Categoria: libri consigliati

  • “L’invenzione di noi due”: la poesia delle fratture amorose

    “L’invenzione di noi due”: la poesia delle fratture amorose

    Matteo Bussola ha il grande dono di “violare” con estrema delicatezza i tratti più profondi delle nostre vite. Con L’invenzione di noi due, ci regala un romanzo capace di danzare tra il realismo sentimentale e la delicatezza delle parole. È la storia di un amore che sembra andare in frantumi per poi ricomporsi nei silenzi, nelle attese e nelle lettere di un uomo che si smarrisce, si scompone e si ricompone nei silenzi, nelle attese e nelle lettere, ma che non vuole perdere la partita più importante della sua vita.

    Niccolò e Sara sono sposati da anni, ma il loro rapporto è ormai un luogo di distanza, di silenzi e praterie di solitudini. Lui, grafico pubblicitario e scrittore mancato, si aggrappa alle parole per riempire i vuoti. Lei, donna sfuggente e chiusa nel suo mondo di calma apparente sembra essersi smarrita in un mondo interiore impenetrabile.

    Per cercare di ricucire il legame, Niccolò inizia a scriverle lettere firmandole con il nome di un altro uomo: un alter ego che possa ridestare la passione e la complicità perdute. Ma giocare con l’illusione dell’amore significa anche confrontarsi con le sue ombre: può una finzione risvegliare un sentimento autentico? O è solo un modo per prolungarne l’agonia?

    La prosa di Bussola è un soffio lieve e tagliente insieme: precisa nel descrivere il dolore, delicata nel restituire la speranza. Le parole scorrono come acquerelli su una tela di malinconia, dipingendo il ritratto di un uomo che lotta contro la deriva della propria storia d’amore.

    La narrazione si fa intima, quasi confessionale, con un’alternanza tra presente e passato che costruisce una tensione emotiva crescente. I dialoghi sono schegge di verità quotidiana, mentre le lettere diventano il luogo in cui la finzione si fa più vera della realtà.

    L’invenzione di noi due è un libro che non offre risposte facili, ma lascia al lettore il compito di trovare la sua verità. È una riflessione profonda sulle illusioni necessarie, sulle parole che uniscono e su quelle che allontanano, su ciò che resta di un amore quando il suo fuoco si fa brace. Bussola firma un romanzo capace di commuovere, di ferire e di curare, con la stessa intensità di un abbraccio che arriva quando meno lo si aspetta.

  • Un padre, un figlio e l’anoressia…

    Un padre, un figlio e l’anoressia…

    Anche stavolta Matteo Bussola si è superato. Nell’ultimo lavoro La neve in fondo al mare, si percepisce la capacità di far vibrare l’anima del lettore attraverso trame che si collocano tra la narrativa contemporanea più raffinata e la riflessione esistenziale più profonda in un movimento sincrono tra le pieghe delle relazioni umane, della memoria e della perdita.

    Il racconto, rimandando al paradosso del processo adolescenziale consente di identificarsi, alternativamente, con adolescenti alle prese con la costruzione della propria identità e con i loro genitori, che cercano faticosamente una nuova grammatica comunicativa capace di arrivare al cuore di una pragmatica comportamentale che spesso lascia spiazzati.


    Ogni pagina è una finestra aperta sull’anima dei protagonisti, sulle loro paure e sui loro sogni che regalano al lettore una profonda immedesimazione. Così parla d’amore, di distanze affettive, di ciò che si perde e di ciò che resta nel fluire del tempo. C’è una forte attenzione ai dettagli, ai gesti, a quegli istanti che, seppur fugaci, racchiudono l’essenza della vita di un genitore.

    Son tematiche esistenziali complesse che Bussola affronta senza mai cadere nella retorica ma con una capacità di accarezzare le emozioni del lettore con la grazia e la delicatezza di fiocchi di neve che si poggiano al suolo. confermandosi un maestro nell’arte di raccontare la vita nelle sue sfumature più intime e universali.

