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  • La Speranza Cristiana: Fondamento di una Vita di Fede e Coraggio

    La Speranza Cristiana: Fondamento di una Vita di Fede e Coraggio

    Le virtù teologali, come insegna la dottrina sono infuse direttamente da Dio nell’anima dell’uomo e lo orientano verso la partecipazione alla sua natura divina. Sono chiamate teologali perché provengono direttamente da Dio: fede, speranza e carità. Mentre la fede e la carità sono virtù che si possono concretamente verificare nell’azione umana, la speranza può risultare più difficile da comprendere, specialmente in un contesto in cui la nostra vita quotidiana è permeata da preoccupazioni materialistiche e transitorie.

    Nel nostro tempo, la speranza è talvolta ridotta a un concetto superficiale, confusa con un generico ottimismo o con la speranza legata ai beni materiali. In questo senso, spesso si connota come un desiderio di ricchezza, potere o soddisfazione immediata. Tuttavia, la speranza cristiana è qualcosa di ben più profondo e ha radici salde nella fede. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che “la speranza è la virtù teologale che ci permette di desiderare il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, mettendo la nostra fiducia non nelle forze umane, ma nelle promesse di Dio” (CCC, 1817). La speranza cristiana, quindi, non è legata a illusioni o vuoti desideri, ma è ancorata saldamente alla fede in Dio e nelle sue promesse.

    Come scrive Papa Benedetto XVI in Spe Salvi (35), “la speranza cristiana non è una fuga dalla realtà, ma una forza che ci permette di affrontarla con coraggio”. Questa speranza si distingue nettamente dall’ottimismo terreno, che non è in grado di affrontare le difficoltà concrete e le tribolazioni della vita. La speranza cristiana, invece, non è una speranza che si rivolge ai beni materiali, ma si fonda sulla certezza che la vita terrena è solo un cammino verso la vita eterna, verso il Regno di Dio.

    Francesco Alberoni, noto psicologo, distingue la speranza cristiana dal semplice ottimismo: la speranza cristiana “è una speranza che nasce da un’etica radicata nella fede in Dio e che si concretizza nell’agire quotidiano” (La speranza e la fede, 2003). Questo tipo di speranza non è una speranza illusoria o passiva, ma una virtù che implica una costante fiducia in Dio, una fiducia che ci aiuta a vivere con serietà e responsabilità.

    Il Catechismo della Chiesa Cattolica, infatti, al numero 1818, ci ricorda che “la speranza è la virtù teologale che ci spinge a desiderare il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, mettendo la nostra fiducia non nelle nostre forze, ma nelle promesse di Cristo”. E questo è fondamentale: la speranza cristiana si fonda sulla fiducia nelle promesse di Dio, una fiducia che non delude, come ci ricorda San Paolo nella lettera ai Romani: “la speranza non delude” (Rm 5,5).

    La speranza cristiana non è separata dalla fede, ma intrinsecamente legata ad essa. La fede stessa è dotata della speranza, poiché poggia sulla promessa di Cristo. Egli, infatti, è la fonte della nostra speranza, come afferma Papa Francesco: “La speranza cristiana è una speranza che nasce dall’incontro con Cristo, che ci rende certi che il nostro cammino ha una meta definitiva” (Evangelii Gaudium, 275). La speranza cristiana, dunque, è una speranza che sostiene l’uomo nelle difficoltà della vita, che lo aiuta a non disperare anche nei momenti più oscuri.

    La speranza cristiana ci solleva dalle afflizioni quotidiane e ci dà la forza di affrontare le difficoltà con coraggio e fiducia. Essa ci permette di vivere anche le sofferenze con una certa serenità, poiché sappiamo che la nostra vita è orientata verso un fine eterno e che ogni difficoltà vissuta nella fede non è mai vana.

    In un contesto globale caratterizzato da incertezze e dalla precarietà, è fondamentale educare i giovani alla speranza. Non una speranza vuota o materialistica, ma quella speranza che nasce dalla fede in Cristo e che ci aiuta a vedere la nostra vita come un cammino verso l’eternità. Il Papa, nella Gaudium et Spes (n. 22), ci ricorda che “la speranza è un’ancora che non permette alla barca della nostra vita di affondare nelle tempeste del mondo”. Educare i giovani alla speranza cristiana significa aiutarli a vivere con fiducia e coraggio, anche nelle difficoltà.

