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  • ALESSITIMIA

    ALESSITIMIA

    L’analfabetismo emotivo che silenzia il dolore

    L’alessitimia è una condizione psicologica caratterizzata da una marcata difficoltà a identificare, descrivere e differenziare i propri stati emotivi. Il termine, coniato da Peter Sifneos negli anni ’70, significa letteralmente “assenza di parole per le emozioni” (a–lexis–thymos). Non si tratta di una patologia in senso stretto, ma di un tratto di personalità, spesso difensivo, che può accompagnarsi a disturbi psicosomatici, depressione, dipendenze e comportamenti compulsivi.

    Il volto inespressivo delle emozioni negate

    Il soggetto alessitimico non è privo di emozioni, ma le vive in modo confuso, opaco, talvolta somatico. La sofferenza si manifesta nel corpo perché non riesce a prendere forma nel linguaggio. Un mal di stomaco, un’irritazione cutanea, un senso di costrizione al petto diventano il codice cifrato di un dolore psichico inespresso. Studi recenti mostrano che circa il 10% della popolazione presenta tratti alessitimici, con una prevalenza maggiore nei soggetti affetti da disturbi d’ansia, disturbi somatoformi e PTSD.

    Neurobiologia del silenzio emotivo

    A livello neurobiologico, l’alessitimia è associata a una ridotta connettività tra l’amigdala (regolazione emozionale) e la corteccia prefrontale (elaborazione cognitiva). Questo disallineamento compromette la consapevolezza emotiva, portando il soggetto a descrivere esperienze interne in modo concreto, utilitaristico e povero di risonanza affettiva. Secondo uno studio pubblicato su Journal of Affective Disorders (2022), soggetti alessitimici mostrano anche una ridotta attivazione dell’insula anteriore, implicata nell’empatia e nella consapevolezza interocettiva,

    Origini precoci: la teoria dell’attaccamento

    Molti autori riconducono l’origine dell’alessitimia a un ambiente familiare carente di alfabetizzazione emotiva. In particolare, uno stile di attaccamento evitante o disorganizzato, in cui il bambino non viene aiutato a dare un nome alle sue emozioni, può favorire uno sviluppo affettivo inibito. “Là dove le emozioni non sono accolte, vengono represse” afferma lo psicoanalista Serge Tisseron. Il risultato è un individuo che, in età adulta, fatica a decodificare il proprio mondo interno, sviluppando una comunicazione fredda e pragmatica.

    Effetti sul funzionamento relazionale e affettivo

    Chi soffre di alessitimia tende ad avere relazioni superficiali o conflittuali. L’altro è percepito come inaccessibile o eccessivamente esigente, e ciò genera un senso di alienazione e incomunicabilità. In coppia, può tradursi in una distanza emotiva che mina la complicità. In ambito terapeutico, la relazione con il paziente alessitimico è spesso lenta e difficile: egli resiste alla simbolizzazione e ai processi di insight. Tuttavia, proprio qui si apre uno spiraglio terapeutico: lavorare sull’identificazione e la narrazione del sentire può condurre a una nuova grammatica dell’anima.

    Psicoterapia e ri-alfabetizzazione emotiva

    La psicoterapia psicodinamica e la terapia basata sulla mentalizzazione (MBT) si sono rivelate particolarmente efficaci nel trattamento dell’alessitimia. L’obiettivo è creare uno spazio sicuro dove il paziente possa iniziare a “parlare il linguaggio delle emozioni”. Attraverso tecniche di mirroringriflessione affettiva e lavoro sulle immagini interne, il terapeuta accompagna il paziente in un percorso di riconnessione affettiva e simbolica. L’espressività corporea (ad esempio, attraverso la danzaterapia o l’arteterapia) può costituire un prezioso canale non verbale per accedere al sentire profondo.

    Verso una nuova alfabetizzazione del cuore

    In un’epoca in cui le emozioni sono spesso spettacolarizzate ma non realmente vissute, l’alessitimia rappresenta una sfida culturale oltre che clinica. Restituire parola al dolore significa anche restituire dignità all’umano, nella sua dimensione più fragile e autentica. “Le emozioni non ascoltate non tacciono: parlano nel linguaggio che possono”, scriveva il filosofo E. Levinas.

  • Quel giudice che abita nostro figlio

    Quel giudice che abita nostro figlio

    Quando il figlio diventa il tuo giudice

    Accade silenziosamente, spesso quando meno ce lo aspettiamo: il figlio amato, cresciuto con dedizione, diventa un giudice impietoso. Non si limita a dissentire: interpreta ogni gesto, ogni parola, come una colpa da scontare, un’assenza da rimproverare, un errore da punire. È una metamorfosi dolorosa, tanto più perché spesso nasce proprio dall’amore negato, frainteso o condizionato.

    “Se mi hai amato solo a condizione che fossi il figlio ideale, io oggi ti rinfaccio tutto ciò che non sono potuto essere.”

