglia, promuovendo interventi psicoeducativi mirati non solo al bambino con disabilità, ma anche ai siblings. 

    Un esempio efficace di supporto è rappresentato dai programmi di intervento specifici per siblings, come il Sibshop Program sviluppato da Don Meyer, che mira a fornire un contesto sicuro per condividere esperienze, sviluppare competenze sociali e costruire reti di supporto tra pari. Tali interventi si sono dimostrati efficaci nel ridurre i livelli di stress e nel migliorare il benessere emotivo, come riportato da interventi documentati nel Journal of Pediatric Psychology (Dyke et al., 2009). Inoltre, è cruciale promuovere il dialogo aperto in famiglia, affinché i siblings possano esprimere liberamente le proprie emozioni e sentirsi inclusi in un progetto condiviso.

    Il compito dei professionisti, in questo contesto, è di sensibilizzare le famiglie sull’importanza di bilanciare le attenzioni, fornire sostegno psicologico e offrire strumenti per affrontare i bisogni di tutti i membri, senza trascurare l’importanza di momenti dedicati esclusivamente ai siblings. Solo attraverso un approccio globale, basato su evidenze scientifiche e su un profondo rispetto per la complessità delle relazioni familiari, è possibile trasformare le sfide della neurodiversità in opportunità di crescita e resilienza per l’intero nucleo familiare.

  • “L’amicizia autentica: il tesoro perduto nel mondo digitale”

    “L’amicizia autentica: il tesoro perduto nel mondo digitale”

    Danilo Littarru

    Nei tempi attuali, la parola amicizia è fortemente inflazionata e svilita nella sua portata reale, e i social sono la cartina di tornasole che ben dimostrano ciò, e che richiamano altresì la necessità di fermarsi un attimo per capirne l’importanza e la soavità del termine. La parola amicizia esprime un concetto maturo e profondo, sminuito, spesso, dalla banalità dell’uso quotidiano che ne facciamo. I numeri altisonanti di amicizie virtuali, talvolta, non rendono merito all’aspetto valoriale dell’amicizia.

    Turkle, psicologo sociale del Massachusetts Institute of Technology, nel libro Alone Togetherbasandosi su una ricerca fatta per quindici anni basata sull’osservazione dei bambini e delle interazioni degli adulti con la tecnologia, arriva alla conclusione che stiamo perdendo il significato della voce umana. Il termine “amico” è da ricondurre direttamente al latino amicus che ha la stessa radice di amare per cui significa letteralmente “colui che si ama”. L’amore amicale è proprio quello che i greci chiamerebbero φιλία (philia), un sentimento fraterno, assolutamente disinteressato, un’affinità che costruisce e ricostruisce continuamente lo stesso rapporto e che accresce le vite degli attori coinvolti.

    Ricorda la scrittrice Dacia Maraini che un rapporto d’amicizia che sia fra uomini o donne, è sempre un rapporto d’amore. E in una carezza, in un abbraccio, in una stretta di mano a volte c’è più sensualità che nel vero e proprio atto d’amore. Il tema dell’amicizia è stato motivo d’ispirazione per molti letterati, poeti ed artisti. Tutto questo perché i rapporti umani segnano la nostra vita e fanno parte del nostro cammino emotivo e di crescita personale. Sosteneva Epicuro: “Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande è l’amicizia”. Nella Sacra Scrittura, troviamo diversi passaggi sull’amicizia, celeberrimi sono i passi del Siracide (6,14-15) in cui si recita: Un amico fedele è rifugio sicuro: chi lo trova, trova un tesoroL’amico fedele è un balsamo nella vita. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è misura per il suo valore. L’autenticità di una amicizia è allora data dalla possibilità di essere e sentirsi se stessi, accettati senza riserve. Secondo Cicerone siamo nati affinché ci fosse fra tutti un legame, e l’amicizia altro non è che una armonia di tutte le cose umane e divine, unite con la benevolenza e l’affetto. Ciò che cementa questo legame è la ricerca della virtù nell’altro. Non basta passare del tempo assieme per essere amici, frequentare gli stessi luoghi, avere gli stessi interessi, o fingersi “amico” per interesse, in un’ottica di tornaconto personale, perché così si svilirebbe l’essenza stessa dell’amicizia.

    L’amicizia richiede la capacità di ascolto empatico, fondato sulla comprensione reale della persona e non un ascolto apatico, in cui l’interesse è concentrato sui fatti e sulle idee piuttosto che sulla comprensione. Da quanto emerso, appare evidente l’enorme distanza tra l’amicizia reale e quella virtuale, dove il concetto stesso di amicizia risulta liquefatto e svuotato di significato. Si tende infatti a definire “amici” anche persone sconosciute, con cui si condividono superficialmente intimità e aspetti personali.

