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  • Riabilitare l’attenzione a scuola: neuroscienze e studi recenti

    Riabilitare l’attenzione a scuola: neuroscienze e studi recenti

    Introduzione

    La capacità di mantenere l’attenzione in classe è una delle sfide centrali della scuola contemporanea. Gli studenti trascorrono in media 5-6 ore seduti al giorno: ma questa condizione favorisce davvero la concentrazione e l’apprendimento?
    Le neuroscienze, unite alle pratiche educative adottate nei paesi nordici, offrono risposte chiare: l’attenzione va allenata e riabilitata attraverso pause, movimento e ambienti didattici più flessibili.

    Attenzione e limiti fisiologici

    Studi neuroscientifici hanno dimostrato che l’attenzione non è una risorsa illimitata.

    • Negli adolescenti il picco di attenzione sostenuta dura circa 15–20 minuti (Risko et al., Trends in Cognitive Sciences, 2016).
    • Oltre questo tempo, aumenta il rischio di mind wandering (divagazione mentale), con calo del rendimento e della memorizzazione.

    Stare fermi a lungo comporta sovraccarico cognitivo, perdita di motivazione e incremento di comportamenti disfunzionali (agitazione, sbadigli, distrazioni).

    Immobilità o movimento? Le evidenze scientifiche

    Secondo la cognitive load theory, il sovraccarico attentivo senza pause porta a un rapido esaurimento delle risorse cognitive.
    Le ricerche più recenti confermano che il movimento è un alleato dell’apprendimento:

    • Maiztegi-Kortabarria et al., 2024 (Frontiers in Psychology): le “pause attive” legate al contenuto curricolare migliorano attenzione e concentrazione.
    • Larose et al., 2024 (Journal of Activity, Sedentary and Sleep Behaviors): spazi flessibili, lezioni attive e interruzioni motorie riducono la sedentarietà e favoriscono la partecipazione.
    • Slattery et al., 2022 (Neuroscience & Biobehavioral Reviews): attività fisica, mindfulness e training cognitivo sono tra le strategie più efficaci per migliorare l’attenzione sostenuta.

    Strategie di riabilitazione attentiva

    1. Micro-pause cognitive
      Inserire pause di 2-3 minuti ogni 20 di lezione. Una semplice domanda stimolo, un breve lavoro di coppia o un cambio di ritmo possono riattivare la concentrazione.
    2. Didattica multimodale
      Alternare spiegazioni frontali, lavori di gruppo, attività pratiche e piccoli momenti di movimento. La varietà sensoriale aiuta il cervello a rinnovare l’attenzione.
    3. Autoregolazione attentiva
      Tecniche di respirazione, stretching e mindfulness applicate in classe riducono l’ansia e potenziano l’autocontrollo (Zenner et al., Mindfulness, 2014).
    4. Modularità dei tempi scolastici
      Progetti sperimentali in Nord Europa hanno introdotto lezioni da 40 minuti con 10 minuti di movimento: gli studi hanno registrato miglioramenti sia nella performance cognitiva che nel benessere psicosociale.

    Le scuole nordiche: esempi concreti

    I paesi nordici rappresentano un laboratorio di innovazione educativa, con strategie che incidono direttamente sulla qualità dell’attenzione:

    • Finlandia (2023–2024): ha introdotto una normativa che limita l’uso dei cellulari durante l’orario scolastico per ridurre le distrazioni e migliorare la concentrazione.
    • Svezia (2023–2025): ha avviato un ritorno a metodi “back to basics”: più lettura su carta, scrittura a mano, riduzione dell’uso digitale, per contrastare il calo dell’attenzione causato dall’iperconnessione.
    • Danimarca e Norvegia: diversi istituti hanno sperimentato un ban parziale degli smartphone e l’introduzione di pause motorie strutturate, osservando un aumento della partecipazione e della motivazione.

    Queste esperienze confermano che attenzione e benessere non si separano: la scuola deve diventare uno spazio che favorisce ritmi cerebrali naturali e riduce gli stimoli dispersivi.

    Conclusione

    Restare seduti 5-6 ore non agevola l’attenzione: al contrario, rischia di logorarla.
    Gli studi neuroscientifici e gli esempi concreti delle scuole nordiche dimostrano che l’attenzione può essere riabilitata e allenata con:

    • pause attive,
    • lezioni più brevi e modulari,
    • spazi flessibili,
    • limitazione delle distrazioni digitali.