    Il presente, per quanto faticoso, può essere vissuto e accettato se è orientato verso una meta certa e sicura, capace di generare fiducia e giustificare anche le difficoltà più ardue. La speranza cristiana, infatti, ci proietta verso un futuro che non è solo un futuro terrestre, ma un futuro che ci unisce al cuore stesso di Dio, come ci insegna Giovanni nel suo Vangelo: “Non sia turbato il vostro cuore; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1).

  • Femminicidio: Quando l’Amore Diventa Terrore

    Femminicidio: Quando l’Amore Diventa Terrore

    Il femminicidio, è un argomento di grande attualità, e la cronaca ci informa di episodi di una mostruosità tale da lasciarci spiazzati. Lo scenario sta assumendo contorni drammatici: nell’ ultimo decennio il numero di donne uccise ad opera di compagni/mariti violenti o di ex partner che non accettano il nuovo status di ex è in continuo aumento. Tragedie che spesso non si concludono con l’uccisione della coniuge, ma che portano dietro ulteriori tragedie: si pensi ai tanti bambini orfani che si ritrovano senza madre e con un padre in carcere. 

    Sono loro, le vittime aggiuntedi cui poco si parla ma sulle quali ricadono le pene più gravi. Vien spontaneo chiedersi perché un uomo, che dice di amare, diventi violento e aggressivo. La lettura psicologica, condivisa in dottrina, sostiene che ogni volta che un uomo ha atteggiamenti violenti, questi nascano da un sentimento di helplessness, ossia di fragilità non accettata e rigettata, da cui conseguono atteggiamenti violenti. Si resiste a questa fragilità, frutto di insicurezza, picchiando, inveendo e offendendo. 

    La risposta violenta è quasi un tentativo (distorto) di controllare il turbamento interiore, derivato da un sentimento di umiliazione che non può essere accettato perché svilisce e annichilisce la figura del “maschio muscolare”. Spesso queste persone sono cresciute in ambienti violenti, hanno subito umiliazioni e maltrattamenti dalle figure di riferimento. È ampiamente risaputo che se un bambino assiste sistematicamente a episodi di violenza da parte di un genitore verso l’altro o verso un fratello o se, essi stessi subiscono violenza, è più facile che poi utilizzi la violenza come strumento principale di relazione quando si trova in condizioni stressogene.

    La famiglia è un collegamento a doppio filo con il nostro passato e un ponte verso il nostro futuro, e ha la responsabilità prima nella crescita “sbagliata” dell’uomo. La violenza intra-familiare, la violenza di genitori a loro volta maltrattati e che divengono maltrattanti è all’origine di gran parte dei comportamenti violenti. Bambini umiliati svilupperanno maggiore dipendenza dai genitori abusanti e tenderanno a riprodurre rapporti di maltrattamento nell’età adulta. Il rischio sotteso è quello di “costruire” persone che a loro volta replicheranno tale schema, maltrattando le loro compagne. Donne con temperamento forte e coriaceo riescono a denunciare e uscire fuori da relazioni violente, altre restano invischiate in un meccanismo che col tempo le stritola e le conduce in un tunnel senza uscita, in quanto sviluppano relazioni di dipendenza, accettazione o tolleranza nei confronti dei loro aguzzini. Sono donne che sviluppano la cosiddetta Sindrome di Stoccolma, ossia uno stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica. Il soggetto affetto da tale sindrome, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all’amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza tra vittima e carnefice. Ecco perché è fondamentale che le donne imparino a riconoscere da subito situazioni potenzialmente rischiose. 

    Un uomo violento non cambia con l’amore di una donna, ma è “curabile” se saprà conquistare la consapevolezza del suo limite e leggerlo in una rielaborazione dolorosa ma necessaria attraverso un percorso psicoterapico. L’amore non può essere ricambiato con schiaffi, pugni e insulti. L’ammissione delle proprie debolezze accompagnata da fiotti di lacrime che sanno di un pentimento momentaneo e poco convinto, non deve ingannare, perché l’amore ha una faccia differente dalla violenza, dal controllo estenuante, dall’annichilimento della personalità e dall’esclusività esigita e imposta che toglie fiato ad ogni tipo di relazione umana. 

