Categoria: libri consigliati

  • “Stefano Benni, la scomparsa e l’eredità di Margherita Dolcevita”.

    “Stefano Benni, la scomparsa e l’eredità di Margherita Dolcevita”.

    Ci sono romanzi che, con leggerezza apparente, affondano le mani nel cuore della contemporaneità, smascherandone le fragilità e i cortocircuiti. Margherita Dolcevita (Feltrinelli, 2005) di Stefano Benni è uno di questi: un libro ironico e struggente, che si legge come una favola nera capace di parlare tanto agli adulti quanto agli adolescenti.

    La protagonista è Margherita, detta “Dolcevita”: quattordici anni, cuore generoso, spirito ribelle e uno sguardo acuto che decifra i silenzi degli adulti meglio delle loro parole. Vive in una famiglia eccentrica, tratteggiata con la consueta vena caricaturale di Benni: il padre disilluso, la madre ossessiva, il fratello tecno-dipendente, il nonno visionario. Un microcosmo che riflette, in forma grottesca e poetica, la società italiana sospesa tra consumismo, perdita di valori e omologazione.

    Il romanzo si anima con l’arrivo dei “Del Bene”, misteriosi vicini che incarnano un capitalismo scintillante e predatorio. Case perfette, sorrisi di plastica, promesse di benessere assoluto: dietro la facciata, la voragine dell’alienazione. Margherita, con il suo occhio critico e la sua sensibilità ferita, diventa coscienza e resistenza: la sua adolescenza non è un’età spensierata, ma il luogo drammatico in cui si combatte la lotta per l’anima della società.

    Lo stile di Benni alterna lirismo e comicità, favola e satira sociale. La lingua, intrisa di invenzioni, calembour e iperboli, costruisce una narrazione che sa far ridere e, nello stesso tempo, inquietare. Il lettore avverte, sotto la risata, la malinconia di un mondo che rischia di spegnersi nella sua stessa iperconnessione e nei suoi falsi bisogni.

    Margherita Dolcevita è una metafora attualissima dell’adolescenza e del nostro tempo: ci ricorda che crescere significa difendere la propria capacità di sognare, senza cedere alle sirene del conformismo. È un libro che genitori, educatori e terapeuti dovrebbero leggere per comprendere lo sguardo ferito e insieme lucido delle nuove generazioni.

    Con la scomparsa di Stefano Benni, avvenuta oggi, 9 settembre 2025, a Bologna, si chiude un capitolo luminoso della letteratura italiana contemporanea. Aveva 78 anni e da tempo lottava contro una lunga e invalidante malattia.

    Addio, ad uno scrittore che non salì mai in cattedra, che amava sorprenderci con neologismi, iperboli, paradossi e invenzioni linguistiche — un autore che ha saputo rendere la satira culturale un atto d’amore per il mondo e per la parola. Che il suo lascito continui, in ogni frase letta ad alta voce, a farci ridere, a indurci a guardare il mondo con occhi più acuti, più solidali, più vivi.

    “Noi siamo quello che sembriamo ma non sempre sembriamo quello che pensiamo di sembrare.”

    Stefano Benni 12 Agosto 1947 – 9 Settembre 2025

  • Diario di un curato di campagna.

    Diario di un curato di campagna.

    La grazia che abita la fragilità

    In un mondo che idolatra la forza e il successo, Georges Bernanos ci consegna un romanzo che è un inno alla debolezza come luogo in cui la Grazia si rivela. Diario di un curato di campagna (1936) non è soltanto la storia di un giovane prete malato e incompreso, ma un pellegrinaggio interiore che tocca le corde più profonde della psiche e dello spirito.

    Il protagonista, fragile nel corpo e incerto nel ministero, sembra soccombere di fronte alle ostilità della sua comunità e all’opacità del proprio cuore. Eppure, proprio in questo crepuscolo interiore, si apre una luce che non abbaglia, ma consola: la Grazia di Dio che si insinua nelle crepe dell’umano. La sua ultima confessione, “Tutto è grazia”, non è resa, ma suprema vittoria.

    Perché leggerlo oggi

    • È un testo di psicologia esistenziale: il diario diventa specchio delle nostre inquietudini, dei sensi di colpa e della ricerca di autenticità.
    • È una lezione pedagogica: mostra come la vera educazione e cura delle anime non sia predicazione trionfale, ma accompagnamento discreto, spesso silenzioso.
    • È un romanzo terapeutico: la sofferenza del curato parla a chi vive depressioni, solitudini, e li trasforma in luoghi di significato.