    La sfida per la scuola italiana è tradurre queste evidenze in pratica didattica quotidiana. Solo così gli studenti potranno allenare davvero la capacità di pensare, ricordare, concentrarsi e crescere.

  • Colazione e cervello: un alleato imprescindibile per l’apprendimento

    Colazione e cervello: un alleato imprescindibile per l’apprendimento

    Introduzione

    La colazione rappresenta il primo rifornimento energetico dopo il digiuno notturno e, dal punto di vista neuropsicologico, costituisce un fattore determinante per le funzioni cognitive superiori. Saltarla non è soltanto un’abitudine alimentare rischiosa, ma una vera e propria interferenza con i processi di attenzione, memoria e regolazione emotiva. Studi recenti confermano che un adeguato apporto nutrizionale mattutino incide direttamente sul rendimento scolastico e sul benessere psicologico, in particolare durante l’età evolutiva.

    Il cervello e il fabbisogno energetico mattutino

    Il cervello umano, pur rappresentando circa il 2% del peso corporeo, consuma il 20-25% del glucosio circolante (Mergenthaler et al., Physiological Reviews, 2013). Dopo 8-10 ore di digiuno, le riserve epatiche di glicogeno risultano ridotte: senza un adeguato apporto di carboidrati complessi e proteine, la corteccia prefrontale — sede delle funzioni esecutive — opera in condizioni di iponutrizione funzionale. Questo si traduce in una minore efficienza nei compiti che richiedono concentrazione, flessibilità cognitiva e memoria di lavoro.

    Evidenze empiriche e neuropsicologiche

    • Attenzione sostenuta e vigilanza: l’assenza di colazione è associata a tempi di reazione più lenti e a un incremento degli errori in compiti attentivi (Adolphus et al., Appetite, 2016).
    • Memoria a breve termine: studi sperimentali dimostrano che gli studenti che consumano colazione mostrano prestazioni superiori in compiti di richiamo verbale e working memory (Wesnes et al., Nutrients, 2020).
    • Regolazione emotiva: livelli più elevati di cortisolo e alterazioni dell’umore sono stati osservati in soggetti a digiuno mattutino (O’Connor et al., Nutrients, 2021).

    Colazione e rendimento scolastico

    Una meta-analisi condotta da Adolphus et al. (Public Health Nutrition, 2019), su oltre 40 studi internazionali, ha evidenziato che la regolare assunzione di colazione si associa a migliori risultati in lettura, matematica e abilità mnestiche.
    La qualità del pasto è determinante: una colazione ad alto indice glicemico provoca un rapido incremento della glicemia seguito da un crollo reattivo, con peggioramento della performance; al contrario, una colazione a basso indice glicemico(cereali integrali, frutta fresca, latticini, proteine magre) garantisce un rilascio graduale di energia e maggiore stabilità delle funzioni cognitive (Flora et al., Frontiers in Nutrition, 2022).

    Raccomandazioni internazionali

    L’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2023) sottolinea che la colazione regolare non è soltanto un comportamento alimentare salutare, ma un predittore di successo scolastico e di stili di vita più equilibrati nell’età adulta. In ambito educativo, promuovere programmi di “school breakfast” ha dimostrato un impatto positivo sull’assiduità, sulla motivazione e sulle dinamiche di apprendimento cooperativo.

    Applicazioni didattiche

    In contesto scolastico, gli insegnanti osservano frequentemente che gli alunni che saltano la colazione mostrano:

    • maggiore distraibilità e affaticamento precoce;
    • ridotta partecipazione attiva;
    • difficoltà nel mantenere la memoria di lavoro necessaria per seguire spiegazioni e svolgere esercizi complessi.

    La neuropsicologia didattica suggerisce quindi di considerare la colazione non solo un pasto, ma un prerequisito funzionale dell’apprendimento, al pari del sonno o dell’attività fisica.

    Conclusione

    La colazione è un determinante neurocognitivo che influisce direttamente sull’efficienza del cervello. Saltarla significa esporre gli studenti a deficit attentivi, calo mnestico e vulnerabilità emotiva. Promuoverne l’importanza, sia in famiglia che nelle politiche educative, rappresenta un investimento concreto per favorire processi di apprendimento più stabili ed efficaci.

  • Disprassia infantile o DCD: segnali, cause e interventi a scuola

    Disprassia infantile o DCD: segnali, cause e interventi a scuola

    Il Disturbo della Coordinazione Motoria (DCD), conosciuto anche come disprassia evolutiva, è una condizione neuroevolutiva che interessa circa il 5-6% dei bambini in età scolare. Si manifesta con difficoltà significative nell’acquisizione e nell’esecuzione di abilità motorie, non spiegabili da deficit intellettivi, neurologici o sensoriali.