  • Il Terebinto della Salvezza

    Il Terebinto della Salvezza

    DANILO LITTARRU

    Il Natale è una festa di precetto. Nasce Cristo, l’unto di Dio, che sceglie la semplicità di una grotta per compiere un progetto destinato a cambiare le sorti dell’umanità.
    Che Dio controverso, questo: un Dio che sceglie di percorrere la strada più ardua, quella del paradosso e dell’incomprensione, che richiede non solo un atto di fede, ma anche un atto di profonda ragione.

    Il bambino rifiutato dai proprietari delle mangiatoie è lo stesso che vivrà il rifiuto della folla, la quale sceglierà Barabba, e che cadrà sul pietrisco indurito del Golgota, ferito e tumefatto, con le orbite oculari violacee. Non riesce a vedere, ma riesce a sentire la voce di una Madre addolorata che si dispera e si dimena, perché sa che non ci sono mani capaci di sorreggere il figlio. Anche lei, tuttavia, deve inerpicarsi lungo i tornanti del dolore, affinché si possa compiere la storia della salvezza.

    È nel gioco degli estremi che si snoda la vittoria dell’uomo, liberato da sovrastrutture liturgiche, materiali e morali. Il pargolo nudo, avvolto in fasce e adagiato sulla soffice paglia, è lo stesso che, nudo, sarà inchiodato su un legno anonimo, destinato a profumare di resina e santità per i secoli dei secoli.

    Solo. Solo davanti agli interrogativi, solo davanti alla paura e al terrore di essere abbandonato.
    La nascita di Gesù ci insegna proprio questo: essere soli, saper attendere, leggere oltre i luoghi comuni. Ci insegna che nella semplicità delle cose si possono tessere arazzi di santità e di testimonianza.

  • Il Cervello di Dio: Scienza e Spiritualità a Confronto

    Il Cervello di Dio: Scienza e Spiritualità a Confronto

    Danilo Littarru

    Il rapporto tra fede e neuroscienze rappresenta un argomento di grande interesse e complessità, capace di unire discipline apparentemente distanti in un dialogo ricco di implicazioni. Ciò che un tempo era dominio esclusivo della teologia — la capacità dell’essere umano di aprirsi al trascendente — oggi è oggetto di indagine scientifica. Siamo programmati per credere? Esiste una base neurobiologica che confermi l’idea, cara alla tradizione teologica, dell’uomo come capax Dei, ovvero “capace di Dio”? La scienza moderna cerca risposte a queste domande, esplorando la possibilità che nel cervello umano vi siano predisposizioni neuronali che favoriscono l’esperienza religiosa.

    Negli ultimi trent’anni, molti studiosi hanno lavorato per comprendere il legame tra spiritualità e funzionamento cerebrale, dando origine a un campo interdisciplinare noto come neuroteologia. Questo ambito di ricerca si propone di esaminare come specifici processi neurobiologici siano associati alle esperienze religiose e spirituali. Uno dei pionieri di questa disciplina è Dean Hamer, genetista americano, il cui lavoro ha suscitato grande interesse, soprattutto in ambito divulgativo. Nel suo libro del 2005, Hamer affronta una serie di quesiti fondamentali: perché la spiritualità è una forza così universale? Perché tanti individui attribuiscono un valore così elevato alla dimensione spirituale, spesso più del piacere, del potere o della salute?

    Hamer propone che la risposta a queste domande risieda, almeno in parte, nella genetica umana. Secondo la sua teoria, la spiritualità sarebbe una caratteristica evolutiva innata, radicata nel nostro patrimonio genetico. In particolare, Hamer identifica il gene VMAT2 (“vesicular monoamine transporter 2”) come potenziale responsabile del nostro “potenziale genetico” di credere. Questo gene, coinvolto nella regolazione dei neurotrasmettitori monoaminici come dopamina e serotonina, potrebbe influenzare la predisposizione individuale verso esperienze spirituali.

    Uno degli obiettivi principali della neuroteologia è identificare aree specifiche del cervello coinvolte nelle esperienze religiose. Numerosi studi, utilizzando tecniche di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno analizzato l’attività cerebrale durante la meditazione e la preghiera. Per esempio, esaminando monaci buddisti in meditazione profonda e suore cristiane durante momenti intensi di preghiera, i ricercatori hanno osservato che il cervello è attivo nel suo complesso, ma alcune regioni mostrano una maggiore sollecitazione.