    Una ruota che gira: il giudizio che si trasmette e si ritorce

    Le dinamiche familiari disfunzionali possono diventare una ruota con ingranaggi affilati, dove l’affetto si mescola al controllo, e il bisogno di approvazione alla paura di sbagliare. In questo meccanismo:

    • il genitore esigente o svalutante trasmette l’idea che il valore si guadagni solo tramite la perfezione;
    • il figlio cresce confondendo l’amore con la prestazione;
    • fino a interiorizzare un giudice severo che prima accusa il genitore, poi sé stesso.

    Risultato?

    Un adulto pieno di rabbia repressa, insicurezze e aspettative impossibili. Il dolore che non ha potuto esprimere da bambino ora ritorna come accusa.

    Le radici psicologiche

    Criticismo genitoriale

    Uno stile educativo fondato su continue critiche (anche sottili) genera figli insicuri, ansiosi e iper-vigilanti (Lochman et al., 2019). Secondo lo State of Mind Journal (2023), i figli sottoposti a giudizio costante sviluppano un auto-dialogo critico distruttivo e una forte resistenza alla gratitudine o al perdono.

    Perfezionismo appreso

    Figli cresciuti in ambienti dove “non è mai abbastanza” sviluppano un perfezionismo maladattivo, spesso correlato a disturbi d’ansia e depressione (Nature, 2023). Tendono a giudicare duramente chi non è all’altezza—prima i genitori, poi sé stessi.

    Identità negata

    In contesti di genitorialità narcisistica o controllante, il figlio impara che per essere accettato deve rinunciare a sé. Quando conquista l’autonomia, torna a reclamare giustizia per quel sé tradito.

    Il giudice interiore non nasce da solo

    Il figlio che giudica con durezza è spesso un ex bambino che non ha potuto esprimere la propria vulnerabilità. Quando si trova nella posizione di giudicare (in adolescenza o età adulta), esercita il potere che un tempo gli è stato negato, alimentando una spirale di rivalsa:

    • Giudico il genitore → Percepisco colpa → Mi sento peggiore → Mi giudico → Riproietto fuori.

    Spezzare la ruota

    È possibile disinnescare questo ciclo? Sì, ma solo se si interviene sia nella dimensione individuale che relazionale.

    Strategie:

    • Riconoscere e nominare il giudice interiore;
    • Attivare percorsi di ristrutturazione cognitiva e auto-compassione;
    • Promuovere un dialogo emotivo autentico tra genitori e figli adulti;
    • Lavorare sul perdono come processo psicologico, non come atto morale.

    Conclusione: dal giudizio al riconoscimento

    Quando un figlio giudica con durezza, non sempre odia. Sta cercando, confusamente, di sanare una ferita. Se impariamo a riconoscere questo dolore reciproco, forse possiamo trasformare quella ruota di ingranaggi in un cerchio che unisce, non che stritola.

  • La notte a Manresa…

    La notte a Manresa…

    🌑 Una riflessione esistenziale ispirata alla crisi spirituale di Ignazio di Loyola, che trasformò la vanità in ascolto e silenzio, e il vuoto in luce.

    C’è un punto, nella vita di ogni uomo, in cui l’eco delle vanità comincia a stonare. È quel momento in cui il fragore delle conquiste mondane si fa silenzio assordante, e le medaglie conquistate con affanno si rivelano fatte di carta. È in quell’ora — spesso notturna, spesso solitaria — che l’anima comincia a desiderare qualcosa che non passa.

    Ignazio di Loyola, il cavaliere altero innamorato dell’onore e dell’apparenza, si ritrovò a Manresa, senza armature, senza titoli, senza specchi. Ciò che aveva definito la sua identità – il potere, il fascino, la bellezza fisica, la prodezza – era stato ridotto in polvere. E fu lì, nel vuoto scavato dalla rinuncia, che cominciò a vedere.

    La grotta di Manresa non è solo un luogo fisico. È simbolo di quel tratto d’ombra che tutti attraversiamo quando crolla il superfluo. Quando ci si accorge che si può vivere senza molti orpelli, ma non senza senso. Quando si intuisce che l’ansia di emergere è solo sete d’amore travestita.

    Ignazio, seduto nella sua notte, cominciò a distinguere le cose vane da quelle che restano. Scoprì che l’ego è un tiranno e che la pace non si conquista, si riceve. Che Dio si trova, sì, ma non nell’oro delle corti o nel plauso delle folle: si lascia incontrare nel cuore spogliato, nell’umiltà che riconosce di essere mendicante.

    La sua notte fu lunga, ma feconda. Una notte abitata da domande, lacrime, sfinimenti interiori. Ma anche da una luce nascosta: la consapevolezza che la verità dell’uomo si svela solo quando smette di recitare.

    Chi oggi è affaticato dalla rincorsa al superfluo, dalle aspettative degli altri, dai confronti che umiliano e dalla prestazione continua, può trovare rifugio e specchio in quella grotta. Manresa ci ricorda che c’è un tempo per perdere tutto, e che quel tempo può diventare un inizio.