    Bernanos non ci offre un eroe, ma un uomo ferito che diventa testimone di una verità universale: la fragilità non è ostacolo, ma via verso l’Assoluto.

  • 📖 Sbilico: Quando la mente deraglia

    📖 Sbilico: Quando la mente deraglia

    Il romanzo Sbilico di Luca Pierantozzi si presenta al lettore come un esercizio di equilibrio sull’orlo del precipizio psichico, un’opera disturbante e lirica che penetra con chirurgica delicatezza nell’universo adolescenziale attraversato dal disagio mentale. Non siamo di fronte a una narrazione tradizionale: Sbilico è un manoscritto emotivo sfilacciato, una cartella clinica redatta in versi, una confessione interiore che sfugge alla diagnosi e si consegna nuda alla pagina.

    Il protagonista, Edoardo, è un ragazzo fragile, ipersensibile, a tratti visionario. Intelligente, poetico, eppure irriducibilmente alienato, Edoardo abita la soglia tra la realtà e la sua deformazione: ogni elemento del suo mondo si frantuma in percezioni alterate, in pensieri ossessivi, in paure che prendono corpo. Il lettore viene trascinato dentro una mente sbilenca, dissestata, che non riesce più a orientarsi nei territori del quotidiano. E qui la scrittura di Pierantozzi è mirabile: l’andamento sincopato, la punteggiatura che si disgrega, il ritmo spezzato della narrazione mimano esattamente il funzionamento di un pensiero disturbato, rendendolo non solo comprensibile ma, in certi momenti, dolorosamente condivisibile. Pierantozzi – insegnante e poeta – dimostra una straordinaria competenza pedagogica e psichiatricaSbilico è letteratura, ma è anche osservazione clinica, denuncia educativa, grido pedagogico. Edoardo è un adolescente la cui identità viene erosa da un contesto familiare ambiguo, da una scuola incapace di contenere e riconoscere le sue differenze, da un mondo adulto che oscilla tra la paura e l’indifferenza.

    👁️‍🗨️ Una narrativa del sintomo: tra psicopatologia e poesia

    Il romanzo affronta, senza mai nominarle in modo diretto, tematiche afferenti alla schizofrenia precoce, ai disturbi dell’umore, alle fasi dissociative dell’adolescenza. Ma lo fa con uno stile che ricorda i grandi maestri della letteratura del disagio: Sbilico sembra voler dialogare silenziosamente con Memorie di un malato di nervi di Schreber, con le visioni di Alda Merini, con il realismo tragico di Silvia Plath. La follia non è esibita, ma suggerita, come una fenditura ontologica nell’essere stesso del protagonista.

    Il nome “Sbilico” non è casuale: indica una postura esistenziale inclinata, un’oscillazione continua tra polarità psichiche, tra desiderio e paura, lucidità e delirio, desiderio d’amore e orrore del legame. L’autore non concede al lettore facili certezze o redenzioni: non c’è un lieto fine, né una risoluzione terapeutica, ma solo l’accettazione tragica della complessità mentale umana.

    🧠 Una lettura terapeutica per adulti disattenti

    Per genitori e insegnanti, Sbilico rappresenta uno strumento di sensibilizzazione potente: ci ricorda quanto l’adolescente, oggi più che mai, sia una creatura liminare, affacciata su abissi che spesso gli adulti si ostinano a ignorare. La scuola, nel romanzo, è specchio della cecità istituzionale: più che un luogo di crescita, appare come un meccanismo di esclusione, incapace di accogliere chi non rientra negli standard cognitivi ed emotivi.

    Lo sguardo dell’autore è però sempre carico di pietas educativa: Edoardo non è un “caso”, ma un’anima. È una voce che chiede ascolto, contenimento, interpretazione. Ed è qui che il romanzo si offre come materiale vivo per chi opera nella relazione d’aiuto: psicologi scolastici, educatori, clinici dell’età evolutiva, counselor, potranno riconoscere nelle pagine di Sbilico una drammatizzazione letteraria dei vissuti che ogni giorno si incontrano nei corridoi dei licei, nelle stanze della psicoterapia, negli occhi dei ragazzi che non riescono a stare “in asse”.