    La quantità spesso non va a braccetto con la preziosità, per questo, quando si finisce per chiamare amico ogni persona che neppure si conosce, trovo che ci sia una reale e malsana banalizzazione dell’amicizia stessa. Rimbalza ancora una volta la domanda che Seneca pone, nel De vita beataPerché non cercare un bene da potersi intimamente sentire, piuttosto che uno da mettere in vetrina? Amicizia resta la parola più ricercata e al contempo più mendicata sul web, in una dinamica di avere o togliere che spiazza e provoca ad una riflessione profonda.

    Educare al senso dell’amicizia diventa oggi più che mai importante, affinché, soprattutto i giovani possano superare la logica numerica delle amicizie virtuali come patente che legittima il prestigio sociale. Trascendere gli steccati che la virtualità comporta il recupero del senso della voce umana, e ci riabitua ad addomesticarci, proprio come ricorda Antoine de Saint-Exupéry nel Il Piccolo PrincipeNon si conoscono che le cose che si addomesticano. Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!

  • “Adolescenza e suicidio: capire il dolore per prevenire il gesto estremo”

    “Adolescenza e suicidio: capire il dolore per prevenire il gesto estremo”

    La solitudine, l’incomunicabilità, i conflitti interiori e le relazioni familiari difficili rappresentano esperienze comuni nell’adolescenza, una fase delicata di transizione verso l’età adulta. Tuttavia, in alcuni casi, questo percorso incontra ostacoli insormontabili, che possono culminare in un gesto estremo: il suicidio. Un dramma che attraversa silenziosamente il tessuto sociale e che spesso sfugge alla comprensione collettiva.

    Quando il dolore interiore diventa insopportabile, gli affetti, le amicizie e le passioni perdono significato, e il suicidio diventa l’unica via percepita per sfuggire alla sofferenza. Questo gesto, pur nella sua estrema drammaticità, rappresenta spesso un grido d’aiuto, un ultimo tentativo di comunicare un disagio profondo e radicato. Come rileva l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il suicidio è attualmente la terza causa di morte tra gli adolescenti e i giovani (15-29 anni). In Italia, secondo i dati ISTAT più recenti, i suicidi costituiscono il 12% delle morti in questa fascia d’età, una cifra che richiede una riflessione urgente e mirata.

    Il suicidio adolescenziale è il risultato di una complessa interazione tra fattori personali, familiari e ambientali. Tra i principali fattori di rischio emergono:

    1. Condizioni psicopatologiche: Depressione maggiore, disturbi d’ansia, disturbo bipolare e disturbi della personalità sono frequentemente associati al rischio di suicidio.
    2. Eventi traumatici: Abusi, violenze, lutti o separazioni familiari possono generare un trauma emotivo difficile da elaborare.
    3. Disfunzioni familiari: Rapporti conflittuali, mancanza di supporto emotivo e comunicazione inefficace sono elementi spesso ricorrenti nei casi di suicidio giovanile.
    4. Fattori socio-ambientali: Il bullismo, il cyberbullismo e la pressione accademica contribuiscono ad alimentare il senso di inadeguatezza e isolamento.
    5. Fragilità narcisistica: Gli adolescenti con un forte bisogno di rispecchiamento e conferma da parte degli altri possono sviluppare una vulnerabilità acuta quando queste aspettative vengono deluse.

    In molti casi, i suicidi non sono gesti improvvisi ma conseguenza di un processo che lascia segnali evidenti. Tra questi menzioniamo i:

    Segnali verbali: Frasi come “Non ce la faccio più” o “La vita non ha senso” possono essere un allarme.

    Cambiamenti comportamentali: Isolamento, perdita di interesse per attività amate, calo nel rendimento scolastico o cambiamenti drastici nell’umore.

    Comportamenti a rischio: Automutilazioni, abuso di sostanze o condotte pericolose.

    La prevenzione è un elemento cruciale nella lotta contro il suicidio adolescenziale. Secondo l’OMS, il 90% dei suicidi potrebbe essere prevenuto attraverso interventi tempestivi. Quali le strategie chiave? Eccone alcune:

    Educazione e sensibilizzazione: Promuovere campagne che riducano lo stigma verso il disagio mentale e incoraggino la ricerca di aiuto.

    Supporto psicologico: Offrire accesso agevole a servizi di consulenza e terapia, con particolare attenzione a scuole e comunità.

    Monitoraggio e ascolto: Formare educatori, genitori e operatori sanitari a riconoscere i segnali di disagio e a intervenire tempestivamente.

    Costruzione di resilienza: Insegnare agli adolescenti a gestire lo stress, sviluppare un’autostima solida e costruire relazioni positive.