    Perché è solo quando si lascia andare ciò che pesa che si riesce ad affacciarsi — con tremore ma con sincerità — alle cose che davvero restano: la presenza, la comunione, la verità, l’amore gratuito, Dio, come scriverà poi negli Esercizi Spirituali (n. 2)

    Non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente.”

  • Parole che agganciano la memoria

    Parole che agganciano la memoria

    Introduzione

    In un contesto scolastico sempre più sfidante, in cui l’overload informativo e la dispersione attentiva rendono difficile l’immagazzinamento stabile delle nozioni, le tecniche mnemoniche basate sull’ancoraggio semantico-visivo si rivelano strumenti preziosi. Particolarmente efficaci nei casi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), queste strategie potenziano la memoria di lavoro e facilitano l’accesso alle informazioni immagazzinate. Tra le più efficaci troviamo l’uso delle parole-piolo, delle parole-gancio e delle parole-chiave.

    1. Parole-piolo (Peg words): strutturare la memoria associativa

    Le parole-piolo si basano sull’associazione tra numeri e parole concrete che rimandano a immagini visive forti. Ogni numero viene “agganciato” a una parola foneticamente simile (es. 1 = pane, 2 = navi, 3 = mela…) per creare una base stabile di supporto mnemonico.

    🔹 Esempio:

    Per ricordare l’ordine di cinque elementi (es. Paesi fondatori dell’UE):

    • 1 = pane → Italia (immagino un pane a forma di stivale)
    • 2 = nave → Francia (immagino una nave con bandiera francese)
    • 3 = mela → Germania (immagino una mela con la bandiera tedesca)
    • ecc.

    ✅ Nei DSA:

    Gli alunni con dislessia o disortografia trovano nelle parole-piolo un supporto visivo e narrativo che sostituisce l’astrazione verbale pura. Lo storytelling simbolico rafforza la memoria semantica e crea “ganci” resistenti all’interferenza.

    2. Parole-gancio (Hook words): ancoraggi semantici e emotivi

    Le parole-gancio sono termini-ponte che collegano l’informazione nuova a qualcosa di già noto o emotivamente coinvolgente. Si basano sul principio della memoria relazionale.

    🔹 Esempio:

    Per ricordare il significato di osmosi:

    • Gancio: “osmo” → “osso” → immagino un osso che si inzuppa d’acqua per richiamare il passaggio del solvente.

    ✅ Nei DSA:

    Le parole-gancio sono utili in caso di dislessia e disgrafia poiché legano l’apprendimento a concetti già acquisiti, creando mappe semantiche più solide. L’uso di metafore e analogie riduce lo sforzo cognitivo.

    3. Parole-chiave (Keyword method): ponti tra lingue e significati

    La parola-chiave è una tecnica largamente utilizzata nell’apprendimento linguistico e scientifico. Si tratta di associare un termine sconosciuto a una parola dal suono simile in lingua madre, seguita da un’immagine mentale che collega i significati.

    🔹 Esempio:

    Inglese: “chair” (sedia)
    → Chiave italiana: “ciare” (immagino qualcuno che “ciarla” seduto su una sedia).
    L’associazione visiva aiuta a fissare il termine.

    ✅ Nei DSA:

    Fondamentale per i soggetti con discalculia e dislessia, perché sfrutta l’intelligenza visuo-spaziale e verbale al servizio della transcodifica. È spesso usata nella metodologia Feuerstein e nei protocolli compensativi personalizzati.

    Le basi neuroscientifiche delle tecniche mnemoniche

    Studi in neuropsicologia cognitiva (Paivio, 1990; Mayer, 2009) confermano che l’associazione verbo-visiva attiva più circuiti cerebrali, migliorando l’immagazzinamento a lungo termine. In particolare:

    • Lobo temporale mediale: implicato nella formazione della memoria episodica
    • Corteccia prefrontale dorsolaterale: coinvolta nella manipolazione e nel recupero mnemonico
    • Ippocampo: consolidamento delle tracce mnestiche

    Nei soggetti con DSA, questi circuiti mostrano un’efficienza alterata, ma le tecniche descritte stimolano le aree compensative, aumentando l’accessibilità delle informazioni.

    Considerazioni pedagogiche e cliniche

    • L’uso multimodale di immagini, storie e fonemi consente un apprendimento accessibile anche in presenza di profili cognitivi atipici.
    • È cruciale integrare queste tecniche nei Piani Didattici Personalizzati (PDP), rendendo l’intervento non solo clinico ma anche educativo.
    • La ripetizione distribuita e l’auto-produzione di immagini mentali sono elementi che aumentano l’efficacia dell’apprendimento strategico,

    Conclusione

    Le parole-piolo, gancio e chiave non sono scorciatoie mnemoniche, ma strumenti di democrazia cognitiva: trasformano l’apprendimento in un’esperienza accessibile, creativa e duratura. Per i soggetti con DSA, rappresentano una via alternativa alla linearità tradizionale, valorizzando intelligenze laterali spesso inascoltate.

