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  • La nuova era della plasticità neuronale

    La nuova era della plasticità neuronale

    Una rivoluzione neuroscientifica in atto

    Per decenni si è creduto che il cervello umano raggiungesse un picco di sviluppo nell’infanzia, per poi irrigidirsi in una struttura statica. La plasticità neuronale, oggi, smentisce questa visione: il cervello non solo continua a modificarsi nel tempo, ma lo fa anche in risposta all’esperienza, all’apprendimento e persino alla sofferenza psichica.

    L’evidenza più eloquente arriva dalle ricerche condotte da Michael Merzenich, pioniere nello studio della riorganizzazione corticale, il quale ha dimostrato come la corteccia uditiva di soggetti adulti possa ristrutturarsi profondamente in seguito a training specifici. Studi successivi (Zatorre et al., 2012) hanno inoltre rivelato modifiche morfologiche nel cervello di musicisti professionisti: un esempio emblematico di plasticità indotta dall’esperienza.

    Applicazioni cliniche: dalla riabilitazione ai disturbi dell’umore

    1. Riabilitazione neurocognitiva post-ictus

    Neuroplasticità è la chiave dei protocolli di riabilitazione motoria e cognitiva post-ictus. Grazie alla stimolazione ripetuta e a tecniche come il Constraint-Induced Movement Therapy (CIMT), si assiste alla formazione di nuove sinapsi e all’assunzione di funzioni da parte di aree cerebrali adiacenti a quelle danneggiate (Taub et al., 2002).

    2. Disturbi dell’umore e psicoterapia

    Anche la psicoterapia modifica il cervello. Ricerche con imaging funzionale (fMRI) hanno evidenziato che la terapia cognitivo-comportamentale può indurre cambiamenti strutturali nel circuito limbico, migliorando la regolazione emotiva in pazienti con depressione maggiore (Goldapple et al., 2004).

    3. Neuroeducazione e apprendimento

    In ambito scolastico, la scoperta che il cervello sia plastico ha rivoluzionato la didattica. L’introduzione di metodologie attive e multimodali, come il metodo Feuerstein, si fonda proprio sulla possibilità di potenziare le funzioni cognitive attraverso esperienze mirate. Ciò è fondamentale anche nei soggetti con DSA, ADHD o ritardo cognitivo, dove un training specifico può modificare le traiettorie evolutive.

    4. Mindfulness e modificazioni corticali

    Pratiche di meditazione, oggi integrate nella psicoterapia e nelle neuroscienze contemplative, mostrano un aumento della densità di materia grigia nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo (Hölzel et al., 2011), con ricadute positive su attenzione, memoria e benessere soggettivo.

    Nuove frontiere: stimolazione cerebrale e intelligenza artificiale

    Oggi si esplorano forme di stimolazione non invasiva come la TMS (Stimolazione Magnetica Transcranica) per intervenire su aree cerebrali coinvolte in depressione, ansia e disturbi del comportamento. Parallelamente, l’interazione tra intelligenza artificiale e neuroplasticità sta dando origine a protesi cognitive e interfacce neurali in grado di potenziare l’apprendimento o ristabilire funzioni perdute.

    Verso un nuovo paradigma dell’umano

    L’idea che il cervello sia una macchina fissa è definitivamente tramontata. Il neurosistema umano è, al contrario, organicamente aperto al cambiamento, modellabile in ogni fase della vita. La plasticità neuronale ci restituisce una visione dell’individuo come soggetto trasformabile, educativo, terapeutico e profondamente relazionale

    Come affermava Donald Hebb, padre della teoria sinaptica:

    “Le cellule che si attivano insieme, si connettono insieme.”

    Una frase che oggi è diventata il manifesto di una psicologia dinamica, profondamente neurocompatibile.

  • L’autismo spiegato ai non autistici: il libro che traduce l’intraducibile

    L’autismo spiegato ai non autistici: il libro che traduce l’intraducibile

    “Comprendere l’autismo non è un atto di tolleranza, ma di giustizia cognitiva.”