    Le neuroscienze offrono una prospettiva preziosa per comprendere i meccanismi alla base del suicidio adolescenziale. Studi recenti hanno evidenziato come disfunzioni nella regolazione emotiva e nei circuiti della ricompensa (coinvolgenti strutture come l’amigdala e il sistema limbico) possano contribuire alla vulnerabilità al suicidio. Tecniche come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e la mindfulness, supportate da dati neuroscentifici, si sono dimostrate efficaci nel migliorare la regolazione emotiva e ridurre il rischio suicidario.Il suicidio adolescenziale è un fenomeno complesso che richiede un approccio integrato, in cui la prevenzione, il supporto psicologico e la sensibilizzazione giocano un ruolo centrale.

    Riconoscere i segnali di allarme, promuovere un dialogo aperto sul disagio mentale e facilitare l’accesso a interventi mirati sono passi essenziali per affrontare questa emergenza sociale. Ogni vita salvata rappresenta una vittoria non solo per l’individuo, ma per l’intera comunità.

    1. La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

      La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

      Gent.mo Professore, ho insegnato per 40 anni in un liceo. Negli ultimi anni ho riscontrato negli alunni la difficoltà di memorizzazione delle nozioni. A distanza di 50 anni ricordo ancora le poesie insegnatemi nelle elementari. Esiste una causa e degli strumenti che possano compensare questa difficoltà? Marcello

      Parto da una premessa. Lei mi parla dei tempi andati, percepisco una certa nostalgia e struggenza, come è giusto che sia, però dobbiamo prendere atto che i tempi attuali sono terribilmente differenti e terribilmente difficili. Il cambio generazionale è violento, da un biennio all’altro ci troviamo dinanzi a ragazzi che arrivano con scarse basi di scolarizzazione, con problemi comportamentali, con certificazioni che attestano disturbi dell’apprendimento e bisogni educativi speciali,

      Quasi ogni giorno siamo costretti a chiamare le ambulanze per un pronto intervento per attacchi di ansia e panico. I tempi che furono non possono essere un metro di paragone con la generazione attuale. Troppe cose son cambiate nel frattempo, in primis la famiglia, la visione della scuola e dell’insegnante, e soprattutto non siamo ancora preparati a contenere e ad educare ad uso corretto delle tecnologie informatiche. Proprio su quest’ultimo aspetto, recenti studi sottolineano che oramai ci siamo abituati a vivere con la certezza che le risposte che ci servono sono a portata di un clic, concependo il web come una memoria esterna alternativa. Quando ci manca una informazione o non ricordiamo qualcosa, ci viene in aiuto Mister Google. Siamo cresciuti nel trovare la strada che ci porta a trovare l’informazione a noi utile, ma rispetto a qualche decennio fa, memorizziamo molto meno alcune informazioni. Secondo una ricerca dell’Università di Fairfield, è un fenomeno che sembra estendersi anche alle immagini: persino fare fotografie può ridurre i ricordi delle immagini viste. La memoria, se non viene allenata, al pari della muscolatura, tende ad inflaccidirsi, per questo resta fondamentale un training continuo. Oggi, come sottolinea A. Keen, in ‘The Internet is Not the Answer‘, (Internet non è la risposta) allenamento e rigore mentale sono andati perduti.

      Spesso capita di trovare un numero consistente di allievi che nonostante si applichino nello studio non riescano a ricordare, né ad esprimerle compiutamente ciò che hanno studiato. Dopo la fatica, i risultati non sempre sono commisurati allo sforzo e producono risultati scadenti, creando scoraggiamento e sconforto. Neuroscienze e neuropsicologia, che da anni studiano il fenomeno, danno delle risposte in merito, soprattutto sullo studio della memoria nelle sue varie manifestazioni, ma come spesso succede le conoscenze che emergono, rimangono confinate nel ristretto ambito clinico-riabilitativo, per pochi eletti, e non giungono alla destinazione interessata e coinvolta per prima: la scuola.  

      André Rey, nel 1958 ha strutturato una prova che consente di misurare esattamente l’abilità chiamata prova di apprendimento verbale. Al soggetto è presentata una lista di 15 parole che deve cercare di ricordare al termine di ogni presentazione, per 5 volte registrando quanti elementi vengono ricordati. Successivamente il soggetto viene distratto con attività spaziali e dopo 15 minuti gli viene chiesto di ripetere la lista.La curva di apprendimento, in genere, mostra un rapido incremento nel numero di parole ricordate dopo la seconda somministrazione. Il numero di parole cresce fino ad avvicinarsi a 15 al quarto tentativo e spesso tutte le parole vengono ricordate all’ultima ripetizione. Dopo 15 minuti la maggior parte delle persone ricorda l’intera lista senza difficoltà. Ecco dunque un aspetto interessante che deve farci riflettere: nonostante la fase di apprendimento della lista di parole, il recupero a distanza delle informazioni apprese può essere inefficiente: l’immagazzinamento funziona, ma il ricordo no. Siffatta prova conferma quello che a volte si verifica nell’apprendimento scolastico, ovvero, informazioni che al termine del pomeriggio di studio sembravano immagazzinate, dopo qualche ora non sono più recuperabili. Può esistere apprendimento senza ricordo?  Le neuroscienze ci aiutano indicandoci che l’aspetto importante è capire se il soggetto non ricorda o non immagazzina. Sovente si immagazzina ma non si ricorda, e questa è una situazione che trova un trend più frequente nelle nuove generazioni.