    Tra queste, l’area prefrontale — associata all’attenzione e alla consapevolezza — e il lobo parietale, implicato nell’orientamento spazio-temporale, sembrano giocare un ruolo chiave. Durante stati di “estasi spirituale”, il lobo parietale può mostrare una diminuzione dell’attività, fenomeno interpretato come una perdita del senso del sé e un’apertura verso una dimensione trascendente. Questi risultati suggeriscono che l’esperienza religiosa non è confinata a una singola regione cerebrale, ma emerge dall’interazione di diverse aree che modulano emozioni, cognizione e percezione.

    Nonostante il fascino degli studi di neuroteologia, è importante sottolineare i rischi insiti in una spiegazione puramente scientifica della fede. Ridurre un’esperienza complessa e profondamente personale come quella religiosa a una mera attivazione neuronale rischia di impoverirne il significato. La fede non si limita a un insieme di processi cerebrali: essa coinvolge la dimensione etica, comunitaria e, per molti, il rapporto con una realtà divina trascendente.

    Le neuroscienze, inoltre, devono affrontare sfide metodologiche significative. Per esempio, è difficile distinguere tra esperienze religiose autentiche e stati di coscienza alterati indotti da fattori esterni, come farmaci o stress. Il dialogo tra neuroscienze e teologia apre prospettive stimolanti, ma richiede un approccio equilibrato e rispettoso delle rispettive competenze. 

    Resta il fatto che l’uomo non è riducibile ai soli processi cerebrali: la sua apertura al trascendente e la ricerca di senso appartengono a una dimensione che va oltre la biologia. Tuttavia, è necessario tenere presente che, per la teologia cristiana, la fede si fonda sulla Rivelazione di Cristo, un elemento che segna una discontinuità fondamentale con il metodo scientifico.

  • I Pantaloni di un rosa sbiadito

    I Pantaloni di un rosa sbiadito

    Finché c’è amore e memoria non c’è vera perdita

    Danilo Littarru

    Mi incuriosiva vedere questo film. Ho letto il libro, ascoltato diverse interviste di Teresa Manes, letto nelle sue parole il grande dolore di una madre che si è imbattuta in una tragedia che lacera l’anima e supera spazio e tempo. Mi sono immaginato il dolore di Andrea, le delusioni di un mondo che sognava differente e che invece si è dimostrato più ruvido di quanto potesse immaginare. Il peso che zavorrava la sua anima ha deciso che la scorciatoia migliore era il silenzio eterno. Andrea ha perso, cammin facendo, il gusto della vita a causa di una serie di eventi che hanno creato stratificazioni di dolore che chiudono prospettive e progetti.

    Ecco immaginavo un film che facesse entrare dentro questo dolore, che scuotesse gli animi di una generazione affinché potesse riflettere ancora più approfonditamente sulle relazioni interpersonali, sul fraintendimento dell’amicizia, sulla ricerca di una definizione del sè, delle conseguenze derivate dalla disgregazione familiare, sull’importanza della parola capace a volte di ferire più di un proiettile, della sofferenza che può recare un comportamento che si ascrive alla superficialità mentre invece è un vero e proprio atto di iniquità.

    Mi sarebbe piaciuto capire che pena spettasse al belloccio di turno, ambito e desiderato da tutti, capace di fare presa sugli attori principali della scena. Christian, come racconterà lo scenografo nel talk dedicato alle scuole, è stato il suo bullo, oggi sceso dal piedistallo e incapace di risalirci per via dei 20 kg di sovrappeso e di una vita che andata via via scemando verso un vuoto esistenziale. 

    Pensavo, altresì, a quanto dolore abbiano provato i suoi amici, quelli veri, ammesso ne avesse, perché dal film, a parte la compagna dei sabati pomeriggio al cinema, non si evincono grandi rapporti sociali, gli insegnanti che quotidianamente vedevano Andrea dentro il banco che non si sono accorti del suo grande disagio. 