    Che cos’è il DCD

    Il disturbo riguarda la pianificazione e il controllo dei movimenti: i bambini con DCD appaiono spesso goffi, impacciati, con difficoltà nei gesti quotidiani che per i coetanei risultano spontanei.
    Alcuni esempi pratici:

    • Vestirsi, allacciare le scarpe, abbottonare una camicia.
    • Usare posate, forbici o strumenti scolastici come righello e compasso.
    • Partecipare a giochi di movimento, correre o saltare senza cadere.

    Non è semplice “goffaggine infantile”: il DCD è persistente e interferisce con il rendimento scolastico e la vita sociale.

    Segnali a scuola

    Gli insegnanti sono spesso i primi a notare difficoltà che vanno oltre la lentezza:

    • Calligrafia irregolare, pressione discontinua sul foglio.
    • Incapacità di mantenere il ritmo nelle attività sportive.
    • Frustrazione, bassa autostima e ritiro sociale.

    Questi segnali, se sottovalutati, possono alimentare un circolo vizioso di ansia da prestazione e isolamento.

    Diagnosi

    La diagnosi è clinica e multidisciplinare: coinvolge neuropsichiatra infantile, psicologo e terapisti della riabilitazione.
    Gli strumenti più utilizzati sono:

    • M-ABC (Movement Assessment Battery for Children): valuta abilità motorie fini e grossolane.
    • BOT-2 (Bruininks-Oseretsky Test of Motor Proficiency).

    Fondamentale è distinguere il DCD da altri disturbi come ADHD, DSA o disturbi dello spettro autistico, con cui spesso coesiste.

    Interventi

    Gli approcci più efficaci si basano su training mirati:

    • Terapia occupazionale e fisioterapia con esercizi graduati.
    • Task-oriented training: insegnare direttamente l’abilità deficitaria (es. allacciarsi le scarpe).
    • Strategie cognitive (CO-OP): guidare il bambino a pianificare, eseguire e monitorare i propri movimenti.

    A scuola sono utili adattamenti didattici:

    • Consentire tempi aggiuntivi per le prove scritte.
    • Offrire strumenti compensativi (penne ergonomiche, tastiere).
    • Favorire attività inclusive che non penalizzino la prestazione motoria.

    Una sfida educativa

    Il DCD non è solo un problema motorio: ha un forte impatto psicologico. Un bambino che non riesce a partecipare alle attività dei coetanei rischia di sentirsi escluso.
    L’intervento precoce, l’alleanza scuola-famiglia-terapisti e la sensibilizzazione dei compagni possono trasformare una fragilità in una palestra di resilienza.

  • Il nervo vago: il grande sconosciuto che regola il nostro benessere

    Il nervo vago: il grande sconosciuto che regola il nostro benessere

    Il nervo vago, spesso chiamato “il grande sconosciuto”, è in realtà uno degli attori principali del nostro equilibrio psico-fisico. È il decimo nervo cranico e corre come un’autostrada invisibile dal cervello fino agli organi più vitali: cuore, polmoni, stomaco, intestino.

    Un regista silenzioso del corpo

    Il nervo vago è la colonna portante del sistema nervoso parasimpatico, quello che contrasta lo stress e favorisce il recupero.

    • Rallenta il battito cardiaco quando l’ansia accelera il cuore.
    • Regola la respirazione, favorendo profondità e calma.
    • Influenza la digestione, coordinando i movimenti intestinali.
    • Partecipa all’equilibrio emotivo, perché in dialogo costante con l’amigdala e la corteccia prefrontale.

    Quando il vago funziona bene, ci sentiamo centrati; quando è ipofunzionante, possono emergere tachicardia, disturbi gastrointestinali, insonnia, ansia.

    Il nervo vago e la mente

    Le neuroscienze hanno mostrato che il vago è fondamentale anche per la regolazione emotiva. La teoria polivagale di Stephen Porges spiega come questo nervo agisca da “radar sociale”: ci aiuta a sentirci sicuri, a connetterci con gli altri, a modulare le risposte allo stress.

    Un vago “allenato” favorisce resilienza, calma interiore e maggiore capacità di concentrazione. Non è un caso che molte pratiche educative e terapeutiche oggi inseriscano tecniche di respirazione diaframmaticamindfulness e biofeedback vagale.