    “Non è la memoria a essere debole, ma la via d’accesso a essa a non essere ancora stata costruita.”
    D. L.


  • Figli unici e senso di colpa: un’eredità emotiva da riparare

    Figli unici e senso di colpa: un’eredità emotiva da riparare

    Famiglie mononucleari: un nuovo paradigma sociale

    La trasformazione demografica degli ultimi decenni ha generato un incremento delle famiglie mononucleari e dei figli unici. In Italia, secondo l’ISTAT (2024), il 30,2% delle famiglie è composto da una sola persona e la media di figli per coppia si è ridotta drasticamente.

    Questa struttura familiare, seppur funzionale, espone il bambino a dinamiche psicologiche complesse, tra cui un’elevata interiorizzazione di aspettative e una precoce assunzione di ruoli riparativi e responsabilizzanti.

    Senso di colpa e responsabilità: il peso emotivo del figlio unico

    Numerosi studi evidenziano come i figli unici siano più esposti a una pressione implicita: l’unico erede del patrimonio affettivo, valoriale e simbolico dei genitori. Questo può generare:

    • Colpa anticipatoria: il bambino si sente in debito per l’investimento ricevuto;
    • Responsabilità genitoriale invertita: sensazione inconscia di dover proteggere i genitori, soprattutto se anziani o fragili;
    • Sindrome del “figlio missionario”: esigenza di eccellere per “giustificare” la propria unicità.

    👉 Secondo Falbo e Polit (1986), i figli unici mostrano tendenze a comportamenti iperadattivi e senso del dovere superiore rispetto ai coetanei con fratelli.

    Il meccanismo della colpa riparativa

    La colpa riparativa è una risposta emotiva che nasce quando il bambino percepisce di aver causato un danno e cerca di ristabilire l’equilibrio (Tangney et al., 2007). In contesti equilibrati, questo può favorire:

    • Empatia e prosocialità;
    • Sviluppo morale;
    • Autonomia affettiva.

    🧪 Tuttavia, in assenza di strumenti riflessivi o di contesti relazionali sani, questa colpa può diventare:

    • Cronica;
    • Disfunzionale;
    • Interiorizzata come vergogna (“non ho sbagliato, sono sbagliato”).

    La teoria della self-discrepancy (Higgins) distingue tra colpa sana (comportamento) e vergogna patologica (identità), sottolineando l’importanza di un’educazione emotiva che mentalizzi e contenga.

    Il ruolo dei genitori e la trasmissione implicita della colpa

    Le dinamiche familiari giocano un ruolo centrale. Studi recenti (PMC, 2023) mostrano che:

    • Genitori permissivi ma emotivamente poco presenti aumentano la vulnerabilità alla colpa patologica;
    • Un uso costante del linguaggio mentale (“Capisco che ti senti in colpa…”) favorisce l’elaborazione e la riparazione;
    • I figli unici in contesti ad alto conflitto coniugale tendono ad autoattribuirsi le tensioni familiari (PMC, 2022).

    In questi casi, il figlio unico si fa carico del dolore degli adulti, in un processo chiamato “colpa altruistica” (Control-Mastery Theory).

    Reti sociali ed educazione relazionale: la cura comunitaria

    In mancanza di fratelli o altri coetanei in casa, la rete sociale diventa il nuovo “fratello simbolico”. Ecco alcuni progetti virtuosi:

    🌍 Progetti pilota

    1. PRISMA (Torino): progetto di contrasto alla povertà educativa che ha aumentato del +38% l’interazione sociale tra famiglie a rischio.
    2. Cohousing intergenerazionale (Milano, Parigi): abitazioni miste tra anziani e giovani famiglie, che generano scambi affettivi e apprendimenti orizzontali.
    3. “La città dei bambini” (Roma, Napoli, Barcellona): ambienti urbani progettati con e per i minori.

    💡 Queste esperienze mostrano che la colpa relazionale si dissolve quando viene condivisa e “riparata” dalla rete. Il figlio unico non ha bisogno di essere liberato dal suo ruolo, ma sostenuto nel trovare spazi plurali dove ridefinire la propria identità senza iper-responsabilità.

    Linee guida terapeutiche e pedagogiche

    ObiettivoIntervento consigliato
    Dissoluzione della colpa cronicaRole-play e narrazione guidata per elaborare episodi dolorosi
    Prevenzione della vergognaDifferenziazione tra comportamento e identità
    Rafforzamento dell’empatiaAttività educative cooperative (peer education, tutoring)
    Decompressione familiareCounseling genitoriale centrato sulla “distribuzione affettiva”
    Rete relazionale esternaInclusione in gruppi sportivi, artistici, spirituali

    Conclusione

    Il figlio unico rappresenta oggi una figura centrale nella nuova antropologia familiare. Ma la sua unicità, se non contenuta da relazioni esterne e supporti riflessivi, può trasformarsi in un’interiorizzazione della colpa eccessiva, in un peso identitario che blocca crescita e autonomia.