    Questa frase potrebbe sintetizzare lo spirito profondo di un’opera che, già dal titolo, ribalta la prospettiva classica: non sono gli autistici a dover adattarsi, ma i non autistici a dover imparare un nuovo linguaggio.

    Il testo nasce da un’esperienza straordinaria: Brigitte Harrisson è una donna autistica ad alto funzionamento, formatrice e consulente internazionale, mentre Lise St-Charles è una ricercatrice e terapeuta, co-fondatrice dell’Institut SACCADE. Insieme danno vita a un libro che è al tempo stesso manuale, confessione e strumento di advocacy.

    Il punto di forza del libro è l’originale concetto di “funzionamento autistico”, che viene descritto come un processo cognitivo e sensoriale autonomo, non come un deficit. Gli autori spiegano il motivo per cui le persone autistiche reagiscono in modo diverso allo stress, alla comunicazione sociale, all’ambiguità linguistica e alla complessità emozionale.

    Ogni capitolo decostruisce pregiudizi diffusi:

    • Gli autistici non sono “privi di empatia”, ma spesso sovraccarichi di empatia.
    • Non si tratta di un “ritardo evolutivo”, ma di una diversità di base neurobiologica.
    • L’“isolamento” non è rifiuto dell’altro, ma protezione da un mondo percepito come troppo invasivo.

    La narrazione è arricchita da modelli operativi e spiegazioni visive (come quella del “triangolo della comunicazione”), utilissimi anche per chi lavora nel mondo scolastico o terapeutico. Il linguaggio è rigoroso, ma accessibile, privo di pietismo, e guidato da un’etica relazionale forte: capire per relazionarsi, non per normalizzare.

    Punti di forza

    • Visione dall’interno, scientificamente fondata ma profondamente umana.
    • Adatto sia a specialisti sia a genitori e insegnanti.
    • Decostruzione di stereotipi con esempi concreti e modelli esplicativi.

    Punti di debolezza

    • Richiede una certa familiarità con le neuroscienze o con il linguaggio psicologico.
    • Meno adatto come primo approccio divulgativo rispetto a testi più narrativi.

  • Oltre la media matematica nella scuola di oggi

    Oltre la media matematica nella scuola di oggi

    Per decenni, la scuola italiana ha fatto della media matematica dei voti la bussola della valutazione, considerandola un criterio oggettivo e facilmente quantificabile. Tuttavia, gli sviluppi recenti nel campo della docimologia — la scienza della valutazione scolastica — mettono in discussione la sua efficacia, mostrando come tale approccio possa risultare riduttivo e, in alcuni casi, dannoso per la crescita psicologica e formativa dell’allievo.

    Perché la media matematica non basta più

    L’uso esclusivo della media aritmetica per valutare gli studenti tende a:

    • Uniformare realtà diverse, ignorando progressi individuali;
    • Penalizzare chi parte in svantaggio, favorendo chi ha già prerequisiti solidi;
    • Indurre ansia da prestazione, con effetti negativi sull’autostima (cfr. Hattie, 2009).

    Uno studio pubblicato su The Journal of Educational Measurement (2021) evidenzia come la valutazione basata unicamente su numeri porti a una sovraesposizione al giudizio e a una cristallizzazione dell’identità scolastica, specialmente in età adolescenziale.

    Valutazione progressiva ed educativa: modelli alternativi

    Negli ultimi anni, sempre più istituti scolastici stanno adottando una valutazione progressiva, centrata su:

    • Osservazione dei progressi nel tempo, anche in termini qualitativi;
    • Feedback narrativo e orientato allo sviluppo;
    • Autovalutazione e metacognizione, per rafforzare l’autoefficacia dello studente.

    Questo approccio si ispira ai lavori di Carol Dweck sul growth mindset, secondo cui il voto dovrebbe essere un indicatore di percorso, non un’etichetta definitiva.