  • Eugenio Borgna – L’ ora che non ha più sorelle

    Eugenio Borgna – L’ ora che non ha più sorelle

    Eugenio Borgna, in L’ora che non ha più sorelle, si muove con il passo assorto e reverente del pellegrino dell’interiorità umana, nel territorio più silenzioso e struggente della psichiatria: il suicidio, declinato nella sua dimensione femminile. Non una trattazione tecnico-scientifica, ma una sinfonia di voci spezzate, una meditazione etica ed esistenziale che, attraversando la letteratura, la mistica e la clinica, si fa ascolto radicale del dolore invisibile.

    La lingua della fragilità

    Borgna non scrive con gli strumenti della psichiatria oggettivante, ma con l’inchiostro dell’empatia fenomenologica. Egli rifiuta l’arroganza del sapere normativo e invita il lettore a contemplare le lacerazioni silenti che abitano l’anima femminile: la solitudine, il senso di abbandono, la mancanza di risonanza emotiva nel mondo. Il suicidio, in questa prospettiva, non è atto patologico, ma grido afasico, ultimo gesto di una comunicazione mancata, l’eco estremo di un mondo interiore che non ha trovato ascolto.

    Una clinica poetica

    Nei testi di Borgna, il confine tra psichiatria e poesia si dissolve: le sue riflessioni sono attraversate da voci femminili – Sylvia Plath, Virginia Woolf, Antonia Pozzi – che diventano paradigmi dell’”insofferenza all’insensibilità del reale”, come scrisse Maria Zambrano. La donna suicida, per Borgna, è spesso colei che ha vissuto con un’intensità talmente bruciante da non reggere l’opacità del mondo. Non follia, dunque, ma ipertrofia del sentire, spiritualità senza dimora, estetica dell’assenza.

    La medicina dell’ascolto

    Il messaggio più potente del volume è il monito etico a una medicina che sappia nuovamente farsi ascolto. Borgna invoca una psichiatria non ridotta a classificazione, ma capace di accogliere l’irriducibile singolarità della sofferenza. In un’epoca anestetizzata e iperproduttiva, il suicidio femminile è uno specchio impietoso: mostra le crepe di una società che ha smarrito il senso del consolare, dell’accompagnare, del rimanere.


  • L’autismo spiegato ai non autistici: il libro che traduce l’intraducibile

    L’autismo spiegato ai non autistici: il libro che traduce l’intraducibile

    “Comprendere l’autismo non è un atto di tolleranza, ma di giustizia cognitiva.”

    Questa frase potrebbe sintetizzare lo spirito profondo di un’opera che, già dal titolo, ribalta la prospettiva classica: non sono gli autistici a dover adattarsi, ma i non autistici a dover imparare un nuovo linguaggio.

    Il testo nasce da un’esperienza straordinaria: Brigitte Harrisson è una donna autistica ad alto funzionamento, formatrice e consulente internazionale, mentre Lise St-Charles è una ricercatrice e terapeuta, co-fondatrice dell’Institut SACCADE. Insieme danno vita a un libro che è al tempo stesso manuale, confessione e strumento di advocacy.

    Il punto di forza del libro è l’originale concetto di “funzionamento autistico”, che viene descritto come un processo cognitivo e sensoriale autonomo, non come un deficit. Gli autori spiegano il motivo per cui le persone autistiche reagiscono in modo diverso allo stress, alla comunicazione sociale, all’ambiguità linguistica e alla complessità emozionale.

    Ogni capitolo decostruisce pregiudizi diffusi:

    • Gli autistici non sono “privi di empatia”, ma spesso sovraccarichi di empatia.
    • Non si tratta di un “ritardo evolutivo”, ma di una diversità di base neurobiologica.
    • L’“isolamento” non è rifiuto dell’altro, ma protezione da un mondo percepito come troppo invasivo.

    La narrazione è arricchita da modelli operativi e spiegazioni visive (come quella del “triangolo della comunicazione”), utilissimi anche per chi lavora nel mondo scolastico o terapeutico. Il linguaggio è rigoroso, ma accessibile, privo di pietismo, e guidato da un’etica relazionale forte: capire per relazionarsi, non per normalizzare.

    Punti di forza

    • Visione dall’interno, scientificamente fondata ma profondamente umana.
    • Adatto sia a specialisti sia a genitori e insegnanti.
    • Decostruzione di stereotipi con esempi concreti e modelli esplicativi.

    Punti di debolezza

    • Richiede una certa familiarità con le neuroscienze o con il linguaggio psicologico.
    • Meno adatto come primo approccio divulgativo rispetto a testi più narrativi.