    Esempi pratici in ambito didattico

    Nelle scuole, attivare il nervo vago può diventare una strategia semplice ma potente:

    • Respiri lenti collettivi all’inizio della lezione → abbassano la tensione e favoriscono l’attenzione.
    • Pausa attiva con stretching e vocalizzi → stimolano il vago e rimettono in moto le energie cognitive.
    • Spazi di silenzio guidato → aiutano studenti ansiosi a recuperare controllo.

    In alcuni progetti pilota, brevi sessioni di esercizi di coerenza cardiaca hanno ridotto i livelli di ansia e migliorato le prestazioni mnemoniche degli studenti.

    Conclusione

    Il nervo vago non è solo un dettaglio anatomico: è una vera cerniera tra corpo, emozioni e mente. Conoscerlo e stimolarlo significa imparare a regolare se stessi, a scuola come nella vita quotidiana.

  • Giovani e infertilità: il peso nascosto di alcol e cannabis

    Giovani e infertilità: il peso nascosto di alcol e cannabis

    Infertilità giovanile: un problema crescente

    L’infertilità non è un tema di nicchia ma una realtà che riguarda una persona su sei nel corso della vita (WHO, 2023). Non parliamo di morale o stili di vita “giusti” o “sbagliati”, ma di biologia riproduttiva: l’ambiente e le abitudini incidono direttamente sulla capacità di concepire. Tra i fattori a più alta prevalenza tra i giovani spiccano alcol e cannabis, sostanze spesso sottovalutate quando si discute di fertilità.

    Cannabis e fertilità: il lato oscuro del THC

    Nelle donne

    Uno studio pubblicato su Nature Communications (2025) ha rilevato la presenza di THC nel fluido follicolare di pazienti sottoposte a PMA. Il risultato? Alterazioni del fuso meiotico e riduzione dell’euploidia embrionale, cioè un aumento di embrioni con anomalie cromosomiche e minori possibilità di impianto. Ciò significa che anche esposizioni non quotidiane possono compromettere la qualità ovocitaria.

    Negli uomini

    La cannabis colpisce soprattutto la qualità del DNA spermatico. Una ricerca del 2024 su PLOS ONE ha dimostrato che il THC influenza la struttura epigenetica dello sperma, con ripercussioni sulla qualità embrionale. Altri studi segnalano un aumento della frammentazione del DNA e difetti nella compattazione cromatinica, con conseguente riduzione della motilità e della capacità fecondante.

    In sintesi: la cannabis interferisce con i meccanismi più delicati della riproduzione: meiosi ovocitaria, euploidia embrionale e integrità del genoma spermatico.

    Alcol e fertilità: conta il “quando” e il “quanto”

    Nelle donne

    La finestra più critica è la fase luteale e peri-ovulatoria. Studi prospettici dimostrano che anche un consumo moderato di alcol in questi momenti riduce significativamente la probabilità di concepimento. Il binge drinking peggiora ulteriormente il quadro, influenzando sia l’ovulazione sia la recettività endometriale.

    Negli uomini

    Per l’uomo il fattore determinante è la cumulatività. Il consumo cronico riduce i livelli di testosterone, altera la funzione delle cellule di Sertoli e Leydig e peggiora i parametri seminali (volume, concentrazione, motilità e morfologia). Lo stress ossidativo indotto dall’alcol è uno dei principali responsabili del danno a carico degli spermatozoi.

    Meccanismi biologici alla base

    • Cannabis: il THC altera il sistema endocannabinoide, che regola ovulazione, maturazione ovocitaria e capacità fecondante dello sperma. Interferisce con la meiosi femminile e modifica epigeneticamente il genoma maschile.
    • Alcol: provoca stress ossidativo e interferenze sull’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, compromettendo equilibrio ormonale, spermatogenesi e ovulazione.

    Questi processi non sono “opinioni”, ma risposte fisiologiche misurabili, documentate dalle ricerche più recenti.

    Domande frequenti (e risposte scientifiche)

    • “Una canna nel weekend incide?” Sì: anche esposizioni episodiche sono correlate a minore euploidia embrionale e danno spermatico.
    • “Il vino a cena è pericoloso?” Se consumato nella fase luteale/ovulatoria femminile può ridurre le probabilità di concepimento. Negli uomini gli effetti emergono soprattutto con consumi cronici.
    • “Esistono soglie sicure?” Gli studi non definiscono un limite privo di rischio: la raccomandazione clinica resta l’astensione in fase di ricerca gravidanza o PMA.