    Progetti pilota e sperimentazioni

    Italia: “Valutare per apprendere”

    Nel 2023 il MIUR ha avviato, in alcune scuole secondarie di primo grado, il progetto “Valutare per apprendere”, con l’obiettivo di superare la tradizionale griglia numerica. I risultati preliminari indicano:

    • una diminuzione del tasso di abbandono scolastico del 12%;
    • un incremento dell’autoefficacia percepita da parte degli studenti (misurata attraverso lo Self-Efficacy Questionnaire for Children).

    Finlandia e Norvegia: esempi nordici di eccellenza

    In Finlandia, da anni, la valutazione non numerica è la norma fino ai 14 anni. Il focus è su descrittori formativi che guidano lo studente nel riconoscere le proprie aree di miglioramento. Analogamente, in Norvegia, il sistema educativo punta sulla valutazione formativa, collegata a obiettivi individualizzati e piani di sviluppo personali.

    Un cambiamento culturale prima ancora che metodologico

    Il passaggio da una valutazione sommativa a una educativa richiede un cambio di paradigma per docenti, studenti e famiglie. Non si tratta di “essere buoni”, ma di responsabilizzare l’apprendimento e rendere la valutazione uno strumento evolutivo.

    Come ricorda Edgar Morin:

    “La testa ben fatta vale più di una testa ben piena”.

  • Schreber: il delirio autobiografico di un giudice in manicomio

    Schreber: il delirio autobiografico di un giudice in manicomio

    Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber rappresenta una delle testimonianze autobiografiche più sconvolgenti e affascinanti della psicopatologia europea. Redatto durante la degenza in manicomio (1903), il testo racconta con acuminata lucidità la graduale immersione dell’autore in un delirio sistematizzato, offrendo al lettore l’accesso diretto alla mente di un uomo colpito da psicosi paranoide.

    Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda, figura eminente della borghesia tedesca di fine Ottocento, descrive la sua esperienza psicotica con una precisione quasi giuridica, rivelando l’inquietante coerenza interna del delirio e la sua potente forza mitopoietica. Angeli, raggi divini, femminilizzazione del corpo, rigenerazione dell’umanità: il suo universo allucinatorio è strutturato secondo una logica che sfida la ragione ma non la comprensione analitica.


    Freud, che non conobbe mai personalmente Schreber, ne fece oggetto di uno dei suoi saggi più celebri, interpretando la vicenda come espressione del ritorno del rimosso e come difesa contro impulsi omosessuali. Lacan, successivamente, riprenderà il caso per elaborare il concetto di forclusione del Nome-del-Padre, rilevando l’assenza di un significante simbolico capace di regolare l’accesso alla Legge.
    Schreber non è solo il paziente: è anche l’osservatore di se stesso, in un vertiginoso sdoppiamento tra soggetto e oggetto dell’osservazione. Questo rende le Memorie non solo un documento clinico, ma un’opera letteraria e filosofica capace di interrogare la natura del Sé, della follia, della percezione e della realtà.

    Perché leggerlo oggi

    Per genitori, educatori, terapeuti e pedagogisti, il libro rappresenta una testimonianza preziosa per comprendere non solo la dimensione clinica della psicosi, ma anche la dignità narrativa del soggetto sofferente. Memorie di un malato di nervi ci costringe a ridefinire il confine tra patologia e creatività, tra follia e logica, tra il “normale” e l’“altro”.

    In un’epoca in cui la salute mentale è spesso semplificata da diagnosi veloci e terapie standardizzate, la voce di Schreber risuona come monito: ogni delirio ha una logica, ogni mente ferita ha bisogno di essere ascoltata, decifrata, rispettata.

  • Perché ci mangiamo le unghie? Il lato nascosto dell’onicofagia

    Perché ci mangiamo le unghie? Il lato nascosto dell’onicofagia

    Il morso invisibile dell’ansia: comprendere l’onicofagia

    L’onicofagia, ovvero l’abitudine di mangiarsi le unghie, è spesso liquidata come un gesto banale, un tic nervoso da correggere con smalti amari o ammonizioni. In realtà, essa costituisce un vero e proprio atto psicologico, simbolico e relazionale, che interroga la soggettività in modo profondo.