    Occorre trasformare la città in grembo educativo, la scuola in luogo di pluralità affettiva, e la famiglia in spazio di cura e non di proiezione. Solo così si potrà rompere la solitudine strutturale del figlio unico e trasformare la colpa in risorsa etica, la responsabilità in libertà affettiva

  • “Servire senza perdersi”

    “Servire senza perdersi”

    Santa Marta: l’affanno dell’agire e il silenzio del cuore

    Santa Marta, sorella di Maria e di Lazzaro, non occupa i vertici iconici della cristianità. Non è l’estatica, né la martire, né la mistica rapita in visioni. Eppure, il suo nome brilla come una nota sommessa nella sinfonia evangelica, perché porta con sé il mistero di chi ama servendo, ma si smarrisce nell’eccesso del fare.

    Nel Vangelo di Luca (10,38-42), Marta accoglie Gesù nella sua casa e subito si affanna nei molti servizi. La scena è domestica, quasi banale: piatti, stoviglie, gesti quotidiani. Eppure, è lì che si consuma una delle più sottili parabole dell’interiorità. Marta è l’archetipo di chi si perde nelle urgenze, di chi sacrifica la contemplazione sull’altare dell’efficienza. Ella lavora, si agita, si irrita. E, in quella fretta ansiosa, chiede perfino a Gesù di rimproverare Maria, che invece è seduta, in ascolto. Ma il Maestro la guarda con dolce fermezza:
    “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose… ma una sola è necessaria.”

    Psicologia dell’affanno: quando il fare nasconde il vuoto

    Marta non è una colpevole, ma una sorella nostra. La psicologia contemporanea riconosce in lei il volto di molti — forse di tutti — che si consumano nel quotidiano senza lasciare spazio all’essenziale. L’iperattivismo, oggi spesso celebrato come virtù, cela in sé una trappola sottile: quella di riempire ogni vuoto per non incontrare il silenzio, per non sostare davanti a ciò che davvero brucia dentro.

    L’affaccendarsi compulsivo può diventare una sofisticata forma di evitamento emotivo. Ogni gesto, ogni lista da spuntare, ogni mansione portata a termine può servire, inconsciamente, a tacitare una domanda radicale:
    “Chi sono, quando non sto facendo nulla? Che cosa desidero, al di là del dovere e dell’approvazione?”

    La casa di Marta è la nostra mente quando non sa fermarsi. È la coscienza che, incapace di affrontare l’interiorità, cerca sollievo nei pavimenti puliti, nelle mail risposte in tempo, nelle lavatrici avviate. Ma nessun ordine esteriore può colmare il disordine di un’anima disabitata.

    La fatica che consuma e non nutre

    Chi lavora senza misura, anche se mosso da amore sincero, può diventare prigioniero del proprio zelo. Esistono madri che si esauriscono nel curare tutti tranne sé stesse, insegnanti che danno tutto ma non sanno ricevere, educatori, sacerdoti, psicologi, infermieri… anime generose e stanche, che sanno prendersi cura ma non sanno lasciarsi curare.

    La stanchezza cronica, il burnout emotivo, il senso di vuoto che sopraggiunge anche dopo mille gesti generosi… sono sintomi silenziosi di un’esistenza disancorata dall’ascolto. Marta ci ricorda che anche l’amore ha bisogno di misura, e che il cuore, come la terra, ha bisogno di riposo per dare frutto.

    La sapienza del grembiule

    Il grembiule di Marta non va disprezzato. Non c’è biasimo nel rimprovero di Gesù, ma un invito a trasfigurare l’agitazione in offerta silenziosa. Il servizio non è meno nobile della contemplazione, ma dev’essere linfa che sgorga da un centro abitato, e non compensazione per una mancanza.

    Ogni gesto quotidiano — lavare un piatto, portare un bicchiere, cucire un vestito, servire un malato — può diventare sacramento, se è compiuto da un cuore che sa restare presente. Marta non è da rigettare: è da consolare, da comprendere, da redimere.

    Un invito a sedersi

    Maria ha scelto la parte migliore, dice Gesù. Ma Marta è colei che ha aperto la porta. Forse il cammino spirituale inizia proprio lì: accogliendo, anche se non si è ancora pronti a fermarsi. Forse, dopo quel giorno, anche Marta ha imparato a sedersi. Forse ha continuato a cucinare, ma in silenzio. Forse ha ascoltato le parole del Maestro risuonare nella casa e nel cuore.

    Nel mondo di oggi, che idolatra l’efficienza e premia solo chi produce, abbiamo bisogno di riscoprire Marta. Non come modello da imitare, ma come sorella da guarire. Perché anche chi serve ha diritto a fermarsi. E perché, talvolta, la cosa più urgente è lasciarsi amare.

  • Il sosia dentro casa

    Il sosia dentro casa

    Sindrome di Capgras: quando il volto familiare diventa quello di un impostore

    Che cos’è la sindrome di Capgras?