    Indicazioni pratiche in fase pre-concezionale

    • Cannabis: astensione per almeno 3 mesi negli uomini (ciclo completo di spermatogenesi) e totale sospensione nelle donne in pre-concepimento e PMA.
    • Alcol: astensione femminile in fase luteale e ovulatoria, riduzione drastica o eliminazione negli uomini con consumo cronico.
    • Counselling clinico: valutazioni su DNA spermatico, riserva ovarica e ormoni sessuali nei giovani esposti ad alcol o cannabis.

    Numeri chiave

    • 1 su 6: adulti che affrontano infertilità (WHO).
    • THC nel follicolo: associato a meno embrioni euploidi (2025).
    • THC sullo sperma: aumenta danno epigenetico e frammentazione del DNA (2024).
    • Alcol in luteale: anche a dosi moderate riduce la probabilità di concepimento.

    Conclusioni

    La ricerca scientifica ci dice chiaramente che non esistono sostanze “neutre” in fase riproduttiva. Cannabis e alcol non vanno interpretati come vizi morali, ma come variabili biologiche che incidono sul destino riproduttivo di molti giovani. Investire in prevenzione, consapevolezza e corretta informazione significa non solo aumentare le chance di concepimento, ma anche garantire benessere psicologico e sanitario alle nuove generazioni.

  • Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Introduzione

    Secondo l’UNESCO (2023) oltre il 60% dei Paesi europei ha introdotto restrizioni all’uso del cellulare in classe. Anche in Italia, il dibattito si è acceso: il divieto è una misura educativa o un’imposizione coercitiva? Per gli adolescenti, lo smartphone non è un semplice strumento tecnologico, ma una vera estensione del sé, tanto che le neuroscienze parlano di “protesi cognitiva e identitaria”.

    Il divieto di cellulare nella mente dell’adolescente

    Per lo studente delle scuole secondarie, il cellulare rappresenta:

    • Connessione sociale: chat e social come spazi vitali di appartenenza.
    • Autonomia percepita: possibilità di scegliere, comunicare, affermarsi.
    • Rifugio emotivo: un modo per sedare ansia e noia.

    Quando interviene il divieto, scatta un conflitto: da un lato la necessità dell’adulto di creare un ambiente di concentrazione, dall’altro la percezione di una limitazione della libertà personale. Studi di Przybylski e Weinstein (2017) parlano di “fear of missing out” (FoMO), ossia la paura di essere esclusi dalle interazioni sociali digitali, che può aumentare l’ansia negli adolescenti.

    Utilità educativa: cosa dicono gli studi

    Il divieto non è solo una misura disciplinare: ha basi scientifiche.

    • Concentrazione: Rosen, Carrier e Cheever (2013) hanno dimostrato che anche brevi interruzioni dovute al cellulare riducono del 20% la capacità di memorizzazione.
    • Apprendimento profondo: un report dell’OECD (2015) evidenzia che un uso eccessivo dei dispositivi digitali in classe è correlato a peggiori risultati scolastici in matematica e lettura.
    • Benessere psicologico: lo studio di Twenge e Campbell (2018) mostra una correlazione tra uso intensivo dello smartphone e sintomi depressivi negli adolescenti, suggerendo l’importanza di momenti di disconnessione.

    Perché è percepito come coercizione

    • Assenza di dialogo: il divieto viene comunicato spesso come regola e non come progetto educativo condiviso.
    • Identità digitale: lo smartphone è parte integrante della costruzione di sé nell’adolescenza.
    • Relazione adulti–studenti: quando non c’è mediazione, la misura appare come un controllo autoritario.

    La chiave sta nella pedagogia del limite: spiegare che un confine non è una negazione, ma uno spazio che permette di crescere.

    Strategie educative alternative

    Il divieto ha senso se integrato in un percorso:

    • Educazione digitale: insegnare uso critico e consapevole dei social.
    • Zone e tempi di disconnessione: creare momenti dedicati all’apprendimento senza dispositivi.
    • Coinvolgimento degli studenti: costruire regole condivise aumenta l’adesione.
    • Supporto psicologico: aiutare gli studenti a gestire ansia e FoMO.

    Linee guida e buone pratiche

    In Europa, la Francia ha introdotto nel 2018 il divieto di cellulare nelle scuole primarie e secondarie, con risultati positivi sulla concentrazione. L’Italia segue una linea più flessibile, demandando alle scuole la regolamentazione interna. Le Linee guida del MIUR (2022) sottolineano l’importanza di un uso “didatticamente orientato” delle tecnologie, non la loro demonizzazione.