    Secondo il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5), l’onicofagia rientra tra i “comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo” (BFRB – Body-Focused Repetitive Behaviors), accanto a tricotillomania (tirarsi i capelli) e dermatillomania (grattarsi la pelle). Colpisce prevalentemente bambini e adolescenti, ma può protrarsi anche in età adulta.

    Tra ansia, perfezionismo e regressione orale

    Le cause dell’onicofagia non sono univoche. Il gesto è spesso legato a tensioni emotivefrustrazionenoiaansia da prestazione, ma anche a forme inconsce di autocontrollo o punizione.

    In ambito psicoanalitico, il gesto viene talvolta letto come regressione a una fase orale dello sviluppo psicosessuale, in cui il soggetto tenta di lenire una tensione interna attraverso l’autostimolazione orale. Un modo primitivo, ma potente, per autorassicurarsi.

    Altri approcci, come quello cognitivo-comportamentale, vedono nell’onicofagia un comportamento appreso e rinforzato, che agisce come valvola di sfogo in situazioni stressanti. Spesso diventa un automatismo legato alla distrazione o all’ipercontrollo.

    Un gesto silenzioso ma eloquente

    Chi si mangia le unghie difficilmente se ne accorge nel momento in cui lo fa. Si tratta di un comportamento semi-inconscio, che si manifesta durante attività passive (come guardare la TV o studiare), ma anche in momenti di tensione sociale.

    Da un punto di vista simbolico, l’onicofagia rappresenta una lotta interna tra impulso e contenimento. Mordere se stessi è un modo per scaricare aggressività, colpa o ansia che non trovano altra forma di espressione.

    Un disturbo che cresce con l’età

    Uno studio pubblicato su Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry (Williams et al., 2006) ha mostrato che circa il 45% degli adolescenti manifesta forme di onicofagia più o meno marcate, con una riduzione significativa dopo i 30 anni. Tuttavia, nei casi più gravi, essa può evolvere in una condotta compulsiva con danni fisici (infezioni, deformazioni ungueali) e psicologici (vergogna, bassa autostima).

    Trattamento e approcci terapeutici

    L’intervento psicologico varia a seconda della gravità e della funzione che il gesto assolve. Nei casi più lievi, è utile l’automonitoraggio, la consapevolezza del gesto e l’introduzione di comportamenti alternativi.

    Nei casi più profondi o cronicizzati, il percorso psicoterapeutico – in particolare a orientamento cognitivo-comportamentale o psicodinamico – può aiutare a decifrare il significato sottostante e a rielaborare i vissuti emotivicorrelati.

    Nel lavoro clinico con bambini e adolescenti, è importante coinvolgere la famiglia, lavorare su strategie di regolazione emotiva, e comprendere eventuali traumi, pressioni o disagi scolastici e relazionali.

    Conclusione

    L’onicofagia è molto più di un vizio da estirpare: è una spia psicosomatica, un linguaggio del corpo che chiede ascolto. Interrogare questo gesto, piuttosto che punirlo, può aprire la strada a una maggiore consapevolezza di sé e al recupero di un dialogo interiore più sano.

  • Ripensare la scuola per salvare la salute mentale degli studenti

    Ripensare la scuola per salvare la salute mentale degli studenti

    Il maggio nero degli studenti

    A partire dalla seconda metà di aprile, fino alla fine di maggio, le aule scolastiche italiane si trasformano in veri e propri centri di pressione psicologica. È la fase delle “interrogazioni di recupero”, dei compiti a raffica, delle verifiche finali accumulate in nome della valutazione. Uno sforzo intensivo che rischia di vanificare mesi di apprendimento e di compromettere il benessere psico-fisico degli adolescenti.