      Il problema è risolvibile, con strumenti compensativi, che sovente restano sconosciuti agli stessi insegnanti. Ad uno studente che ha davvero problemi a ricordare una formula o una regola, basta dargli il magazzino delle formule e delle regole a disposizione e lui supererà le sue difficoltà. Gli strumenti ci sono, occorre un utilizzo corretto senza preconcetti di sorta.

    2. Intelligenza artificiale e scuola: opportunità o minaccia per i docenti?

      Intelligenza artificiale e scuola: opportunità o minaccia per i docenti?

      L’alone di diffidenza che aleggia sulla scuola è oggi più che mai fitto. Ormai da decenni dibattiti, confronti, manifestazioni di protesta, scioperi, indicano una sofferenza congenita della scuola italiana accusata di non essere più al passo con i tempi, e ritenuta da più parti come un’agenzia incapace di educare, prima ancora di istruire. Non si ricorda un ministro che, subentrato a quello precedente, non abbia portato modifiche o novità, provvedendo ad elaborare e varare la propria ipotesi di “riforma” istituzionale, ad una visione propria, non agevolando un’azione educativa e ristrutturattiva del sistema capace di progettualità rinnovata e condivisa.

      Appare indispensabile trovare nuove strategie educative, per far riacquisire quel ruolo fondamentale che la scuola ha da sempre ricoperto, far riscoprire l’importanza dell’insegnante, restituendoli quel ruolo professionale e sociale, offeso da banali e diffusi luoghi comuni, sovente screditanti, che provocano una distorsione delle reali difficoltà.  Ammesso che le difficoltà si intersecano su vari fronti, (dall’architettura scolastica che andrebbe rivista, alla messa in sicurezza degli edifici, al curriculo formativo, alle retribuzioni dei docenti) occorre ripartire da una formazione e da una selezione più attenta di chi ha una responsabilità e un ruolo così decisivo nella crescita di bambini e ragazzi.

      Forse, parlare di formazione ed educazione dei formatori, può sembrare retrogrado, se ci mettiamo a confronto con realtà diverse dalle nostre. In Nuova Zelanda, da circa un anno, in una scuola elementare, tiene banco il Prof. Will, non un docente in carne ed ossa ma un avatar, un software di Intelligenza Artificiale. (Questa iniziativa fa parte del programma “Be Sustainable with Energy“, promosso dall’azienda energetica Vector in collaborazione con la società di intelligenza artificiale Soul Machines. Gli studenti interagiscono con Will tramite computer, tablet o smartphone, partecipando a lezioni e verifiche interattive).

       La sua funzione, è quella di umanizzare l’intelligenza artificiale per migliorare l’umanità. L’apporto di ricercatori, neuroscienziati, psicologi e pensatori innovativi, è finalizzato a ripensare al rapporto-connessione con le macchine, creando umani artificiali incredibilmente realistici, emotivamente sensibili con personalità e carattere che consentono alle macchine di interagire. Secondo lo storico contemporaneo e vice-rettore dell’Università di Buckingham, Sir Anthony Seldon, che si occupa di educazione, gli avatar saranno destinati a breve a scalzare i docenti umani tra meno di 10 anni. Anche la scuola, verrebbe dunque macinata dal fenomeno della robotizzazione del lavoro, aprendo scenari nuovi e fino a qualche decennio fà impensabili e a mio parere inquietanti.

      Al di là dei punti di forza dell’informatizzazione dei sistemi lavorativi, la domanda che dobbiamo porci è relativa a quale uomo del futuro stiamo costruendo o vogliamo costruire. È bene rimarcare che non esiste tecnologia che possa dotare una macchina “intelligente” di autocoscienza e di emozioni, in grado di superare e schiacciare l’uomo. Nel futuro prossimo si investiranno ingenti risorse per migliorare e perfezionare l’intelligenza artificiale e robotica ma è necessario e doveroso, circoscrivere un quadro etico-antropologico e giuridico che tuteli fortemente l’uomo, e nella fattispecie, non ci si dimentichi, in nome di un progresso arrogante, dell’apporto dato dal sapere umanistico e da quel linguaggio sequenziale e analitico, che è stato alla base del pensiero occidentale per circa duemila centocinquanta anni di storia.