    Immaginavo un film capace di tutto ciò, e invece per scelta (legittima) della regista si è voluto dare un taglio più leggero, aperto alla vita. Nulla da obiettare, ma si discosta notevolmente da quella che era la storia di Andrea, dagli atti di bullismo e cyberbullismo che ha subito soprattutto quando ha preso che sui social qualcuno si era divertivo a pubblicare le sue foto, a fare commenti sessisti e offensivi. 

    Ho trovato un film sproporzionato nei tempi. La prima parte estremamente dettagliata, la seconda troppo veloce come se non si volesse soffermare sulla cruda realtà che Andrea viveva e che per ovvi motivi richiedono una condivisione empatica, come ad esempio la scena della festa organizzata a tradimento da quelli che Andrea reputava amici di cui potersi fidare.

    Avrei voluto più incisività sul tema del bullismo e del cyberbullismo, perché sarebbe stata occasione unica per confrontarsi con un mondo, quello adolescenziale, che è diventato sempre di più fragile, ma al contempo spietato e cinico. Lo ha vissuto sulla sua pelle Leonardo Calcina, giovane di 15 anni, di Senigallia, vittima di insulti, umiliazioni e percosse da parte di alcuni compagni di scuola, che si è tolto la vita con la pistola del padre, agente della Polizia municipale meno di 20 giorni fa.

    Tanti Andrea e Leonardo vivono oggi la durezza, l’impurità di relazioni disfunzionali perché stupidità e cattiveria possono essere un mix letale per un adolescente che si sta affacciando alla vita e non devono restare chiusi nel silenzio e nella paura per paura di giudizi e di ritorsioni. Parlare, condividere è l’unica ancora di salvezza, e a maggior ragione avrei voluto più forza nel rimarcare che non si è da soli se queste vicende vengono condivise con genitori, amici, insegnanti. 

    Questa generazione ha necessità di messaggi forti che scuotano le coscienze troppo allineate a logiche di immagine e dell’apparire, che segua modelli comportamentali “alternativi” fondati sull’ascolto, sulla riflessione e sull’interiorità. 

    L’individualismo esasperato, la ricerca smisurata di affermazione e di consenso, conduce a derive nichiliste dove il disumano, nonostante le ripetute lezioni della storia, prende il sopravvento sull’umano.

    Su questo era doveroso incidere di più, considerato il vasto pubblico adolescenziale. 

  • Sentirsi amati per crescere bene

    Sentirsi amati per crescere bene

    Danilo Littarru

    Ogni giorno riviste, programmi televisivi e libri di auto-aiuto propongono soluzioni generiche e ricette fai-da-te, spesso accompagnate da consigli e tautologie insignificanti, per migliorare l’autostima, alimentando l’illusione che esista una formula universale valida per tutti. Tuttavia, migliorare la propria autostima è un percorso complesso e spesso lungo, che può durare tutta la vita. La carenza di autostima, intesa come atteggiamento generale verso sé stessi, ha un impatto significativo sulla vita di una persona, tanto da essere considerata uno degli aspetti più dolorosi dell’esistenza. Da qui, emerge l’importanza di affrontare seriamente il tema dell’autostima, specialmente durante l’infanzia e l’adolescenza, periodi in cui molti disagi psicologici derivano da una percezione negativa del sé.

    Nel processo educativo, spesso si sottovaluta l’importanza di potenziare l’autostima, privilegiando un’educazione rigida che presta attenzione alle forme più che all’essenza. Talvolta, si dà per scontato che l’affetto verso un figlio sia ovvio e non debba essere manifestato quotidianamente. Questa impreparazione affettiva, sia da parte dei genitori sia degli insegnanti, può creare un terreno fertile per l’incapacità di comunicare e condividere le emozioni. È fondamentale, invece, che un bambino si senta autentico fin dalla prima infanzia, amato per ciò che è e per ciò che può offrire, imparando a convivere con i propri limiti. L’autostima diventa così un elemento cruciale per riconoscere adeguatamente le proprie risorse e qualità. Un’infanzia priva di serenità e di sostegno emotivo può lasciare profonde cicatrici, generando un senso di inadeguatezza che influenzerà la capacità di affrontare le sfide della vita.

