Introduzione
Negli ultimi mesi, soprattutto nei social network frequentati da giovani e adolescenti, ha preso piede un termine suggestivo: bed rotting. Tradotto letteralmente, significa “marcire a letto”. Dietro questa espressione volutamente provocatoria si cela una pratica diffusa: trascorrere intere giornate a letto, tra serie tv, scroll infinito, snack e inattività, quasi a voler sospendere il mondo esterno.
Ma di cosa si tratta realmente? È un semplice trend o un campanello d’allarme psicologico?
Un sintomo mascherato da “self-care”
Il bed rotting viene spesso presentato come una forma di auto-cura: concedersi una pausa radicale, spegnere gli impegni e rifugiarsi in uno spazio protetto. In alcuni casi, brevi momenti di questo tipo possono avere una funzione rigenerativa, soprattutto in contesti di stress acuto.
Tuttavia, diversi studi di psicologia clinica segnalano che l’inattività protratta è strettamente correlata a sintomi depressivi, disregolazione emotiva e comportamenti di evitamento. La ricerca condotta da Henkel e colleghi (2010) mostra come l’eccessiva permanenza a letto sia un predittore di disturbi depressivi maggiori e di peggioramento della qualità del sonno.

La cornice psicopatologica
Il bed rotting può essere letto come una risposta passiva a:
- ansia scolastica e lavorativa, dove il letto diventa rifugio;
- burnout: negli studenti universitari, la sindrome da esaurimento si traduce spesso in inattività prolungata;
- depressione: il sintomo cardine è proprio l’anedonia, ossia l’incapacità di trarre piacere da attività quotidiane.
Uno studio pubblicato sul Journal of Affective Disorders (2022) ha evidenziato come la “ruminazione a letto” sia strettamente legata all’aumento di pensieri negativi e all’aggravarsi della sintomatologia ansioso-depressiva.
Psicologia delle nuove generazioni
Non va trascurato l’aspetto culturale. Nella Generazione Z, l’atto di “restare a letto” viene talvolta rivendicato come gesto politico contro l’iper-produttività e il culto della performance. Tuttavia, la linea di confine tra resistenza culturale e rischio clinico è sottile: quando il bed rotting diventa abitudine costante, può trasformarsi in un circolo vizioso di isolamento e perdita di motivazione.
Strategie di intervento clinico
Uno psicologo clinico, di fronte a questo fenomeno, non si limita a stigmatizzare, ma:
- indaga funzioni psicologiche e contesti relazionali che portano al ritiro;
- lavora su tecniche di attivazione comportamentale, per spezzare il ciclo dell’inattività;
- incoraggia la regolazione del ritmo sonno-veglia, compromesso da lunghe permanenze a letto;
- utilizza strumenti di psicoeducazione per distinguere riposo rigenerativo da evitamento patologico.
Conclusione
Il bed rotting non è soltanto un trend social, ma un fenomeno clinicamente rilevante, specchio di un malessere diffuso nelle nuove generazioni. Se da un lato può rappresentare un momentaneo bisogno di riposo, dall’altro rischia di celare forme più gravi di disagio psicologico.
In questo senso, come ricorda il DSM-5, l’elemento discriminante non è il comportamento in sé, ma il grado in cui esso compromette il funzionamento sociale, scolastico e lavorativo.