      La virtute e canoscenza, che Dante cita nel XXVI canto dell’inferno, richiama all’essere virtuosi nelle totalità delle dimensioni della personalità per riappropriarsi dell’incalcolabile sapere accumulato dagli uomini nel corso dei millenni. Forse la scuola del futuro dovrebbe ripartire da qui, ri-attivando e rafforzando quel dinamismo dell’ex-ducere che richiede di tirar fuori il meglio dai ragazzi con la testimonianza e l’esempio di insegnanti-educatori equilibrati e consapevoli, per favorire la ricerca, il discernimento, la scoperta finalizzata a tessere e costruire virtù e saperi. La missione della scuola, non è allora giudicare, scrutinare, ma istituire processi di formazione “sartoriali”, dare forma generativa all’esistenza giovane, oggi appiattita da modelli stereotipati ed uniformanti dove le specificità tendono ad appiattirsi. Ripartendo dalla condivisione di obiettivi, di metodi, di strategie, forse si può intavolare un discorso che sappia ribaltare le logiche puntiformi del qui e ora e possa aprirsi ad orizzonti ricchi di valore e di senso.  I giovani, come amava ricordare Joseph Joubert hanno più bisogno di esempi che di critiche.

    3. “Ferite, conflitti e rinascita: perché perdonare ci libera”.

      “Ferite, conflitti e rinascita: perché perdonare ci libera”.

      Maria, una mia lettrice, mi ha scritto raccontando il tormento che vive con i suoi genitori, in particolare con la madre che non sente e vede da anni. Vive una situazione di travaglio interiore molto acceso e mi chiede se si può perdonare e come incide sul benessere mentale.

      Spesso le relazioni interpersonali, chiamate ad appagare il primario bisogno umano di affiliazione, possono essere anche fonte di conflitti, lacerazioni profonde e dolorose ferite. I legami parentali sono quelli che più frequentemente generano conflitti, rotture, sofferenze e speranze disattese, anche in età adulta.  

       Si sente spesso dire dai genitori che i figli sono dei giudici spietati. Forse c’è un fondo di verità, soprattutto quando, rileggendo la nostra storia personale, riemergono ricordi dolorosi o viviamo la disillusione di non essere amati o di non esserlo stati come avremmo desiderato. La ricerca di un’equa logica “redistributiva” appartiene alla natura umana ed è biologicamente e psicologicamente radicata.  

      Un fattore significativo, che può aiutare a fronteggiare le inevitabili fratture relazionali, è proprio la capacità di perdonare. Tradizionalmente legato alla sfera religiosa, il perdono è diventato, negli ultimi anni, un oggetto di interesse scientifico. Diversi studi lo hanno analizzato dal punto di vista psicologico, riconoscendolo come un meccanismo sociale fondamentale.  

      Perdonare consiste nel modificare l’emozione legata a una situazione dolorosa, trovando un equilibrio che permetta di ridefinire l’evento in termini costruttivi. Come si può dedurre, il perdono è un fenomeno complesso che coinvolge aspetti affettivi, cognitivi e comportamentali. Le emozioni negative e il giudizio verso il “colpevole” vengono ridotti, senza negare il diritto di provarle, ma guardando al colpevole con compassione, benevolenza e amore.  

      Ci sono dei passaggi necessari che aprono spiragli di risoluzione del conflitto interiore. La fase di Maria, è quella della “ruminazione cognitiva”, durante la quale la reazione emotiva iniziale si attenua, lasciando spazio a un atto volontario di rinuncia al conflitto.  

      Il processo di perdono si sviluppa in più fasi, tre delle quali sono fondamentali:  

      1. Piena espressione delle emozioni: accettare e riconoscere ciò che si prova.  

      2. Comprensione dell’evento: riflettere su ciò che è accaduto e sulle sue cause.  

      3. Decisione di perdonare: scegliere di non riferirsi più al passato e superare l’accaduto.  

      In psicoterapia, il perdono rappresenta un mezzo efficace per superare risentimenti, ansia e sensi di colpa, anche verso sé stessi, attraverso l’accettazione della propria storia personale. 

      Per quanto riguarda il percorso spirituale, sappiamo bene quanto la fede e la preghiera possano essere di aiuto nei momenti di difficoltà. Gesù Cristo ha fatto del perdono uno dei punti centrali del suo insegnamento. Non a caso una delle pagine più toccanti della Bibbia è la parabola del Figliol Prodigo o del Padre Misericordioso, che ben rappresenta il senso del perdono cristiano, anzi ne è la vera essenza. Il Padre perdona senza necessità di chiarimenti, senza proferire parole o pronunciare giudizi inutili. Basta un abbraccio lungo e silenzioso: è l’abbraccio di un padre e di una madre, come Rembrandt riuscirà a immortalare nel suo capolavoro custodito all’Hermitage di San Pietroburgo. 