    È un libro che consiglio perché dietro ogni riga c’è la capacità di lasciare un’impronta convinta che apre alla speranza perché l’amore porta sempre con sé una rinascita.

  • Un romanzo tra mistero, neurodiversità e crescita personale

    Un romanzo tra mistero, neurodiversità e crescita personale

    Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (The Curious Incident of the Dog in the Night-Time) è un’opera singolare e innovativa da Mark Haddon. Il romanzo, vincitore di numerosi premi, si distingue per la sua narrazione atipica e per la straordinaria prospettiva del protagonista, che offre al lettore un accesso privilegiato a una mente che opera secondo logiche peculiari e affascinanti.

    Christopher Boone è un quindicenne dalla spiccata intelligenza logico-matematica, ma con un’evidente difficoltà nel comprendere le dinamiche sociali ed emotive degli altri.Sebbene il testo non menzioni esplicitamente alcuna diagnosi, le caratteristiche di Christopher rimandano a quelle della sindrome di Asperger, una forma dello spettro autistico.

    Il suo rapporto con il mondo è problematico: odia essere toccato, detesta il giallo e marrone, si arrabbia se viene scombinato il suo ordine. Non riesce neppure a interpretare l’espressione del viso delle persone. Haddon riesce a tratteggiare con rara sensibilità la visione del mondo di chi interpreta la realtà secondo schemi assoluti, privi di sfumature emotive. Vive con il padre a Swindon, in Inghilterra, e un giorno si imbatte in un macabro mistero: Wellington, il cane della vicina, è stato ucciso con un forcone.

    Ispirato dal suo eroe letterario, Sherlock Holmes, Christopher decide di indagare, annotando ogni dettaglio in un quaderno e applicando la sua rigorosa razionalità per ricostruire l’accaduto. Tuttavia, ciò che inizialmente sembra un semplice enigma poliziesco si trasforma presto in un viaggio di crescita personale, portandolo a svelare segreti inconfessabili che cambieranno per sempre la sua percezione della famiglia e del mondo circostante.

    Il romanzo è raccontato in prima persona, consentendo al lettore di entrare nella mente di Christopher e di osservare il mondo attraverso il suo peculiare modo di ragionare. La narrazione è caratterizzata da frasi brevi, descrizioni minuziose e una logica inflessibile, riflesso della modalità con cui il protagonista elabora la realtà.

    Haddon arricchisce il testo con grafici, schemi e formule matematiche, strumenti attraverso i quali Christopher cerca di interpretare l’ambiente circostante. Questo espediente non è un semplice orpello stilistico, ma un vero e proprio veicolo di immedesimazione, che permette al lettore di comprendere, almeno in parte, il funzionamento di una mente diversa da quella neurotipica.

  • “Gli sdraiati”: critica alla gioventù o incomprensione generazionale?

    “Gli sdraiati”: critica alla gioventù o incomprensione generazionale?

    Michele Serra, con Gli sdraiati, compone un monologo interiore che si fa affresco generazionale, un lamento paterno che rasenta il soliloquio dostoevskiano, un’analisi pungente e disillusa della distanza siderale tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti. Ma, in questo tentativo di comprendere e, forse, redimere la gioventù mollemente adagiata sul divano dell’apatia contemporanea, il testo si avviluppa in una narrazione che, sebbene affilata e ironica, rischia di scivolare nel moralismo e in un’epica nostalgica che ha il sapore del rimpianto anziché della comprensione.

    Serra scrive con la penna acuminata del giornalista di lungo corso, con la sensibilità del polemista raffinato e con il guizzo dello scrittore che sa mescolare lirismo e sarcasmo. Tuttavia, il suo ritratto della giovinezza contemporanea si appiattisce su un’immagine quasi caricaturale: i giovani come “sdraiati”, pigri, disinteressati, avulsi dalla realtà e ripiegati in un solipsismo tecnologico, incapaci di reggere lo sguardo del mondo se non attraverso lo schermo di uno smartphone.