    L’obiettivo di questa riflessione è evidenziare l’importanza delle esperienze interattive tra bambini e adulti significativi, come genitori, insegnanti e educatori, poiché queste relazioni determinano lo sviluppo dell’identità e dell’autostima. Un’infanzia ben nutrita affettivamente crea basi solide per un adulto consapevole e sereno. La carenza di cure genitoriali può invece minare la considerazione di sé, ostacolando la capacità di esprimere sentimenti e sviluppare competenze personali. Quando le relazioni primarie non soddisfano bisogni essenziali come amore, accettazione e valorizzazione, il processo di costruzione dell’autostima può essere compromesso.

    Nella formazione dell’identità personale, i bambini assimilano schemi mentali e comportamenti derivati dalle loro esperienze infantili, che influenzeranno le loro relazioni e reazioni future. Un’educazione che scoraggia l’espressione delle emozioni rende il bambino vulnerabile alle frustrazioni e timoroso del giudizio altrui. La capacità di esprimere i propri stati affettivi è, invece, cruciale per comunicare con se stessi e con gli altri, evitando di costruire barriere difensive disfunzionali. La percezione di fallimento e inadeguatezza spesso affonda le sue radici nei primi anni di vita, quando il bambino sviluppa un’immagine di sé basata sulla qualità delle relazioni con le figure genitoriali. Aspettative genitoriali irrealistiche o un’educazione svalutante possono ostacolare lo sviluppo di un’identità autonoma e autentica.

    Critiche costanti, confronti svalutanti e mancanza di valorizzazione possono configurarsi come forme di abuso psicologico, influenzando negativamente la crescita personale. L’adolescenza, in particolare, rappresenta un momento cruciale per lo sviluppo dell’identità adulta, in cui l’immagine di sé si forma attraverso il confronto con i coetanei, il successo scolastico, l’aspetto fisico e il raggiungimento degli obiettivi. Per questo motivo, è fondamentale che famiglia e scuola collaborino per potenziare l’autostima dei giovani, aiutandoli a trovare il coraggio di essere autentici.

    Educare al cuore è essenziale: un’educazione che arricchisca e valorizzi i talenti e le unicità di ogni individuo. I ragazzi sono come diamanti grezzi che aspettano di essere modellati con cura, cercando conferme e riscontri per crescere nella direzione giusta. André Gide scriveva: Diventa ciò che sei. Non disarmarti facilmente. Ci sono meravigliose opportunità in ogni essere. Persuaditi della tua forza e della tua gioventù. Ripeti incessantemente: “Non spetta che a me”.

    Insegniamo ai nostri bambini e ai nostri ragazzi che le soluzioni si trovano se si ha la capacità di sapersi leggere dentro e saper leggere dentro la nostra storia le innumerevoli ricchezze che possediamo.

  • Chi non si è mai perduto non sa cosa significhi ritrovarsi

    Chi non si è mai perduto non sa cosa significhi ritrovarsi

    di Danilo Littarru

    Chiara era lì, poggiata su uno sgabello in plastica. Mi aveva chiesto di uscire dall’aula e io avevo tentennato un po’ perché la ricreazione si era appena conclusa. I minuti passavano e lei non si palesava. Avvisato un collaboratore, sono uscito dall’aula e l’ho trovata tremante. Era pallida come un anemone del Negev, la voce rotta da un movimento mandibolare accelerato, i piedi picchiavano per terra in un ritmo incessante, la fame d’aria si faceva sempre più intensa, quasi a diventare angosciante.

    Ho toccato con mano il suo disagio, la sua sofferenza, la vergogna che occhi curiosi potessero vederla in tutta la sua fragilità. Dopo diversi interminabili minuti il picco di ansia è andato scemando per lasciare spazio alla spossatezza più totale. Chiara era avvolta in un manto di sofferenza che aveva voluto condividere con me. La sua fiducia mi onorava e al contempo suscitava in me una forte preoccupazione per la sua vita, per il suo futuro, per i suoi progetti. Chiara è una delle tante alunne/i che soffrono di ansia scolastica spesso accompagnata da attacchi di panico, un nuovo male che colpisce bambini, fanciulli e adolescenti con numeri crescenti che non lasciano spazio ad oasi di tranquillità.