      Un consiglio finale: oltre un sano cammino spirituale, sarebbe ottimale accompagnare le sue giornate con la lettura di un buon libro. Mi permetto di suggerirle quello scritto magistralmente da Sergio Prenot: “I piedi del figlio prodigo. Uno psicoterapeuta riflette sulle parabole della misericordia, son certo che potrebbe aiutarla nel suo percorso di rinascita personale, psichica e spirituale.  

    4. Analfabetismo etico nei giovani: cause, conseguenze e soluzioni educative

      Analfabetismo etico nei giovani: cause, conseguenze e soluzioni educative

      Oggi si parla frequentemente di emergenza educativa, urgenza e sfida educativa. Al di là delle dispute etimologiche, è fondamentale riconoscere che il problema esiste e coinvolge l’intero sistema educativo. I numerosi fatti di cronaca rappresentano la cartina al tornasole di uno svuotamento etico che desta preoccupazioni e solleva interrogativi, soprattutto in relazione all’analfabetismo etico manifestato dai giovani, in particolare dagli adolescenti, considerati la fascia più a rischio.  

      Come sottolinea Howard Gardner, psicologo e teorico delle intelligenze multiple, “L’educazione etica è essenziale per costruire una società capace di affrontare le sfide future“. Questo bisogno di valori ritorna con urgenza, richiesto da famiglie spesso lasciate sole e prive di risorse, da scuole che affrontano un quotidiano degrado, e dalla società intera, che vede messi in discussione i fondamenti del vivere comune.  

      Ripensare un’alfabetizzazione etica nei giovani significa promuovere una “cultura della vita” e della buona vita, come affermato nel report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che evidenzia come “l’educazione etica e la formazione alla cittadinanza siano strumenti essenziali per combattere fenomeni come dipendenze e disuguaglianze sociali”. Questo processo deve garantire una formazione permanente della coscienza, necessaria per sviluppare il senso civico e rendere i giovani cittadini consapevoli.  

      Alla base dell’emergenza educativa vi è una questione antropologica: è essenziale comprendere quale modello di uomo si voglia educare e cosa si intenda per educazione. Come sottolinea il pedagogista Paulo Freire, “Non c’è educazione neutrale; ogni azione educativa implica un orientamento etico e politico“.  

      Finché l’educazione sarà considerata come una serie di eventi spersonalizzati e privi di responsabilità, i fallimenti saranno inevitabili. Questo rischio è amplificato dalla mancanza di un dialogo sinergico tra le agenzie educative e dall’assenza di intenti condivisi, che porta ciascun ente a percorrere la propria strada in solitudine, senza entrare in relazione con gli altri.  

      Un esempio emblematico è il rapporto tra scuola e famiglia, spesso caratterizzato da conflitti e accuse reciproche. Le due istituzioni, invece di collaborare, tendono a incolparsi delle carenze educative, dimenticando di operare nello stesso ambito, seppur con ruoli differenti.  

      Oltre all’aspetto etico, l’educazione influisce anche sulla salute dei giovani. Studi dell’American Psychological Association (APA) confermano che “l’alfabetizzazione etica, unita a una solida educazione emotiva, riduce significativamente i comportamenti a rischio negli adolescenti“.  

      In un’epoca segnata da un aumento preoccupante di tossicodipendenze, alcolismo, malattie sessualmente trasmissibili e tecnodipendenze, diventa fondamentale ripensare il significato profondo dell’educazione. Secondo un recente studio pubblicato su The Lancet Public Health, “La mancanza di valori condivisi e di un’educazione etica strutturata è correlata a un incremento del 25% nei comportamenti a rischio tra i giovani”.  

      Per affrontare l’emergenza educativa, è necessario valorizzare una categoria pedagogica fondamentale: la cura educativa. Come sostiene il pedagogista Raffaele Mantegazza, “La cura è il presupposto imprescindibile dell’educazione; senza cura, non vi è formazione autentica“.  

      La cura educativa non deve essere vista come un elemento accessorio, ma come il cuore del rapporto educativo, capace di conferire ricchezza concettuale ed etica. L’educazione non può essere considerata una mera trasmissione di conoscenze, ma deve essere vista come un processo continuo di sviluppo delle potenzialità dell’essere umano.  

      In sintesi, per affrontare l’emergenza educativa e l’analfabetismo etico nei giovani, è necessario ripartire da un’antropologia educativa che metta al centro l’uomo e il suo sviluppo integrale. Come affermato da Edgar Morin, “L’educazione deve insegnare non solo a conoscere, ma a vivere, comprendere e costruire relazioni umane autentiche“.  