    Eppure, questa rappresentazione sembra incagliarsi in una dicotomia semplicistica: il padre moralizzatore e il figlio svogliato, l’ordine e il caos, la cultura e il nulla. Se l’ironia, in alcuni passaggi, riesce a illuminare con lampi fulminei l’incomprensione tra le generazioni, in altri rischia di diventare un’invettiva monocorde, una lamentazione che rimane prigioniera del proprio disincanto. L’assenza di un vero dialogo tra padre e figlio – dove il primo monologa e il secondo resta sullo sfondo come un’ombra sfocata – non fa che amplificare questa sensazione di unidirezionalità narrativa.

    Ma i giovani di Serra sono davvero “sdraiati” nel senso di inerti? O piuttosto si muovono lungo traiettorie che sfuggono alla comprensione di chi li osserva con lo sguardo rivolto all’indietro? L’autore pare dimenticare che il suo stesso sguardo adulto è inevitabilmente condizionato da una nostalgia di tempi andati, da un’idealizzazione dell’adolescenza vissuta senza tecnologia, fatta di corse in bicicletta e gesti eroici che oggi sembrano mancare.

    Eppure, le nuove generazioni si muovono, eccome: esplorano, si informano, creano, reinventano modi di pensare e di esistere che non possono essere misurati con il metro delle generazioni precedenti. L’idea che il loro rapporto con il digitale sia solo una forma di estraniazione dalla realtà è una lettura parziale: il mondo virtuale è oggi parte del reale, è un’estensione dell’identità, un terreno di sperimentazione esistenziale e culturale che non può essere liquidato con un’alzata di spalle.

    A distanza di anni dalla pubblicazione di Gli sdraiati, il mondo è cambiato in modi che lo stesso Serra forse non avrebbe potuto prevedere. I giovani di oggi sono sopravvissuti a pandemie, crisi economiche, mutamenti climatici e guerre digitali di narrazione. Sono cresciuti in un contesto di insicurezza e trasformazione, in cui il concetto stesso di stabilità – lavorativa, affettiva, sociale – è stato eroso dalle sabbie mobili della post-modernità. Se prima potevano sembrare sdraiati, oggi molti di loro si rivelano resilienti, iperconnessi ma consapevoli, critici, attenti alle questioni globali, protagonisti di movimenti che scuotono le coscienze.

    Il rischio di un libro come Gli sdraiati è, quindi, quello di rimanere ancorato a una visione statica della gioventù, a un paradigma interpretativo che non coglie il movimento profondo che si agita sotto la superficie. La generazione Z e quella che verrà dopo di essa non sono semplicemente distese su un divano: stanno scrivendo la propria storia con un alfabeto nuovo, e il vero compito di un osservatore acuto sarebbe quello di tentare di decifrarlo senza pregiudizi.

    Michele Serra, con la sua prosa raffinata e la sua vena ironica, ha il merito di portare a galla un disagio generazionale che esiste e persiste. Tuttavia, il limite del suo sguardo è quello di trasformare questo disagio in un’immagine immobile, un’istantanea in bianco e nero di un mondo che, invece, si colora di infinite sfumature. Forse il vero dialogo tra generazioni non si gioca nella nostalgia né nel rimprovero, ma nella capacità di ascoltare con mente aperta, di accettare la diversità dei percorsi, di riconoscere che ogni epoca ha i suoi sdraiati e i suoi inquieti esploratori.

  • L’assente: un romanzo sul bullismo che scuote le coscienze

    L’assente: un romanzo sul bullismo che scuote le coscienze

    Il romanzo “L’assente” di Jan de Zanger si presenta come un’opera di rara intensità emotiva e profondità morale, un testo che scava con chirurgica precisione nei recessi della coscienza umana, laddove il senso di colpa e il dolore si annidano, sedimentandosi nel tempo fino a diventare insopportabili.