    Conclusione

    Il divieto di cellulare a scuola può essere letto come coercizione se resta solo una regola imposta. Ma se accompagnato da spiegazioni, attività educative e spazi di confronto, diventa occasione di crescita. La sfida non è eliminare la tecnologia, ma insegnare a usarla con consapevolezza. Come scriveva Umberto Eco, “le nuove tecnologie non sono buone né cattive, dipende dall’uso che se ne fa”.

  • “Bambini senza piazze: il futuro rubato al gioco”.

    “Bambini senza piazze: il futuro rubato al gioco”.

    Introduzione

    Le piazze, i parchi e i cortili un tempo erano il cuore pulsante del gioco infantile. Oggi, invece, quegli stessi spazi vengono progressivamente colonizzati da tavolini, dehors e attività commerciali. Il risultato è un impoverimento silenzioso, ma drammatico, per le nuove generazioni: la perdita del gioco libero, spontaneo, non mediato dagli adulti.

    Il valore del gioco libero

    Il gioco libero rappresenta una dimensione pedagogica irrinunciabile:

    • permette di sperimentare regole e conflitti, senza un adulto a fare da giudice;
    • stimola la creatività e la capacità di adattamento;
    • favorisce l’aggregazione sociale spontanea, creando comunità tra pari;
    • sviluppa resilienza, perché il rischio – cadere, litigare, sbagliare – diventa palestra di crescita.

    Non si tratta soltanto di divertimento: è una palestra educativa naturale che plasma il carattere e le competenze sociali di bambini e adolescenti.

    La paura che soffoca la libertà

    Negli ultimi decenni la società occidentale ha sviluppato una forma di paura diffusa: si vedono pericoli ovunque, si immaginano minacce dietro ogni angolo. Per rispondere a questa ansia collettiva, gli adulti hanno ipercontrollato i luoghi e i tempi del gioco.

    Così, il bambino non gioca più nella piazza, ma nel campo sportivo organizzato. Non inventa regole, ma segue quelle codificate da un istruttore. Non costruisce avventure, ma partecipa ad attività strutturate e a pagamento.

    Questa trasformazione ha un costo: il prezzo della sicurezza assoluta è la perdita dell’autonomia, della creatività, della capacità di affrontare l’imprevisto.

    Le conseguenze psicologiche e sociali

    Oggi ne vediamo già le conseguenze:

    • adolescenti chiusi in casa, rifugiati nel digitale;
    • giovani meno capaci di gestire conflitti reali;
    • una crescita di fragilità psicologica, ansia e insicurezza;
    • una perdita di radicamento comunitario: la città non è più un luogo da abitare, ma da consumare.

    Restituire spazi al gioco libero

    Restituire ai bambini le piazze e i parchi non è un vezzo nostalgico, ma una necessità pedagogica e psicologica.
    Serve una politica urbanistica e sociale che ridia fiato all’infanzia, che liberi spazi dai tavolini del business e li restituisca al gioco, all’aggregazione, alla vita.

    Un bambino che gioca liberamente costruisce cittadinanza, fiducia e comunità. E una società che glielo permette, investe nel suo futuro.

  • “Stefano Benni, la scomparsa e l’eredità di Margherita Dolcevita”.

    “Stefano Benni, la scomparsa e l’eredità di Margherita Dolcevita”.

    Ci sono romanzi che, con leggerezza apparente, affondano le mani nel cuore della contemporaneità, smascherandone le fragilità e i cortocircuiti. Margherita Dolcevita (Feltrinelli, 2005) di Stefano Benni è uno di questi: un libro ironico e struggente, che si legge come una favola nera capace di parlare tanto agli adulti quanto agli adolescenti.

    La protagonista è Margherita, detta “Dolcevita”: quattordici anni, cuore generoso, spirito ribelle e uno sguardo acuto che decifra i silenzi degli adulti meglio delle loro parole. Vive in una famiglia eccentrica, tratteggiata con la consueta vena caricaturale di Benni: il padre disilluso, la madre ossessiva, il fratello tecno-dipendente, il nonno visionario. Un microcosmo che riflette, in forma grottesca e poetica, la società italiana sospesa tra consumismo, perdita di valori e omologazione.

