Categoria: Lo psicologo risponde

  • Sostegno al disagio emotivo nei bambini: interventi efficaci per la scuola

    Sostegno al disagio emotivo nei bambini: interventi efficaci per la scuola

    Mio figlio Giacomo, frequenta la 3 elementare, e da qualche settimana si rifiuta di andare a scuola. Quando riusciamo a convincerlo siamo costretti a riprenderlo anzitempo per via di nausea e mal di pancia. Il tutto è coinciso con il cambio della maestra. Mi ha riferito che non ama particolarmente i modi bruschi e aggressivi della nuova maestra. Io non so che fare. Come mi dovrei comportare? M. Z.

    Carissima lettrice, per comprendere la psicologia di un bambino occorre inquadrare il problema nel suo insieme e capire quali siano le cause scatenanti del malessere. Le risposte che un bimbo da non sono mai casuali, ma sono attivazioni di un sistema di difesa. Relativamente ai malesseri, occorre, innanzi tutto scartare cause organiche, e poi concentrarsi su quelli che sono gli aspetti emotivi e psicologici. Decisamente c’è una causa originaria e propenderei per ricercarla nell’ambiente in cui il bambino passa ben 5-6 ore della sua giornata. Davanti alla difficoltà, scattano dei meccanismi che portano alla fuga, con le classiche somatizzazione da ansia che lei riferisce. Senz’altro il cambio di maestra può non aver favorito, anzi, se poi lei mi dice che ha modi bruschi, che tende ad urlare, questo fa la differenza. Ciascun bambino ha una sua sensibilità, le sue fragilità, le sue insicurezze, e nel momento in cui subiscono un trattamento aggressivo, finiscono col sentirsi schiacciati, vivendo tale situazione in modo traumatico, con evidenti ricadute sullo sviluppo psicofisico.

    Il problema di Giacomo ci rimanda ad un altro problema più importante: il ruolo dell’insegnante nella relazione educativa con i suoi alunni. Reputo che un insegnante, a maggior ragione delle scuole elementari, debba avere il necessario equilibrio, la dovuta serenità per lavorare con i bambini. Deve avere quel fascino che porta gli alunni ad aprirsi ad una relazione valorizzante che potenzi risorse e i talenti di ciascuno. L’insegnamento non è solo un meccanico passaggio di informazioni, ma è una relazione tra due esseri umani. La cura, che sia una preoccupazione, o accudire il progetto di una vita altrui, è responsabilità che diventa il paradigma dell’amore stesso, di un amore concreto e tangibile che si esperisce nella relazione quotidiana. Occorre essere predisposti, ecco perché sarebbe auspicabile che i docenti fossero sottoposti a test di personalità, per comprendere se hanno l’effettiva passione e inclinazione per l’insegnamento, e dovrebbero essere scelti non solo in base a criteri conoscitivi ma anche emotivi.

    Se nell’insegnamento si perde la portata “carismatica” si perde l’essenza stessa dell’insegnamento. Purtroppo, siano abituati a privilegiare l’aspetto “conoscitivo” a discapito di quello “emotivo”. Un insegnante che non riesce a sviluppare empatia, che non tiene conto della portata dell’intelligenza emotiva, non dovrebbe svolgere quella professione e stare a stretto contatto con gli alunni. È risaputo che l’intelligenza emotiva resta una componente fondamentale nello sviluppo della psiche umana ed è una chiave per entrare in comunicazione con l’altro. Le emozioni svolgono un ruolo decisivo nella biografia esistenziale di un individuo, in particolare nell’età evolutiva, in quanto influenzano il comportamento e interferiscono in maniera determinante nei processi di apprendimento.

    La correlazione e le connessioni tra sistemi cognitivi e sistemi emotivi, sono state avvallate anche da recenti scoperte neuroscientifiche, e, fatto salvo ciò, si può dedurre che l’azione educativa, soprattutto scolastica, non può mirare al solo potenziamento delle funzioni cognitive tralasciando lo sviluppo di quelle emotive. Sarebbe auspicabile che la scuola attuasse interventi educativi mirati al potenziamento delle funzioni emotive, perché un basso livello di intelligenza emotiva implica gravi rischi nell’età evolutiva, quali attacchi di rabbia che possono sfociare in comportamenti devianti, depressioni, attacchi di panico, disturbi alimentari. Per questo è fondamentale che le emozioni vengano considerate nelle pratiche educative e nell’apprendimento come una pietra miliare a cui fare sempre riferimento. Giacomo, in questa fase di difficoltà, ha necessariamente bisogno di un supporto psicologico, attraverso cui far emergere qual è il disagio che vive a scuola. Non abbia timore di parlarne con l’insegnante, anzi essendo una delle attrici coinvolte, è doveroso interpellarla, senza alcun timore riverenziale. Nella logica delle cose, noi affidiamo in un continuum i nostri figli alla scuola, ci impegniamo a farli crescere e maturare in un ambiente familiare sereno, ma se poi lo sforzo viene vanificato da urla e aggressività, occorre essere chiari e decisi, per far capire che così si sta stravolgendo la vera missione della scuola. Con le urla si perde quella necessaria autorevolezza che consente al bambino di vedere la propria maestra come punto di riferimento: l’antitesi dell’educazione. Sia determinata su questi passaggi.