    La narrazione si muove con uno stile essenziale, quasi lapidario, in cui ogni parola pesa come una condanna e ogni silenzio si fa eco di un tormento mai sopito. Il protagonista, Pieter Vink, rappresenta l’archetipo dell’adulto in fuga dal proprio passato, ma incapace di sottrarsi all’inesorabile richiamo della memoria. L’invito alla celebrazione del centenario della sua vecchia scuola si configura come una trappola dell’anima, un’improvvisa apertura di quel vaso di Pandora che per venticinque anni aveva cercato di sigillare. Il suo disagio è palpabile, le amnesie selettive un grido di autodifesa contro un ricordo che non vuole affiorare, eppure lo sovrasta.

    Il punto nevralgico del romanzo è il banco vuoto di Sigi Boonstra, presenza-assenza che grava sulle coscienze dei compagni di classe come un monito ineluttabile. Sigi, il ragazzo timido, il piccolo genio respinto, il fragile corpo esposto al ludibrio dei bulli, diventa il simbolo dell’ingiustizia taciuta, della violenza normalizzata, del male banale che si consuma nell’indifferenza collettiva. Il suicidio di Sigi, precipitato sotto un treno poco prima dell’esame di maturità, non è un episodio relegabile al passato, bensì una ferita aperta che reclama giustizia. Pieter, con la sua indagine interiore, diviene il testimone involontario di una tragedia che il tempo non ha potuto cancellare.

    L’autore riesce con mirabile maestria a costruire un racconto in cui il lettore si trova costretto a interrogarsi, a prendere posizione, a chiedersi cosa avrebbe fatto al posto dei protagonisti. La sofferenza di Sigi non è narrata con toni melodrammatici, ma con la cruda freddezza di una realtà ineluttabile: un destino scritto nelle dinamiche del branco, nell’assenza di una guida adulta capace di spezzare il ciclo della crudeltà, nell’omertà che trasforma il silenzio in complicità.

    La scelta dell’autore di dare voce non alla vittima, ma ai carnefici e agli spettatori passivi, rende il romanzo ancora più disturbante. Non c’è conforto, non c’è catarsi immediata: la verità emerge a poco a poco, come un corpo trascinato a riva dalle onde. Ed è una verità dolorosa, inaccettabile, che pone ogni lettore di fronte alla propria responsabilità morale.

    Se “L’assente” è un libro che scuote nel profondo, lo si deve anche alla sua natura di specchio della società contemporanea. Il bullismo descritto nelle pagine del romanzo non è relegato a un’epoca passata: al contrario, continua a manifestarsi con spietata attualità nelle scuole di oggi, nei social network, nelle comunità giovanili. Sigi Boonstra è il volto di tutti quei ragazzi che si sono sentiti invisibili, umiliati, respinti fino a perdere il senso della propria esistenza.

    La conclusione del romanzo, con Pieter che finalmente si fa carico del proprio fardello e affronta l’assemblea dei suoi ex compagni, rappresenta una presa di coscienza tardiva, ma necessaria. Non si tratta più di cercare il colpevole, bensì di riconoscere la propria parte di responsabilità, di guardare negli occhi la propria codardia, di smettere di fuggire.

    L’assente” è un’opera che lascia il segno, un libro che merita di essere letto non solo dai ragazzi, ma anche dagli adulti, in particolare da chi ha il compito di educare e proteggere. Perché il vero orrore non risiede solo negli atti di bullismo, ma nel silenzio che li circonda. E ogni assenza pesa, in eterno, sul cuore di chi ha voltato lo sguardo altrove.

  • Se sbagli non fa niente: un viaggio nell’apprendimento senza paura

    Se sbagli non fa niente: un viaggio nell’apprendimento senza paura

    Il libro che propongo oggi non deve mancare nella libreria di un genitore e di un’insegnante. L’autrice, Daniela Lucangeli, ha il merito di rivoluzionare il concetto di errore nell’apprendimento. Un libro essenziale basato su neuroscienze e didattica emotiva.