    Secondo recenti studi dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre il 38% degli studenti tra i 13 e i 18 anni presenta sintomi riconducibili ad ansia scolastica, con picchi proprio nel periodo di maggio. Non sono rari gli episodi di attacchi di panico, insonnia, somatizzazioni e crolli emotivi.

    Il paradosso valutativo

    Questa corsa finale alla prestazione si fonda su un equivoco educativo: valutare equivale a “verificare” in modo intensivo, senza tener conto del carico cognitivo ed emotivo. Il paradosso è evidente: mentre il sistema scolastico predica il benessere psicologico e l’educazione socio-emotiva, nella prassi lo nega sistematicamente, sottoponendo gli studenti a vere maratone ansiogene.

    Un calendario scolastico da ripensare

    L’idea di concentrare tutte le valutazioni nelle ultime settimane dell’anno scolastico non è solo inefficace dal punto di vista didattico, ma anche dannosa. Una scuola più equa e inclusiva dovrebbe rivedere l’architettura temporale della valutazione, diluendo i momenti critici e valorizzando la valutazione formativa e continua, come suggerito da pedagogisti come Philippe Perrenoud e Maurizio Gentile.

    Intelligenze analogiche in un mondo digitale

    In un contesto dominato dalla rapidità e dalla prestazione digitale, è urgente recuperare le cosiddette intelligenze analogiche (Rivoltella, 2016): capacità di riflessione, pensiero lento, empatia, attenzione condivisa. Queste competenze vengono sistematicamente mortificate da una scuola che, a maggio, si fa giudice implacabile, dimenticando la propria missione formativa.

    Quali strategie per la scuola del futuro?

    Una scuola più sana e sostenibile per la mente deve:

    • Dilazionare le valutazioni nel corso dell’anno scolastico con micro-feedback costanti.
    • Ridurre il peso delle interrogazioni frontali e promuovere forme di valutazione autentica (portfolio, presentazioni, auto-valutazione).
    • Formare i docenti a riconoscere i segnali di disagio emotivo e a gestire le dinamiche di ansia prestazionale.
    • Introdurre sportelli di ascolto psicologico in ogni scuola, attivi soprattutto nel periodo conclusivo dell’anno.
    • Ripensare l’orario scolastico, prevedendo momenti di decompressione e attività metacognitive.

    Come affermava John Dewey, “l’educazione non è preparazione alla vita, è la vita stessa”. Non possiamo permetterci che il sistema scolastico diventi un fattore di rischio per la salute mentale dei ragazzi. È tempo di scegliere tra la scuola della prestazione e quella della formazione. Il cambiamento non è più procrastinabile: in gioco c’è il futuro delle nostre intelligenze più fragili, ma anche più umane.

  • Bagni di realtà: la dura verità dietro il talento calcistico

    Bagni di realtà: la dura verità dietro il talento calcistico

    lI sogno: diventare calciatori

    In un’epoca dominata dal culto della performance e dell’immagine, il calcio rappresenta per migliaia di bambini e adolescenti l’archetipo moderno del riscatto e della gloria. Sacrifici, allenamenti estenuanti, la rinuncia a uscite con gli amici: tutto in nome di un pallone che rotola e di un futuro, si spera, radioso. Spinti dai modelli mediatici, da un sistema scolastico che spesso abdica al ruolo educativo in favore della celebrità, e da famiglie che investono emotivamente nel successo sportivo (e non solo) dei figli, molti ragazzi crescono accarezzando l’illusione di poter “sfondare”. Ma cosa succede quando il talento, pur presente, non basta? E soprattutto, quali sono gli errori che il sistema (famiglie, società sportive, allenatori) commette, minando spesso il benessere psicologico e la crescita di questi giovani atleti?

    La realtà dei numeri

    I numeri parlano chiaro: secondo una ricerca del CIES Football Observatory, solo lo 0,012% dei giovani tesserati nei settori giovanili italiani arriva a firmare un contratto da professionista in Serie A. È un’industria spietata, dove le logiche di mercato, gli interessi economici e le relazioni personali sovrastano spesso la meritocrazia e il talento. Il principio dell’“essere bravi” viene sostituito dal più disincantato “essere scelti”. Il talento è un dono, ma non è di certo una garanzia, se non è accompagnato dall’aspetto psichico e relazionale, dall’ambiente giusto, e perché no, anche da una buona dose di fortuna e di convergenze sincroniche. Essere al posto giusto nel momento giusto.