    Il romanzo si anima con l’arrivo dei “Del Bene”, misteriosi vicini che incarnano un capitalismo scintillante e predatorio. Case perfette, sorrisi di plastica, promesse di benessere assoluto: dietro la facciata, la voragine dell’alienazione. Margherita, con il suo occhio critico e la sua sensibilità ferita, diventa coscienza e resistenza: la sua adolescenza non è un’età spensierata, ma il luogo drammatico in cui si combatte la lotta per l’anima della società.

    Lo stile di Benni alterna lirismo e comicità, favola e satira sociale. La lingua, intrisa di invenzioni, calembour e iperboli, costruisce una narrazione che sa far ridere e, nello stesso tempo, inquietare. Il lettore avverte, sotto la risata, la malinconia di un mondo che rischia di spegnersi nella sua stessa iperconnessione e nei suoi falsi bisogni.

    Margherita Dolcevita è una metafora attualissima dell’adolescenza e del nostro tempo: ci ricorda che crescere significa difendere la propria capacità di sognare, senza cedere alle sirene del conformismo. È un libro che genitori, educatori e terapeuti dovrebbero leggere per comprendere lo sguardo ferito e insieme lucido delle nuove generazioni.

    Con la scomparsa di Stefano Benni, avvenuta oggi, 9 settembre 2025, a Bologna, si chiude un capitolo luminoso della letteratura italiana contemporanea. Aveva 78 anni e da tempo lottava contro una lunga e invalidante malattia.

    Addio, ad uno scrittore che non salì mai in cattedra, che amava sorprenderci con neologismi, iperboli, paradossi e invenzioni linguistiche — un autore che ha saputo rendere la satira culturale un atto d’amore per il mondo e per la parola. Che il suo lascito continui, in ogni frase letta ad alta voce, a farci ridere, a indurci a guardare il mondo con occhi più acuti, più solidali, più vivi.

    “Noi siamo quello che sembriamo ma non sempre sembriamo quello che pensiamo di sembrare.”

    Stefano Benni 12 Agosto 1947 – 9 Settembre 2025

  • Psicologia e tradizioni popolari: perché crediamo nei rituali magici?

    Psicologia e tradizioni popolari: perché crediamo nei rituali magici?

    Introduzione

    Dal malocchio agli amuleti, dalle formule segrete alle superstizioni quotidiane: l’essere umano, in tutte le culture, ha creato rituali per proteggersi da ciò che non può controllare.
    Ma perché crediamo così facilmente a queste pratiche? Perché siamo disposti a piegare le nostre decisioni a riti e credenze, pur di sentirci dire ciò che, inconsciamente, desideriamo?

    Malocchio e bisogno di controllo

    Il malocchio è uno degli esempi più diffusi di credenza popolare: uno sguardo carico d’invidia o cattiva intenzione capace di “colpire” la vittima.
    La psicologia spiega questo fenomeno come strategia di riduzione dell’incertezza. Quando la vita sembra fuori controllo, il cervello tende a “vedere” connessioni anche dove non ci sono. Whitson e Galinsky (2008) hanno dimostrato che la mancanza di controllo aumenta la percezione di pattern inesistenti: un meccanismo che alimenta superstizioni e rituali.

    La forza del rituale: placebo e suggestione

    Quando una persona “si fa togliere l’occhio” attraverso acqua, olio o formule segrete, spesso sperimenta un reale sollievo. Perché?
    Entra in gioco la risposta placebo. Come spiega Fabrizio Benedetti (2005), il contesto simbolico di cura può attivare nel cervello sistemi neurochimici legati a dopamina e oppioidi endogeni, generando benessere autentico. Non è “solo credere”: è un effetto biologico innescato da aspettative e ritualità.

    Il potere delle parole

    Un altro fattore decisivo è la psicologia del riconoscimento. Le persone si sentono attratte da chi sa dire ciò che inconsciamente vogliono sentire: che il male non dipende da loro, che c’è una spiegazione esterna, che esiste un rimedio accessibile.
    È lo stesso meccanismo che rafforza gli oroscopi o i consigli “magici”: dare un nome all’angoscia e trasformarla in una narrazione condivisibile. Come notava Clifford Geertz, l’uomo ha bisogno di sistemi simbolici per dare senso al dolore e all’incertezza.

    Norme sociali e conformità

    Le credenze popolari non vivono solo nella mente individuale: sono pratiche sociali. Adeguarsi al rito significa restare parte della comunità. Gli esperimenti sulla conformità (Asch, 1951 e repliche moderne) dimostrano che le persone preferiscono spesso sbagliarsi insieme agli altri piuttosto che avere ragione da sole. Così il rituale diventa anche un codice di appartenenza.