  • Schreber: il delirio autobiografico di un giudice in manicomio

    Schreber: il delirio autobiografico di un giudice in manicomio

    Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber rappresenta una delle testimonianze autobiografiche più sconvolgenti e affascinanti della psicopatologia europea. Redatto durante la degenza in manicomio (1903), il testo racconta con acuminata lucidità la graduale immersione dell’autore in un delirio sistematizzato, offrendo al lettore l’accesso diretto alla mente di un uomo colpito da psicosi paranoide.

    Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda, figura eminente della borghesia tedesca di fine Ottocento, descrive la sua esperienza psicotica con una precisione quasi giuridica, rivelando l’inquietante coerenza interna del delirio e la sua potente forza mitopoietica. Angeli, raggi divini, femminilizzazione del corpo, rigenerazione dell’umanità: il suo universo allucinatorio è strutturato secondo una logica che sfida la ragione ma non la comprensione analitica.


    Freud, che non conobbe mai personalmente Schreber, ne fece oggetto di uno dei suoi saggi più celebri, interpretando la vicenda come espressione del ritorno del rimosso e come difesa contro impulsi omosessuali. Lacan, successivamente, riprenderà il caso per elaborare il concetto di forclusione del Nome-del-Padre, rilevando l’assenza di un significante simbolico capace di regolare l’accesso alla Legge.
    Schreber non è solo il paziente: è anche l’osservatore di se stesso, in un vertiginoso sdoppiamento tra soggetto e oggetto dell’osservazione. Questo rende le Memorie non solo un documento clinico, ma un’opera letteraria e filosofica capace di interrogare la natura del Sé, della follia, della percezione e della realtà.

    Perché leggerlo oggi

    Per genitori, educatori, terapeuti e pedagogisti, il libro rappresenta una testimonianza preziosa per comprendere non solo la dimensione clinica della psicosi, ma anche la dignità narrativa del soggetto sofferente. Memorie di un malato di nervi ci costringe a ridefinire il confine tra patologia e creatività, tra follia e logica, tra il “normale” e l’“altro”.

    In un’epoca in cui la salute mentale è spesso semplificata da diagnosi veloci e terapie standardizzate, la voce di Schreber risuona come monito: ogni delirio ha una logica, ogni mente ferita ha bisogno di essere ascoltata, decifrata, rispettata.

  • Il dramma del bambino dotato: il trauma dell’infanzia invisibile

    Il dramma del bambino dotato: il trauma dell’infanzia invisibile

    “Il dramma del bambino dotato” di Alice Miller è un’opera imprescindibile per chi voglia penetrare le profondità invisibili della sofferenza psichica infantile celata dietro il velo dell’obbedienza, della compiacenza e della “dote”. Con uno stile sobrio ma impietoso, Miller svela il paradosso che si annida nell’anima di quei bambini che, più che essere amati per ciò che sono, vengono ammirati per ciò che rappresentano: il prolungamento narcisistico dei bisogni emotivi insoddisfatti dei genitori.

    Il “bambino dotato” non è, in questa prospettiva, un piccolo prodigio. È, piuttosto, un soggetto eccessivamente adattato, e dunque profondamente traumatizzato. Ha imparato precocemente a captare i bisogni altrui, rinunciando ai propri impulsi autentici per diventare specchio del desiderio materno o paterno. Questo adattamento estremo – apparentemente virtuoso – si paga con la perdita del Sé.

    La ferita primaria non risiede in abusi fisici o verbali, ma in quella sottile violenza emotiva che consiste nell’essere visti, non per ciò che si è, ma solo per ciò che si “offre”. Non è un dolore urlato, ma un dolore silenzioso, annidato nella perfezione.

    La continuazione necessaria

    Oggi, a quarant’anni dalla pubblicazione dell’opera, la riflessione di Miller esige una prosecuzione. Il trauma narcisistico descritto nel testo si innesta perfettamente nelle dinamiche educative contemporanee, spesso segnate da genitorialità iperperformanti e da modelli pedagogici orientati all’efficienza, al successo precoce, all’immagine.

    In ambito clinico, osserviamo una nuova generazione di adolescenti “funzionanti”, ma internamente vuoti. Ragazzi e ragazze che eccellono, ma che crollano nell’intimità della stanza terapeutica, incapaci di riconoscere – o persino nominare – i propri desideri profondi. In questi casi, la psicoterapia non si configura come semplice contenimento del disagio, ma come vera e propria archeologia del Sé: un percorso doloroso e liberatorio di dissotterramento del bambino originario sepolto sotto strati di aspettative genitoriali.