    Identita monolitica: essere solo “il calciatore

    Uno degli errori più gravi è ridurre l’identità di questi ragazzi al solo ruolo di calciatore. Ogni aspetto della loro vita ruota attorno al campo: la scuola passa in secondo piano, gli interessi extrasportivi vengono spesso trascurati, le relazioni sociali si concentrano prevalentemente sull’ambiente calcistico. Cosa succede quando il sogno si infrange, per un infortunio, per un cambio di categoria non superato, o semplicemente perché il talento, pur essendoci, non è sufficiente per il professionismo? Questi ragazzi si ritrovano spesso smarriti, senza un’identità solida al di fuori del rettangolo di gioco, con un senso di fallimento devastante. Molti giovani calciatori, pur dotati tecnicamente, vengono esclusi per motivi extracalcistici: un agente assente, una società non abbastanza visibile, una famiglia non abbastanza “strategica”. I criteri selettivi sono spesso opachi. Un recente servizio televisivo ha svelato quello che da tempo si sapeva.

    L’illusione della meritocrazia

    Nel mondo del calcio giovanile, anche ciò che non è normale diventa tollerabile, sepolto da una coltre di indifferenza. La selezione precoce, l’esclusione sociale, l’umiliazione pubblica durante le partite o gli allenamenti vengono percepite come “parte del gioco”. Ma in realtà, sono manifestazioni di una cultura sportiva malata, che trasmette messaggi tossici ai ragazzi: o sei il migliore, o non sei nessuno.

    Psicologia della disillusione

    La frustrazione che ne deriva può essere devastante. Gli adolescenti, in una fase esistenziale ancora fragile, vivono l’esclusione come un fallimento personale, come se il sogno infranto invalidasse la loro identità. La perdita di autostima, la depressione reattiva, l’ansia da prestazione sono problematiche sempre più presenti nei centri di psicologia sportiva.

    Cosa dire a un ragazzo che sogna?

    Sognare è lecito. Ma è doveroso educare al sogno e preparare al possibile fallimento. L’adulto – che sia genitore, insegnante o allenatore – ha il compito etico di accompagnare l’adolescente in un processo di crescita integrale, perché come scriveva Pier Paolo Pasolini, “un ragazzo ha diritto ai suoi sogni, ma anche al diritto di non vergognarsi se non si realizzano”.

    Perché lo sport, se ben guidato, può insegnare la resilienza, la collaborazione, l’autodisciplina. Ma non deve mai diventare una trappola identitaria. Il talento non è una colpa, ma nemmeno una via obbligata. Si può essere felici, anche se non si diventa campioni.

  • Generazione a testa china: che fatica guardare negli occhi!

    Generazione a testa china: che fatica guardare negli occhi!

    Sguardi bassi, anime disconnesse

    In un’epoca in cui l’iperconnessione digitale è diventata cifra dominante dell’esistenza adolescenziale, gli sguardi bassi e disorientati si fanno sintomo silente ma eloquente di un malessere diffuso. Non si tratta solo di postura o timidezza: è la rappresentazione plastica di una generazione a testa china, inchiodata a uno schermo che ipnotizza, cattura, consuma.

    Lo sguardo: specchio dell’incontro

    Guardarsi negli occhi è gesto ancestrale di contatto, riconoscimento, reciprocità. È attraverso lo sguardo che il bambino costruisce la sicurezza del legame, il senso del sé e dell’altro. Ma cosa accade quando lo sguardo si spegne, si distoglie, si rifugia nello schermo? Il filosofo Byung-Chul Han scrive: “Il digitale indebolisce l’incontro autentico: si parla, ma non ci si guarda”. Così l’altro diventa solo contenuto, mai volto.