    La sindrome di Capgras è un delirio di identificazione in cui il soggetto crede fermamente che una persona a lui molto vicina – spesso un familiare – sia stata sostituita da un impostore identico nell’aspetto, ma privo della reale identità originaria. Questo disturbo prende il nome dallo psichiatra francese Joseph Capgras, che nel 1923 descrisse per la prima volta questa illusion des sosies.

    Caratteristiche cliniche

    • Delirio monotematico: il paziente è convinto che il “sosia” sia identico nell’aspetto alla persona amata, ma non prova verso di lui nessuna connessione emotiva.
    • Preservazione delle funzioni cognitive: nella maggior parte dei casi, la memoria e il linguaggio restano intatti.
    • Convinzione incrollabile: il paziente non si lascia convincere dalla logica né dalle evidenze.

    Nei casi più gravi, la sindrome si estende anche agli animali domestici, agli oggetti (Capgras per gli oggetti) o addirittura a se stessi (fenomeno noto come autosostituzione capgrasiana).

    Cause e modelli neuropsicologici

    Modello doppia via visiva

    I principali studi (Ellis & Young, 1990) suggeriscono un disaccoppiamento tra riconoscimento visivo e risposta emotiva. La persona viene riconosciuta visivamente, ma non si attiva il circuito limbico che normalmente genera una risposta affettiva.

    In altre parole: vedo mia madre, ma non “sento” che è lei.

    Strutture cerebrali coinvolte

    • Corteccia fusiforme: sede del riconoscimento facciale.
    • Amigdala: responsabile della risposta emozionale.
    • Lobo temporale e frontale destro: spesso alterati nei pazienti Capgras.

    Connessioni con patologie neurologiche:

    • Morbo di Alzheimer (circa 16% dei pazienti presenta deliri di Capgras – Berrios & Luque, 1995)
    • Traumi cranici e encefaliti temporali
    • Schizofrenia paranoide (il delirio si inserisce in un quadro psicotico più ampio)

    Diagnosi differenziale

    La diagnosi è complessa e richiede un approccio neuropsicologico integrato. È essenziale distinguere Capgras da:

    • Prosopagnosia (incapacità di riconoscere i volti),
    • Disturbo delirante di tipo persecutorio,
    • Sindrome di Fregoli (disturbo opposto: la convinzione che persone diverse siano in realtà sempre la stessa che si traveste).

    Trattamento e presa in carico

    Non esiste una cura univoca, ma un intervento multidisciplinare è essenziale.

    Interventi principali:

    • Farmacoterapia: antipsicotici atipici come olanzapina o risperidone, con monitoraggio degli effetti collaterali.
    • Riabilitazione cognitiva: per ricostruire la connessione tra volto e risposta emotiva.
    • Psicoterapia di sostegno: per il paziente e per i caregiver, spesso soggetti a elevato stress.
    • Neuromodulazione (in casi selezionati): studi recenti hanno esplorato l’uso della TMS (stimolazione magnetica transcranica) nei deliri resistenti.

    Prospettive future e casi studio

    • Un caso italiano trattato presso l’IRCCS Fatebenefratelli di Brescia ha mostrato miglioramenti significativi combinando antipsicotici con terapia di realtà virtuale aumentata.
    • Studi in corso al Karolinska Institutet stanno analizzando la relazione tra Capgras e alterazioni nella connettività cerebrale destra (fMRI funzionale).
    • L’approccio terapeutico integrato proposto nel Progetto SAND (Sindrome da Alterazione del Nucleo dell’Identità) prevede un protocollo specifico per deliri da sostituzione in età geriatrica.

    Conclusione

    La Sindrome di Capgras rappresenta una delle sfide più affascinanti e destabilizzanti per la neuropsichiatria contemporanea. È la dimostrazione che l’identità non è solo memoria o visione, ma un sottile equilibrio tra percezione, affetto e riconoscimento. In un mondo dove il volto dell’altro può diventare maschera, la psicologia clinica ha il compito di restituire autenticità al legame e verità alla presenza.

  • Pedagogista e Psicologo: per una scuola che cura

    Pedagogista e Psicologo: per una scuola che cura

    Una complementarità necessaria

    Nel sistema scolastico contemporaneo, il pedagogista e lo psicologo scolastico rappresentano due figure professionali fondamentali e complementari. Se il primo opera sulla dimensione educativa, relazionale e metodologica dell’apprendimento, il secondo si concentra sul versante clinico, emotivo e psicologico del soggetto in età evolutiva.

    Insieme, pedagogia e psicologia costruiscono un ponte tra didattica e cura, tra progettazione educativa e ascolto dei disagi sommersi. In una scuola che vuole diventare davvero “ambiente di sviluppo integrale della persona”, l’alleanza tra questi due ruoli non è solo auspicabile: è urgente.

    Il ruolo del pedagogista

    Il pedagogista scolastico agisce su tre livelli:

    • Prevenzione delle difficoltà di apprendimento e di comportamento,
    • Progettazione di interventi educativi personalizzati (in sinergia con il docente),
    • Formazione del personale scolastico e dei genitori.