    Miller ci insegna che “nessuna introspezione ha senso, se non restituisce la voce al bambino che fummo”. La sua eredità risiede nella necessità, pedagogica e clinica, di riconoscere la ferita narcisistica primaria e restituire valore alla soggettività infantile, alla sua irriducibile unicità.

    Conclusione clinica e pedagogica

    Per genitori, insegnanti e terapeuti, la lettura – o rilettura – del testo di Alice Miller rappresenta un monito etico e uno strumento analitico. È un invito a smascherare i dispositivi di controllo affettivo, i ricatti emotivi inconsci, le proiezioni camuffate da amore. È un appello ad educare senza colonizzare l’interiorità dell’altro.

    “Non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice”, scriveva un altro autore. Ma è compito nostro, come adulti, offrire ai bambini di oggi la possibilità di esserlo davvero, nell’autenticità delle loro emozioni e non nell’artificio delle aspettative.

  • “Il giorno in cui mia figlia impazzì”: quando l’adolescenza si spezza

    “Il giorno in cui mia figlia impazzì”: quando l’adolescenza si spezza

    In Il giorno in cui mia figlia impazzì, Michael Greenberg ci consegna una testimonianza lacerante e vibrante, che unisce l’impeto del memoir alla lucidità del resoconto clinico. Il libro, edito in Italia da Einaudi, narra l’estate del 1996 in cui Sally, la figlia quindicenne dello scrittore newyorkese, viene travolta da un episodio psicotico acuto, aprendo uno squarcio sulla fragilità della mente adolescente e sulla forza del legame genitoriale.

    Il lettore è trascinato in una New York afosa e rarefatta, ma soprattutto nel caos interiore di una giovane mente che cede sotto il peso di un disturbo mentale ancora misterioso. Greenberg non cerca mai il pietismo, ma offre uno sguardo analitico e poetico, capace di rendere visibile l’invisibile: il delirio, l’ansia, la perdita di contatto con la realtà.

    “Il modo in cui la psicosi prende il controllo della mente di Sally è improvviso, assoluto, come un temporale che squarcia il cielo sereno”, scrive. E in questo gesto narrativo ritroviamo il dolore di ogni genitore che assiste, impotente, al disgregarsi dell’identità del proprio figlio.

    Greenberg si fa cronista e padre, scrittore e caregiver, oscillando tra l’incredulità e l’analisi. La sua prosa è asciutta, incisa, eppure colma di compassione. Il testo diventa così un’opera a metà strada tra la letteratura e la riflessione clinica, rendendolo particolarmente prezioso per pedagogisti, psicologi e psichiatri.

    Il volume è un’illustrazione vivida di ciò che la psichiatria dell’età evolutiva definisce early-onset psychosis. Come sottolinea Massimo Ammaniti, “l’adolescente è un funambolo che cerca equilibrio tra regressione infantile e proiezione verso l’età adulta”. Ed è proprio in questa transizione che Sally inciampa, spinta nel vuoto da una malattia che non fa sconti, nemmeno alla giovinezza.

    Dal punto di vista clinico, il libro può essere letto come una testimonianza del ruolo fondamentale della famiglia nel percorso terapeutico. Il DSM-5 colloca la psicosi giovanile in una zona grigia, dove diagnosi e prognosi si muovono tra incertezza e speranza. Greenberg incarna questa ambivalenza, restituendola al lettore in tutta la sua crudezza.

    Perché leggerlo

    Il giorno in cui mia figlia impazzì è molto più che un diario del dolore. È un testo necessario, che dà voce a milioni di genitori e figli coinvolti nel labirinto della sofferenza mentale. Un libro da leggere per comprendere, per non sentirsi soli, per imparare a nominare ciò che spesso resta impronunciabile.

  • Flow: il segreto della felicità attraverso l’esperienza ottimale.

    Flow: il segreto della felicità attraverso l’esperienza ottimale.

    Flow. Psicologia dell’esperienza ottimale” è il libro più famoso ed influente dello psicologo ungherese Mihaly Csikszentmihalyi. Pubblicato nel 1990, il libro indaga lo stato di coscienza in cui siamo totalmente immersi in un’attività. La teoria del flow di Csikszentmihalyi ha avuto un influenza enorme in molteplici settori di attività: dalla psicologia allo sport passando per la crescita personale. Essa è, infatti, citata in centinaia di libri che trattano di psicologia positiva, felicità e sviluppo personale.