    Cingersi i fianchi: un gesto che protegge

    Quel gesto istintivo, quasi impercettibile, di chi si abbraccia da sé o si stringe i fianchi, tradisce un bisogno di contenimento, una risposta corporea alla vulnerabilità. In assenza di sguardi contenitivi – quelli che rassicurano, accolgono, confermano – il corpo si fa barriera. Non più ponte, ma guscio.

    Deboli o schiavi?

    Il dubbio rimane: sono giovani fragili, incapaci di reggere la complessità del reale, o sono schiavi inconsapevoli di una nuova forma di prigionia soft, dove lo smartphone diventa protesi dell’identità? Studi recenti (Twenge et al., 2023) evidenziano come l’uso eccessivo di dispositivi digitali sia correlato a un aumento significativo di ansia sociale, depressione e ritiro relazionale. Non è debolezza: è disconnessione esistenziale.

    Una generazione senza occhi

    Forse non è vero che non vogliono guardare. Forse non sono mai stati davvero visti. La testa china è il simbolo di chi non regge lo sguardo dell’altro perché non ha imparato a sostenere il proprio. E in questo paradosso, tra ipervisibilità social e invisibilità relazionale, si consuma il dramma di una generazione che cerca un volto ma trova uno schermo.

  • Il pedagogista nella scuola: un professionista  troppo spesso invisibile

    Il pedagogista nella scuola: un professionista troppo spesso invisibile

    Un alleato strategico nella comunità educante

    Nella scuola italiana, si parla spesso di una figura di supporto come lo psicologo scolastico, necessaria a parer mio, ma troppo raramente si pensa a valorizzare il ruolo del pedagogista. Eppure questa figura professionale, definita dalla Legge 205/2017 in attesa dell’istituzione di un vero e proprio Albo professionale, è essenziale per la progettazione educativa, l’orientamento formativo e la prevenzione del disagio evolutivo e relazionale.

    Il pedagogista è colui che pensa la scuola prima ancora di abitarla, che osserva, media, forma e orienta. Non è un tecnico dell’istruzione, ma un architetto del clima educativo e relazionale, capace di leggere i bisogni latenti e trasformarli in prassi trasformative.

    Una funzione di sistema, non di sportello

    Non è un operatore da “emergenza”, ma un consulente strutturale. Interviene nella formazione permanente del corpo docente, nell’osservazione dei gruppi classe, nella definizione dei PEI e PDP, e nella gestione delle dinamiche conflittuali. Il suo sguardo è sistemico, non individualizzante.

    Secondo un’indagine ANPE (2023), oltre il 70% degli insegnanti si sente privo di strumenti per gestire il disagio emotivo e comportamentale. Eppure, soltanto in pochissime scuole italiane è presente stabilmente un pedagogista, nonostante la normativa lo consenta e la sua figura sia prevista in molte linee guida ministeriali, come quelle sull’inclusione e sul contrasto alla dispersione scolastica.

    Un presidio contro la dispersione e il burnout docente

    Il pedagogista non si sostituisce all’insegnante né allo psicologo. Collabora. Accompagna. Costruisce reti.

    La sua presenza è decisiva nella gestione della complessità scolastica contemporanea: multicultura, BES, famiglie fragili, cyberbullismo, disturbi specifici dell’apprendimento, autismo, ADHD.

    Inoltre, rappresenta un punto di riferimento anche per i docenti, spesso logorati da carichi emotivi, pressioni burocratiche e conflitti con le famiglie. Avere accanto un pedagogista significa avere uno spazio di confronto professionale che consente di rielaborare le fatiche e riattivare risorse interne.

    Un investimento culturale prima che economico

    Inserire pedagogisti a tempo pieno nelle scuole non è solo una questione di fondi. È una scelta politica e culturale. Significa scommettere su una scuola che non si limita alla trasmissione del sapere, ma che forma cittadini capaci di pensiero critico, affettività e responsabilità.