      Con un approccio condiviso e sinergico tra famiglia, scuola e società, è possibile offrire ai giovani strumenti concreti per diventare cittadini responsabili, capaci di affrontare le sfide del futuro con una solida base etica.  

    5. Binge  drinking: tutto quello che devi sapere per proteggere i tuoi figli

      Binge drinking: tutto quello che devi sapere per proteggere i tuoi figli

      Danilo Littarru

      Nel tempo in cui ci si interroga sulle molteplici forme di fragilità adolescenziale con le sue vertiginose ascese nei cieli stellati della gioia e della speranza, e con le sue discese negli abissi dell’insicurezza e della disperazione, mutuando le parole del grande psichiatra-saggista Eugenio Borgna, dobbiamo soffermarci, ancora una volta, su un fenomeno che allarma e desta crescente preoccupazione poiché evidenzia un’ulteriore sfaccettatura del disagio adolescenziale. Parliamo del binge drinking, ossia la pratica delle abbuffate alcoliche che consiste nell’ingurgitare d’un fiato sei o più bicchieri di alcolici e super alcolici per avvertire l’ebbrezza degli effetti psicoattivi del classico “sballo”. L’ introito eccessivo di alcol è in grado di elevare la pressione sanguigna, i livelli di colesterolo e di zuccheri nel sangue determinando condizioni che accrescono il rischio di eventi acuti a livello cardiaco (infarto del miocardio), danni epatici (cirrosi) ma anche sterilità sia nei maschi che nelle femmine.

      Ulteriori danni si possono verificare a carico del cervello, considerato che tra i 12 e i 25 anni a livello cerebrale avvengono importanti modificazioni anatomiche e funzionali che favoriscono la maturazione emotiva, cognitiva e comportamentale dell’individuo, considerato che il cervello in quella fase di crescita è ancora immaturo e quindi molto più vulnerabile. In questo senso, l’attrazione per la tempesta di piacere scatenata da esperienze nuove, coinvolgenti e condivise come quella della sbornia da superalcolici, supera la valutazione dei rischi e non tiene conto delle ricadute sulla salute. 

      L’alcol, infatti, agisce sui meccanismi cerebrali di ricompensa generando una sensazione di euforia e piacere che induce l’adolescente a risperimentare l’esperienza piacevole replicando le abbuffate con dosi sempre maggiori che portano a sviluppare tolleranza e lo avvicinano ad una vera e propria dipendenza. 

      I dati pubblicati dalla relazione del ministro della Salute al Parlamento sugli interventi realizzati ai sensi della legge 30.3.2001 n. 125 in materia di alcol e problemi alcol correlati – relativi all’anno passato – evidenziano un aumento dei consumatori occasionali di alcol (specialmente fuori pasto e di sesso femminile) e dei praticanti del binge drinking, un fenomeno che tocca da vicino il 15% dei giovani. Si stima che oggi i binge drinker tra gli undici e venticinque anni siano quasi un milione. Uno studio italiano pubblicato sulla prestigiosa rivista Scientific Reports condotto su più di 2.700 alunni minorenni e neo-maggiorenni frequentanti scuole secondarie romane ha messo in luce che l ’80% del campione ha dichiarato di consumare bevande alcoliche, nonostante sia a conoscenza del divieto imposto dalla legge italiana, sottolineando una preoccupante disinformazione sui rischi e sulle ricadute psicofisiche.

      In una società frenetica e ossessiva come quella nella quale viviamo, votata all’eccesso e alla minimalizzazione degli eccessi, derubricati come goliardate o ragazzate, anche una pratica così pericolosa rischia di essere letta come una compensazione alla noia, o come “riempimento” di un vuoto esistenziale e relazionale. È altresì vero che in alcuni casi la sbornia e l’abbuffata possono essere una strategia di automedicazionemessa in atto dall’adolescente nel tentativo di velare o attenuare una risposta soggettiva di insicurezza e ansia di fronte alle sfide evolutive (relazionali, prestazionali, sociali), ma su numeri così crescenti occorre impiantare un discorso più strutturato sui rischi; la scarsa conoscenza e superficialità nella valutazione dei rischi sono il binomio nocivo che provocano nel mondo quasi un milione di morti ogni anno, pertanto appare precipuo legare a doppio filo l’informazione alla formazione della persona, riproponendo un’antropologia di fondo che sia capace di raccordare prevenzione e cura, senza trascurare le ricadute sulla collettività in termini economici. 