    Psicologia antropologica: cosa ci incastra davvero?

    Questi rituali funzionano perché intrecciano diversi livelli:

    • Psicologico: riducono ansia e offrono sollievo simbolico.
    • Biologico: attivano meccanismi placebo che influenzano corpo e mente.
    • Antropologico: rafforzano identità e coesione sociale.
    • Fenomenologico: sono esperienze incarnate, vissute nel corpo come liberazione.

    In altre parole, crediamo perché il rito parla contemporaneamente alla nostra psiche, al nostro corpo e al nostro bisogno di comunità.

    Conclusione

    Il malocchio, la medicina dell’occhio, gli amuleti: non sono semplici superstizioni, ma strumenti culturali che hanno dato all’uomo la possibilità di sentirsi meno solo di fronte al dolore. La psicologia ci mostra che ciò che chiamiamo “magia” è spesso una risposta sofisticata al bisogno di significato e appartenenza.
    E allora la domanda diventa: davvero siamo così lontani da quei rituali? O continuiamo, ogni giorno, a cercare qualcuno che ci dica esattamente quello che vogliamo sentire?

  • Sbadiglio e scuola: quando il cervello chiede una pausa

    Sbadiglio e scuola: quando il cervello chiede una pausa

    Oltre la noia: un segnale da interpretare

    In classe lo sbadiglio viene spesso letto da insegnanti e compagni come sinonimo di noia o disinteresse. Ma le neuroscienze educative ci dicono che non è così semplice: lo sbadiglio può essere un indice di sovraccarico cognitivo.

    Uno studente che segue una lezione frontale lunga, in un’aula rumorosa e con richieste multiple, sta consumando molte risorse attentive. Lo sbadiglio diventa allora un atto di autoregolazione fisiologica, simile a una valvola di sfogo, per segnalare che la mente ha bisogno di una pausa.

    Evidenze scientifiche sullo sbadiglio

    Diversi studi hanno approfondito la funzione neurocognitiva dello sbadiglio. Andrew C. Gallup (2014) ha ipotizzato che lo sbadiglio sia un meccanismo di termoregolazione cerebrale, utile a raffreddare il cervello sotto stress cognitivo. Smith e colleghi (2021) hanno osservato che gli studenti sbadigliano più frequentemente in condizioni di compiti attentivi prolungati, specialmente quando la lezione supera i 30-40 minuti senza pause. Altri lavori (Eldakar & Gallup, 2012) hanno collegato lo sbadiglio a processi di sincronizzazione sociale: in classe, lo sbadiglio di uno studente può innescare una risposta simile negli altri, segnalando un calo collettivo dell’attenzione.

    Questi dati confermano che lo sbadiglio non è un semplice atto riflesso, ma un indice sensibile di sovraccarico cognitivo e stato attentivo, con implicazioni dirette nella progettazione didattica.

    Carico cognitivo e apprendimento

    La teoria del carico cognitivo (Sweller, 1988) applicata alla scuola ci ricorda che la memoria di lavoro ha limiti precisi: se il flusso di informazioni è troppo denso, l’apprendimento si blocca.
    Lo sbadiglio in classe, quindi, può dirci che:

    • la lezione è troppo lunga o monotona,
    • le strategie didattiche non alternano abbastanza canali (uditivo, visivo, motorio),
    • lo studente sta vivendo un sovraccarico sensoriale (tipico in alcuni alunni con ADHD o ASD).

    Didattica e autoregolazione

    Cosa possono fare gli insegnanti?

    • Prevedere micro-pause: anche solo 2 minuti di movimento o respirazione.
    • Variare il ritmo didattico: spiegazione, attività breve, confronto.
    • Accogliere i segnali corporei (sbadiglio, irrequietezza, perdita di attenzione) come indicatori di limite cognitivo, non come “maleducazione”.
    • Favorire strategie di autoregolazione: insegnare agli studenti che lo sbadiglio è un segnale utile, non qualcosa da reprimere.

    Una prospettiva inclusiva

    Nella scuola inclusiva, osservare i comportamenti fisiologici come lo sbadiglio significa leggere i bisogni dietro i gesti. Per un alunno con DSA o ADHD, ad esempio, sbadigliare ripetutamente non vuol dire disinteresse, ma “sto faticando a tenere il passo”.
    Riconoscerlo permette di adattare la lezione e di rispettare i tempi di apprendimento di ciascuno.