    Come ricordava Paulo Freire, “l’educazione non cambia il mondo, ma cambia le persone che cambieranno il mondo”. E il pedagogista è il professionista che guida questo processo trasformativo.

  • Cannabis e adolescenti: i rischi invisibili tra cervello e fertilità

    Cannabis e adolescenti: i rischi invisibili tra cervello e fertilità

    Cannabis e cervello adolescente: un’interferenza neuroevolutiva

    L’adolescenza rappresenta una fase neurobiologicamente vulnerabile, in cui il cervello è ancora soggetto a riorganizzazione sinaptica e mielinizzazione corticale. L’uso di cannabis in questo periodo può interferire profondamente con tali processi. Il tetraidrocannabinolo (THC), principio attivo della cannabis, agisce principalmente sui recettori CB1 del sistema endocannabinoide, sistema che regola molteplici funzioni cognitive ed emotive tra cui memoria, attenzione, motivazione e controllo degli impulsi.

    Studi di neuroimaging, come quelli pubblicati sul Journal of Neuroscience (2021), hanno evidenziato alterazioni nella corteccia prefrontale e nell’amigdala nei consumatori adolescenti abituali, con una correlazione tra uso cronico e deficit cognitivi a lungo termine. Secondo uno studio longitudinale condotto dal National Institute on Drug Abuse (NIDA, 2022), gli adolescenti che fanno uso regolare di cannabis mostrano un QI inferiore di 5-8 punti all’età adulta rispetto ai coetanei.

    Effetti psichici: ansia, psicosi e disturbi dell’umore

    L’esposizione precoce alla cannabis è associata a un aumento del rischio di sviluppare psicosi, depressione e disturbi d’ansia. Secondo una metanalisi del Lancet Psychiatry (2020), gli adolescenti che consumano cannabis hanno una probabilità doppia di manifestare sintomi psicotici rispetto a chi non ne fa uso, specialmente in presenza di vulnerabilità genetica (es. mutazioni del gene COMT).

    La cannabis può fungere da fattore scatenante per disturbi mentali latenti, con un’escalation che spesso passa inosservata fino all’esordio di crisi acute.

    Fertilità e sistema endocrino: un danno silenzioso

    Recenti ricerche hanno acceso i riflettori su un effetto meno visibile ma altrettanto allarmante: l’impatto della cannabis sulla fertilità. Uno studio del 2023 pubblicato su Human Reproduction ha mostrato una riduzione significativa della concentrazione e motilità degli spermatozoi nei giovani consumatori cronici. In parallelo, evidenze cliniche dimostrano alterazioni ormonali, con una diminuzione della produzione di testosterone e un’interferenza con l’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi.

    Nelle giovani donne, il THC può alterare il ciclo mestruale e compromettere l’ovulazione, predisponendo a disfunzioni riproduttive a lungo termine. Uno studio condotto dall’Università di Montreal (2024) ha riscontrato una correlazione tra consumo adolescenziale e incidenza di infertilità funzionale nei soggetti femminili adulti.

    L’illusione della “droga leggera”

    La percezione diffusa della cannabis come “droga leggera” contribuisce a un abbassamento della soglia di rischio, in un contesto sociale già indebolito da modelli digitali permissivi. Tuttavia, l’aumento della concentrazione di THC nelle varietà attuali (fino al 25%, rispetto al 4-5% degli anni ’90) ha amplificato l’impatto clinico, con un potenziale di dipendenza non trascurabile. Secondo l’OMS, circa 1 adolescente su 6 che fa uso regolare di cannabis sviluppa una forma di dipendenza.

    Conclusione: educare, non solo vietare

    La prevenzione non può limitarsi al divieto. È necessario un lavoro di alfabetizzazione affettiva e neuroscientifica, in grado di far comprendere ai giovani i meccanismi sottesi alla vulnerabilità cerebrale e ormonale in adolescenza. Una cultura della consapevolezza può affiancare efficacemente l’intervento clinico, restituendo senso di agency e responsabilità.