    L’autore, uno dei più influenti psicologi del XX secolo, esplora come questo stato possa migliorare la qualità della vita, dalla creatività alla produttività, fino alla realizzazione personale. La narrazione si basa su decenni di ricerche scientifiche e su numerosi casi studio che dimostrano come il flusso mentale sia un ingrediente chiave per il successo e la crescita personale.

    La teoria di Csíkszentmihàlyi non si limita alla dimensione individuale, ma offre spunti applicabili in ambiti come il lavoro, l’educazione e lo sport, fornendo strumenti pratici per trasformare le attività quotidiane in esperienze significative. La struttura del libro è chiara e ben articolata, rendendo accessibili concetti complessi anche a chi non ha una formazione specifica in psicologia.

    Il linguaggio è preciso e rigoroso, ma al tempo stesso coinvolgente, il che rende la lettura scorrevole senza sacrificare l’approfondimento teorico. Un motivo per leggere questo libro è la sua capacità di offrire una guida concreta per chi cerca un metodo scientifico per raggiungere uno stato di benessere autentico. In un’epoca segnata da distrazioni continue e livelli di stress elevati, il concetto di flow rappresenta una strategia efficace per aumentare la concentrazione e migliorare la qualità della vita.

    Per chi lavora nel campo della psicologia o dell’educazione, Flow è un testo imprescindibile che fornisce modelli applicabili al miglioramento delle prestazioni e alla gestione delle emozioni.

  • Un viaggio psicoanalitico attraverso le generazioni 

    Un viaggio psicoanalitico attraverso le generazioni 

    Un viaggio psicoanalitico attraverso le intricate mappe dell’inconscio familiare. Con una prosa che oscilla tra la rigorosità scientifica e la delicatezza poetica, l’autrice ci conduce attraverso le storie di pazienti che incarnano il peso di traumi transgenerazionali.

    Nel suo saggio L’eredità emotiva, Galit Atlas prende per mano il lettore e lo conduce in un viaggio rivelatorio nel cuore del trauma transgenerazionale, mostrando come le esperienze non elaborate dei nostri antenati continuino a plasmare le nostre emozioni, le nostre relazioni, i nostri modi di essere. Attraverso una narrazione che intreccia psicoanalisi, neuroscienze e storie di vita reale, l’autrice svela la presenza di fantasmi emotivi, tracce silenziose di sofferenze mai espresse che si trasmettono di generazione in generazione, radicandosi nell’inconscio familiare.

    Attraverso il concetto dei fantasmi emotivi, l’autrice svela come le memorie traumatiche si annidino nelle pieghe dell’inconscio familiare, generando ansie, schemi ripetitivi e blocchi esistenziali.

    La psicoanalista e docente della New York University costruisce una narrazione intensa che intreccia casi clinici, riflessioni personali e riferimenti alla psicoanalisi contemporanea, delineando un quadro suggestivo del peso invisibile che ognuno di noi porta con sé.

    L’approccio terapeutico proposto, radicato nelle teorie di Freud, Ferenczi e Winnicott e nelle più recenti scoperte delle neuroscienze, offre strumenti per riconoscere e liberarsi dalle catene emotive del passato, aprendo la strada a una maggiore consapevolezza di sé. Il libro è strutturato in una serie di casi clinici, ognuno dei quali funge da lente d’ingrandimento per esplorare un aspetto specifico dell’eredità emotiva. Il linguaggio evocativo e la capacità di Atlas di restituire la complessità delle emozioni rendono il libro non solo un testo di riferimento per specialisti, ma anche una lettura illuminante per chiunque desideri esplorare il legame tra psicologia e memoria familiare.

    Leggere L’eredità emotiva significa acquisire una consapevolezza nuova sulla propria storia, comprendere come ansie, paure e schemi relazionali non siano soltanto il prodotto delle nostre esperienze dirette, ma il riflesso di un passato che ci abita. L’approccio di Atlas, fondato su una solida base teorica e arricchito da casi clinici straordinariamente toccanti, permette di riconoscere e affrontare il peso emotivo delle generazioni precedenti, trasformandolo in una risorsa anziché in un limite.

    Questo libro è indispensabile per chiunque voglia esplorare il proprio mondo interiore con uno sguardo più ampio, per chi si interroga sulle dinamiche relazionali che si ripetono inspiegabilmente e per chi sente il bisogno di liberarsi da un’eredità emotiva che non gli appartiene. L’autrice fornisce strumenti preziosi per elaborare il dolore ereditato, spezzando quei legami invisibili che ci ancorano a un passato non vissuto direttamente ma profondamente inciso nella nostra psiche.