      Si pensi al costo del personale sanitario coinvolto nei soccorsi, ai mezzi utilizzati, alle forze dell’ordine sovente coinvolte, aspetti questi che passano in second’ordine, ma che dovrebbero essere centrali nell’analisi e nella valutazione del fenomeno. Potrebbe fungere da deterrente coinvolgere nella ripartizione delle spese anche le famiglie dei minori, in modo che possano essere più attive nel controllo del proprio figlio, impegnandole successivamente in un percorso psico-pedagogico con equipe specializzate, al fine di sensibilizzarle ad una genitorialità strutturata, capace di trasmettere la libertà e  al contempo di educarli a scelte responsabili e rispettose della propria persona e dell’alterità.

      Educare, così assume la dimensione più nobile: educarsi nella reciprocità, in uno scambio di intenti cui l’ascolto e il sostegno diventano pietre angolari su cui deve poggiarsi la relazione umana. 

    6. EDUCARE ALLE EMOZIONI: L’IMPORTANZA DEL QUOZIENTE EMOTIVO

      EDUCARE ALLE EMOZIONI: L’IMPORTANZA DEL QUOZIENTE EMOTIVO

      In psicologia, le emozioni vengono descritte come stati complessi di sentimenti che scatenano reazioni psicofisiche, influenzando i pensieri e i comportamenti. Come sottolineato dal Dr. Paul Ekman, psicologo e ricercatore noto per i suoi studi sulle emozioni universali, “le emozioni sono reazioni psicologiche di adattamento agli stimoli esterni” e sono essenziali per la sopravvivenza e per l’interazione sociale. Esse si manifestano attraverso risposte fisiologiche (come la variazione della frequenza cardiaca e respiratoria), risposte tonico-posturali (tensione o rilassamento del corpo), comportamentali e espressive (ad esempio attraverso il linguaggio e le espressioni facciali).

      Fino a qualche decennio fa, si attribuiva una grande importanza al quoziente intellettivo (QI) come indicatore di successo. Tuttavia, l’approccio educativo è cambiato radicalmente. Negli ultimi anni, l’attenzione si è spostata verso un concetto più ampio di intelligenza, quello dell’intelligenza emotiva, evidenziando come la capacità di riconoscere, comprendere e gestire le emozioni sia altrettanto cruciale per il successo e il benessere. Come dimostrato da numerosi studi, tra cui quelli di Daniel Goleman, esperto di intelligenza emotiva, l’intelligenza emotiva (EQ) è predittiva di successo nella vita sociale e professionale, poiché influisce sul modo in cui affrontiamo le sfide, gestiamo i conflitti e ci relazioniamo con gli altri.

      Nel 1983, Howard Gardner, psicologo della Harvard University, ha rivoluzionato la concezione tradizionale di intelligenza, proponendo la teoria delle intelligenze multiple. Secondo Gardner, ogni individuo possiede una varietà di intelligenze che si sviluppano nel corso della vita, tra cui l’intelligenza linguistica, matematica, interpersonale e intrapersonale. Quest’ultima, che riguarda la comprensione e gestione delle proprie emozioni, è strettamente legata all’intelligenza emotiva e gioca un ruolo cruciale nell’educazione.

      Un altro autore fondamentale nella comprensione dell’intelligenza emotiva è Daniel Goleman, il cui libro Intelligenza Emotiva ha dato impulso alla diffusione di questa teoria. Goleman sostiene che le emozioni non sono semplicemente reazioni passivi, ma possiedono una funzione adattiva che aiuta a prendere decisioni più consapevoli e a rispondere meglio alle sfide della vita quotidiana. La sua ricerca, inoltre, ha evidenziato che il quoziente emozionale può essere migliorato attraverso pratiche educative mirate, come l’apprendimento della consapevolezza emotiva e la gestione dei conflitti, competenze che sono essenziali per una crescita equilibrata.

      Le neuroscienze, inoltre, confermano che i sistemi cognitivi ed emotivi sono strettamente connessi. Studi recenti hanno dimostrato che il cervello elabora simultaneamente informazioni emotive e razionali, suggerendo che un’educazione che trascuri la dimensione emotiva rischia di limitare il potenziale di sviluppo di un individuo. Come affermato dal neuroscienziato Antonio Damasio, “le emozioni sono essenziali per la ragione”, indicando che senza una comprensione profonda delle proprie emozioni, le decisioni razionali risultano compromesse.

      Educare i giovani all’intelligenza emotiva è fondamentale per prevenire problematiche psicologiche come attacchi di rabbia, ansia, disturbi alimentari e dipendenze da sostanze psicoattive. Inoltre, un basso quoziente emotivo è stato associato a difficoltà nell’interazione sociale e a comportamenti devianti. Come sottolinea la Società Italiana di Psicologia (SIP), un’educazione che integra competenze emotive è cruciale per un benessere psicologico duraturo.

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