    Attraverso osservazioni sistematiche, analisi dei contesti e strumenti educativi, il pedagogista favorisce lo sviluppo di competenze trasversali, dalla motivazione alla regolazione emotiva, potenziando il contesto-classe nel suo complesso.

    Il ruolo dello psicologo scolastico

    Lo psicologo si occupa di:

    • Supporto psicologico individuale per studenti in difficoltà,
    • Valutazione di bisogni specifici, disturbi dell’apprendimento, disagi comportamentali e relazionali,
    • Sostegno alla genitorialità e al corpo docente.

    È inoltre figura chiave nei casi di bullismo, autolesionismo, ansia scolastica, disturbi dell’umore e da stress. La sua presenza costante (non occasionale) è indicata come fattore protettivo per il benessere dell’intera comunità scolastica (Fonte: CNOP, 2023).

    Progetti pilota e dati significativi

    📌 Progetto “Benessere a scuola” – Regione Emilia-Romagna

    • Figure coinvolte: psicologo e pedagogista, in sinergia con educatori e referenti BES.
    • Esiti: dopo 12 mesi, il 68% degli alunni seguiti ha mostrato miglioramenti nei comportamenti pro-sociali.
    • Riscontro docente: l’81% degli insegnanti ha dichiarato un miglior clima relazionale in classe.

    📌 “P.I.P.P.I.” – Programma di Intervento Per la Prevenzione dell’Istituzionalizzazione (Ministero del Lavoro e Università di Padova)

    • Coinvolge scuole, servizi sociali, famiglie e specialisti.
    • Il pedagogista lavora sull’empowerment familiare, mentre lo psicologo lavora sul benessere emotivo del minore.
    • Risultato: riduzione del rischio di allontanamento del minore in 3 casi su 4.

    📌 Progetto “Equità” – Città Metropolitana di Torino

    • Modello d’intervento integrato tra pedagogia e psicologia per contrastare la dispersione scolastica.
    • Dopo 2 anni: riduzione dell’abbandono scolastico del 24% nei plessi coinvolti.

    Quale scuola per il futuro?

    Numerosi piani ministeriali, tra cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), insistono sull’ampliamento delle equipe multiprofessionali a scuola. Il modello vincente è quello integrato, in cui pedagogisti, psicologi, educatori e assistenti sociali collaborano costantemente.

    Secondo l’ultimo report OCSE (2024), le scuole che adottano team interdisciplinari registrano:

    • un calo del 35% dei casi di drop-out,
    • un incremento del 48% nella partecipazione degli studenti ai progetti di cittadinanza attiva.

    Conclusione

    La presenza congiunta di pedagogisti e psicologi non rappresenta un lusso, ma una necessità. Solo attraverso un’azione sinergica, continuativa e professionale è possibile incidere davvero nel vissuto scolastico degli studenti e trasformare la scuola in uno spazio di cura, crescita e resilienza.

  • Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

    Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

    Riflessioni di un insegnante, psicologo, pedagogista e padre che da quasi 30 anni si occupa di integrazione, inclusione, neutodiversità…

    Questa è una lettera che nasce dove le parole spesso mancano: nel cuore ferito di un genitore che vede il proprio figlio non solo in difficoltà, ma escluso.

    Ci sono giorni in cui essere genitore di un bambino con disabilità intellettiva è come camminare su una fune tesa, senza rete di protezione. Non perché ci si vergogni, non perché si rinunci ad amarlo con tutto il cuore. Ma perché il dolore più profondo non nasce dalla diagnosi: nasce da ciò che succede dopo.


    Quando l’inclusione resta una parola

    C’è un momento esatto – e chi lo ha vissuto lo sa – in cui tuo figlio smette di essere “uno della classe” e diventa “un problema”.

    Quando la maestra – pur con la miglior buona volontà – ti fa capire che il gruppo classe “viene prima”.

    Quando gli altri bambini vengono incoraggiati a collaborare tra loro… mentre tuo figlio è accompagnato “a parte”, con pazienza, certo, ma anche con distanza.

    Quando l’inclusione viene nominata nei progetti e ignorata nelle dinamiche reali.

    E tu, genitore, torni a casa con la cartella piena di carte e il cuore vuoto. Perché tuo figlio non è un ostacolo alla crescita degli altri. È un bambino. E come ogni bambino, desidera appartenere.

    La solitudine dei genitori

    Si dice che serva un villaggio per crescere un bambino. Ma quando il bambino è fragile, spesso il villaggio si svuota.

    Restano i colloqui, i P.E.I., le buone intenzioni, ma manca lo sguardo profondo che riconosca nel bambino disabile una persona intera, non un frammento, non un “limite”.

    Essere genitore, in questi casi, è essere anche psicologo, terapista, segretario, avvocato del proprio figlio.

    Ma soprattutto, è essere testimone di un’esclusione che si consuma nel silenzio degli altri.

    Eppure l’aiuto è possibile

    L’aiuto vero non è pietà.

    Non è nemmeno la condiscendenza o l’applauso a fine recita.