    È una forma di ansia che seppure non rientra nella letteratura medica ufficiale, (non trova infatti specifica citazione nel DSM5-TR o nel ICD-11) è ampiamente riconosciuta come una sofferenza psicologica che ha ricadute specifiche: scarsa frequenza scolastica, assenteismo reiterato spesso accompagnato da comportamenti a rischio, come autolesionismo, disturbi alimentari e dipendenze varie. Ne soffre una percentuale tra il 5 e il 28% di bambini e adolescenti e di solito si manifesta durante i passaggi chiave dei diversi cicli scolastici. È strettamente legata alle prestazioni scolastiche e alla paura di non riuscire a raggiungere gli obiettivi preposti o/e di non riuscire ad integrarsi nel gruppo dei pari. Un meccanismo capace di scatenare un pericoloso effetto domino.

    I voti insufficienti accentuano il conflitto con i genitori, minano un’autostima già difettosa, implementano un auto-giudizio fortemente critico e distruttivo capace di distorcere una lettura oggettiva sul proprio valore. Una lettura incapace di leggere aspetti positivi che ciascuno di noi possiede, a prescindere dalla riuscita delle proprie prestazioni, conduce ad una deriva esistenziale che anestetizza relazioni e inclina gli orizzonti di senso.Porre l’accento sulla prestazione produce quel senso di inadeguatezza e quel non sentirsi mai abbastanza nei confronti della famiglia, degli insegnanti, dei compagni li circonda che porta inevitabilmente alla fuga. Su questi scenari che oramai sono delineati che si deve imporre una riflessione costruttiva che coinvolga tutti gli attori implicati nel processo educativo, prendendo le dovute distanze dalla dinamica del rimpallo che porta ad un continuo addossarsi responsabilità e fallimenti reciproci: da una parte si rimarca l’assenza della famiglia o il narcisismo di una diffusa tipologia di genitori, dall’altro le mancanze e i disastri di insegnanti e del sistema scolastico in generale.

    Occorre rendersi conto che la crescita e la maturazione passa anche attraverso risultati non sempre brillanti. L’insuccesso vive il paradosso del suo rovescio, infatti in una lettura costruttiva esso è una salubre zoppia dell’efficienza della prestazione, e in questo senso, anche gli insegnanti dovrebbero ricordarsi che la giovinezza è il tempo e il luogo dove l’insuccesso dovrebbe essere consentito, capito, accettato e convertito. La via autentica della formazione può essere anche la via del fallimento. La formazione stessa è quel tempo che esige il tempo del fallimento, dell’errore, della sconfitta, del dubbio. Chi non si è mai perduto non sa cosa significhi ritrovarsi, e se è vero che i giovani sanno smarrirsi facilmente, è altrettanto vero che hanno una forte capacità di sapersi ritrovare se hanno accanto figure adulte capaci e carismatiche.

    Purtroppo nella scuola si è radicata la logica della prestazione, di una competitività esasperata ed esasperante, dove chi ha meno gambe per correre viene tagliato fuori dalla gara. Ci si è intestarditi a mutuare ed importare dall’economia, la logica di produttività, si pensi al linguaggio tecnico di crediti, debiti, allontanandosi dal suo linguaggio umanistico originario. Gramsci lo definiva cretinismo dell’economica: oggi nella scuola ciò che vale sono cifre, valutazioni, numeri. Si sta rinunciando a formare l’uomo, a dargli un alfabeto emotivo, una scala sentimentale da cui attingere. La cultura della prestazione uccide il piacere di imparare e questo spiega perché tre studenti su quattro soffrono di ansia scolastica. Riaccendere il desiderio che spinge ad un interesse e ad un coinvolgimento totalizzante della persona è la via che può aiutare a contenere l’evitamento e la conseguente fuga che porta all’abbandono scolastico.

    Freud parlava dell’importanza del desiderio, Wunsch, che richiama ad una vocazione e a quel deside­rio-vocazione è ciò che dà senso alla vita e che accende il fuoco della conoscenza. Il desiderio così concepito diventa una forza travolgente che apre e allarga l’orizzonte di senso della nostra vita. La scuola di oggi non solo spegne questo desiderio ma ha la capacità di consumare anche gli insegnanti migliori, avvolgendoli in un grigiore che spegne desiderio e curiosità. La scuola deve riscoprire la vocazione formativa in uno sguardo di insieme che produce quella sinergia educativa che mette al centro del la crescita del ragazzo, che resta l’attore principale della scena capendo così in quanto modi ci parla l’umano.