    Daniela Lucangeli, esperta di psicologia dello sviluppo e neuroscienze dell’apprendimento, con Se sbagli non fa niente ci accompagna in una riflessione profonda e accessibile sul ruolo dell’errore nel processo educativo. Questo libro non è solo un invito alla resilienza cognitiva, ma una vera e propria rivoluzione nel modo in cui concepiamo la scuola e l’insegnamento.

    Lucangeli parte da un assunto fondamentale: l’errore non è un fallimento, ma un passaggio essenziale dell’apprendimento. L’autrice, attraverso una solida base neuroscientifica, spiega come il cervello elabori le informazioni e come la paura di sbagliare possa inibire l’acquisizione di nuove competenze. La sua argomentazione è chiara e supportata da studi scientifici sulla plasticità neuronale e sul ruolo delle emozioni nell’apprendimento. Il libro ci aiuta a capire che l’errore, quando vissuto senza ansia, diventa un’opportunità di crescita.

    Uno degli aspetti più interessanti è la critica ai metodi educativi tradizionali, spesso basati sulla rigidità del giusto/sbagliato. Lucangeli sottolinea come l’ambiente scolastico debba trasformarsi in un contesto in cui il bambino si senta libero di esplorare, sperimentare e correggersi senza timore di essere giudicato. L’errore non deve essere sanzionato, ma rielaborato per costruire nuove connessioni cognitive.

    Il libro offre spunti concreti per genitori e insegnanti, proponendo strategie per favorire un apprendimento positivo. La chiave sta nel rendere i bambini protagonisti attivi del loro sapere, stimolando la curiosità e il piacere della scoperta. Attraverso racconti ed esempi pratici, Lucangeli dimostra come un’educazione basata sull’accoglienza dell’errore possa portare a risultati sorprendenti in termini di motivazione e autostima.

    Perché leggere Se sbagli non fa niente?

    Perché è un testo che ribalta le convinzioni tradizionali sull’apprendimento e ci offre una prospettiva nuova e illuminante. È una lettura essenziale per chiunque abbia a cuore il benessere educativo e voglia comprendere come rendere la scuola un luogo in cui il fallimento non sia più vissuto con paura, ma con la consapevolezza che ogni errore è un passo in avanti verso la conoscenza.

  • Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Giovanni Stanghellini, filosofo e psichiatra di fama internazionale, è noto per la sua capacità di intrecciare psicopatologia, fenomenologia e antropologia in una riflessione profonda sulla condizione umana. Nel suo libro Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, pubblicato nel 2017, l’autore esplora le dinamiche dell’identità e della percezione del sé in una società dominata dall’immagine e dalla rappresentazione virtuale. Il tema del selfie, inteso non solo come pratica tecnologica ma come fenomeno esistenziale, diventa il punto di partenza per un’indagine sulla costruzione dell’io attraverso lo sguardo altrui.

    L’opera si configura come un saggio di straordinaria attualità, in cui Stanghellini analizza la necessità dell’essere umano di essere visto e riconosciuto dagli altri, una condizione fondamentale per la formazione della propria identità. Il selfie, in questa prospettiva, non è un mero atto di narcisismo ma il sintomo di un bisogno profondo di conferma e legittimazione. Il libro affronta il tema con un linguaggio che fonde rigore accademico e accessibilità, rendendolo un’opera adatta sia agli studiosi di psicologia e filosofia sia a un pubblico più ampio, interessato a comprendere il peso dello sguardo sociale nella costruzione del sé.

    Il selfie come fenomeno esistenziale: narcisismo o bisogno di riconoscimento?

    Il selfie non è semplicemente un atto estetico o un’esibizione narcisistica, ma un fenomeno esistenziale profondo, strettamente legato alla costruzione dell’identità e al bisogno di riconoscimento. Giovanni Stanghellini analizza il ruolo dello sguardo altrui nella definizione del sé, mostrando come l’immagine che proiettiamo sia parte di un processo di autoaffermazione e di legittimazione sociale.