    L’aiuto vero è lo sguardo educativo che non seleziona, ma si piega senza cedere, si adatta senza arrendersi.

    È la maestra che fa spazio non solo al programma, ma alla persona.

    È l’educatore che non vede un rallentamento ma una via diversa.

    È il compagno di classe che viene educato a riconoscere la diversità come ricchezza e non come ingombro.

    Unire la disperazione all’aiuto

    Come si tiene insieme la disperazione con la speranza di un aiuto effettivo?

    Con una sola parola: alleanza.

    L’alleanza tra scuola e famiglia non è un protocollo, ma un patto di fiducia.

    È dire: “Io vedo tuo figlio. Non come lo vorrei. Ma come è. E lo accolgo.”

    È smettere di difendersi e iniziare a costruire: insieme.

    Perché la disabilità non chiede compassione. Chiede relazioni vereattese pazientistrategie intelligenti.

    Conclusione

    A chi educa: non abbia paura di rallentare, di cambiare il ritmo della classe per accogliere chi ha bisogno.

    Non sarà tempo perso: sarà umanità guadagnata.

    Ai genitori, resti la forza di chiedere aiuto, senza cedere alla solitudine.

    Perché l’unica vera disabilità è un mondo che non vuole includere.

  • Fantasmi nel sangue: quando il passato plasma il presente

    Fantasmi nel sangue: quando il passato plasma il presente

    Eredità invisibili: la trasmissione transgenerazionale del trauma.

    Un trauma non si esaurisce con chi lo vive. In molti casi, esso si incarna nel silenzio familiare, nelle emozioni indicibili, nei gesti che si ripetono come un’eco muta. La psicologia contemporanea ha ormai documentato con rigore che i traumi possono attraversare le generazioni, incidendo profondamente sulla salute mentale e sullo sviluppo psico-affettivo della prole.

    La scoperta dell’epigenetica del trauma

    L’epigenetica ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’ereditarietà. Non solo i geni, ma le esperienze vissute – soprattutto quelle traumatiche – possono modificare l’espressione genica e queste modificazioni possono essere trasmesse alla generazione successiva.

    Uno degli studi più noti è quello condotto sui sopravvissuti all’Olocausto: la ricerca del Mount Sinai Hospital di New York (Yehuda et al., 2016) ha mostrato come i figli di sopravvissuti presentino alterazioni epigenetiche nei geni legati alla risposta allo stress, in particolare al gene FKBP5, coinvolto nella regolazione del cortisolo.

    Quando il dolore si eredita: clinica e osservazione

    Molti pazienti portano dentro di sé tracce di eventi che non hanno vissuto in prima persona, ma che risuonano nella storia familiare: guerre, migrazioni forzate, lutti, abusi. La clinica parla di “memorie non elaborate”, che possono emergere sotto forma di ansia immotivata, senso di colpa, paura del mondo o difficoltà relazionali.

    Il noto psicoanalista Nicolas Abraham parlava di “cripta psichica”, una sorta di sepolcro interiore dove si depositano segreti e dolori indicibili che il discendente finisce per incarnare inconsciamente.

    Come si trasmette un trauma?

    • Modelli relazionali: i genitori traumatizzati possono manifestare forme di attaccamento disorganizzato, trasmettendo insicurezza e imprevedibilità affettiva.
    • Narrazioni spezzate: ciò che non è stato detto, elaborato o raccontato crea buchi neri nella biografia familiare.
    • Epigenetica: come accennato, l’esposizione a eventi traumatici modifica l’espressione genica, con effetti sui sistemi neuroendocrini e comportamentali.
    • Meccanismi proiettivi: il figlio viene investito di aspettative, paure o ideali che non gli appartengono, ma che riflettono il trauma rimosso del genitore.

    E in Italia? Traumi collettivi e familiari

    Nel contesto italiano, eventi storici come la Seconda Guerra Mondiale, l’emigrazione di massa, il terrorismo degli anni di piombo e i terremoti hanno generato traumi collettivi non elaborati. In molte famiglie sarde, ad esempio, il trauma migratorio ha inciso su intere generazioni, spesso nel silenzio o nella rimozione.

    Un recente studio dell’Università di Torino (2023) ha evidenziato che i figli di migranti italiani degli anni ’50-’70 presentano maggiore incidenza di sintomi depressivi e ansiosi, anche in assenza di eventi traumatici diretti, suggerendo l’effetto a lungo termine delle condizioni stressanti vissute dai genitori.

    La cura: dalla consapevolezza alla liberazione

    L’elaborazione transgenerazionale del trauma avviene attraverso il riconoscimento, la narrazione e la ristrutturazione delle memorie familiari. Terapie come l’EMDR, l’approccio sistemico-relazionale, la psicogenealogia (Anne Ancelin Schützenberger) o la psicoterapia psicodinamica possono aiutare a “spezzare il cerchio”.

    Come sottolinea la psicoanalista Françoise Davoine:

    “I traumi che non parlano gridano da una generazione all’altra finché qualcuno non li ascolta.”