    L’essere umano è, per sua natura, un animale relazionale, la cui identità si forma attraverso l’interazione con gli altri. La fenomenologia e la psicopatologia ci insegnano che l’identità individuale non è un’entità chiusa e statica, ma una costruzione che avviene nel rapporto con il mondo e con gli altri. Il selfie, in questo contesto, rappresenta un dispositivo attraverso cui cerchiamo di rispondere alla domanda esistenziale “Chi sono io per gli altri?”.

    Il selfie come manifestazione della dialettica tra essere e apparire

    Il problema centrale del selfie risiede nella tensione tra autenticità e rappresentazione. Nell’epoca digitale, il volto non è più solo un riflesso dell’identità, ma un mezzo attraverso cui l’individuo si narra, si ricostruisce e si adatta alle aspettative altrui. Il selfie non è mai un’immagine neutra: ogni scatto è frutto di una selezione, di una posa studiata, di una precisa scelta comunicativa che ha come fine ultimo la validazione sociale.

    Stanghellini evidenzia come, dietro questa pratica, si nasconda un bisogno primordiale di essere visti. Il selfie non è solo un atto individuale, ma un fenomeno collettivo: scattare una foto di sé ha senso solo se esiste uno sguardo altro che la riconosca, la interpreti e la validi. In tal senso, la società digitale amplifica un meccanismo che, seppur presente da sempre nell’essere umano, assume oggi una nuova centralità.

    L’eccessiva ricerca di conferma può però condurre a una dissonanza tra l’immagine rappresentata e l’essenza autentica dell’individuo. La costruzione di un sé socialmente accettabile può diventare un limite, spingendo l’individuo a identificarsi con un’immagine artificiale piuttosto che con la propria interiorità. Questo scollamento tra essere e apparire può generare un profondo senso di vuoto esistenziale, creando dipendenza dalla continua approvazione esterna.

    La fragilità dell’Io nello specchio del selfie

    Dal punto di vista psicologico, il selfie diventa dunque un mezzo di gestione dell’insicurezza esistenziale. L’immagine condivisa diventa una sorta di scudo contro il timore di non essere abbastanza, un tentativo di plasmare la percezione di sé in base al feedback degli altri. In questo senso, il selfie può essere interpretato come una strategia di controllo identitario: attraverso la selezione delle immagini migliori, si costruisce una versione potenziata del sé, con lo scopo di rafforzare la propria autostima e ridurre l’ansia sociale.

    Tuttavia, questa ricerca di validazione esterna può facilmente trasformarsi in un circolo vizioso. Il bisogno costante di like, commenti e conferme diventa una misura del proprio valore, e il rischio è quello di legare la propria autostima a un riscontro effimero e instabile. Qui si inserisce la riflessione di Stanghellini sul selfie come paradosso: se da un lato è un tentativo di autoaffermazione, dall’altro può trasformarsi in una gabbia in cui l’individuo è costretto a reiterare la propria immagine ideale, con il timore costante di non essere all’altezza delle aspettative.

    Conclusione: il selfie come metafora della condizione umana

    Il selfie, nella lettura di Stanghellini, non è soltanto un’icona della società digitale, ma una vera e propria metafora della condizione umana. Esso riflette il desiderio innato di essere riconosciuti, la tensione tra autenticità e costruzione dell’immagine, la necessità di trovare un equilibrio tra il sé interiore e la sua rappresentazione esterna.

    L’opera di Stanghellini ci invita a riflettere sulla natura del nostro rapporto con l’immagine e con l’altro. La nostra identità è sempre il frutto di un’interazione, di uno scambio, di uno sguardo che ci restituisce chi siamo. Tuttavia, in un’epoca in cui la visibilità sembra essere diventata sinonimo di esistenza, è fondamentale interrogarsi su quanto di noi stessi stiamo sacrificando sull’altare della rappresentazione.

    Il selfie può essere uno strumento di espressione, ma anche una trappola. La sfida, allora, è imparare a usarlo senza smarrire la propria autenticità, a cercare il riconoscimento senza perdere il senso di sé, a guardarsi nello specchio digitale senza dimenticare che la vera essenza di un individuo non può mai ridursi a un’immagine.