  • Autolesionismo: quando una lametta lenisce il dolore

    Autolesionismo: quando una lametta lenisce il dolore

    Dottor Littarru, stiamo vivendo un periodo di angoscia e sconforto. Abbiamo scoperto che nostra figlia Martina, 16 anni, sta praticando gesti di autolesionismo. Mi sento profondamente delusa e sopraffatta dal senso di colpa. Forse siamo stati troppo rigidi e direttivi come genitori. Cosa possiamo fare? Perché un adolescente arriva a massacrarsi in quel modo? F.P.

    Gentile lettrice, La ringrazio per avermi scritto.

    È del tutto comprensibile il vostro stato d’animo di fronte a una situazione così delicata. Purtroppo, i dati recenti evidenziano un aumento significativo dei comportamenti autolesionistici tra gli adolescenti. Secondo la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA), si è registrato un incremento del 27% di atti autolesionistici rispetto al periodo pre-Covid-19.

    L’autolesionismo può manifestarsi attraverso tagli, bruciature o altre lesioni autoindotte. Spesso, questi gesti sono una risposta a emozioni travolgenti come ansia, angoscia o depressione. Studi indicano che circa il 30-40% degli adolescenti riferisce di procurarsi lesioni con una certa regolarità, e nell’80-85% dei casi è presente una forma di depressione sottostante.

    È fondamentale riconoscere che l’autolesionismo rappresenta un segnale di disagio profondo e può essere un precursore di comportamenti suicidari. Nel 2023, Telefono Amico Italia ha ricevuto oltre 7.000 richieste di aiuto legate a pensieri suicidari, evidenziando la gravità del fenomeno.

    Per affrontare questa situazione con sua figlia, le suggerisco di:

    • Promuovere il dialogo aperto: Crei un ambiente in cui sua figlia si senta al sicuro nell’esprimere i propri sentimenti senza timore di giudizio.
    • Offrire supporto emotivo: Dimostri comprensione e affetto, facendole sapere che non è sola nel suo percorso.
    • Evitare pressioni eccessive: Le aspettative troppo elevate possono aumentare il senso di inadeguatezza; cerchi di essere paziente e comprensiva.
    • Limitare l’uso eccessivo di dispositivi digitali: L’uso prolungato di smartphone e social media è stato associato a un aumento dell’isolamento e del disagio psicologico tra i giovani.
    • Consultare un professionista: Un neuropsichiatra infantile o uno psicologo specializzato in età evolutiva può fornire un supporto adeguato e interventi mirati.

    Ricordi che, come affermava Virgilio, Omnia vincit amor: l’amore vince ogni cosa. Con pazienza, ascolto e supporto incondizionato, potrà aiutare sua figlia a ritrovare un equilibrio e a riscoprire la bellezza della vita. Non esiti a chiedere aiuto ai professionisti, perché nessun genitore è tenuto ad affrontare da solo un percorso così complesso.

    Ogni piccolo passo avanti sarà un segnale di speranza, e insieme, con il giusto supporto, potrete superare questa fase difficile.

    Un cordiale saluto. D.L.

  • La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

    La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

    Gent.mo Professore, ho insegnato per 40 anni in un liceo. Negli ultimi anni ho riscontrato negli alunni la difficoltà di memorizzazione delle nozioni. A distanza di 50 anni ricordo ancora le poesie insegnatemi nelle elementari. Esiste una causa e degli strumenti che possano compensare questa difficoltà? Marcello

    Parto da una premessa. Lei mi parla dei tempi andati, percepisco una certa nostalgia e struggenza, come è giusto che sia, però dobbiamo prendere atto che i tempi attuali sono terribilmente differenti e terribilmente difficili. Il cambio generazionale è violento, da un biennio all’altro ci troviamo dinanzi a ragazzi che arrivano con scarse basi di scolarizzazione, con problemi comportamentali, con certificazioni che attestano disturbi dell’apprendimento e bisogni educativi speciali,

    Quasi ogni giorno siamo costretti a chiamare le ambulanze per un pronto intervento per attacchi di ansia e panico. I tempi che furono non possono essere un metro di paragone con la generazione attuale. Troppe cose son cambiate nel frattempo, in primis la famiglia, la visione della scuola e dell’insegnante, e soprattutto non siamo ancora preparati a contenere e ad educare ad uso corretto delle tecnologie informatiche. Proprio su quest’ultimo aspetto, recenti studi sottolineano che oramai ci siamo abituati a vivere con la certezza che le risposte che ci servono sono a portata di un clic, concependo il web come una memoria esterna alternativa. Quando ci manca una informazione o non ricordiamo qualcosa, ci viene in aiuto Mister Google. Siamo cresciuti nel trovare la strada che ci porta a trovare l’informazione a noi utile, ma rispetto a qualche decennio fa, memorizziamo molto meno alcune informazioni. Secondo una ricerca dell’Università di Fairfield, è un fenomeno che sembra estendersi anche alle immagini: persino fare fotografie può ridurre i ricordi delle immagini viste. La memoria, se non viene allenata, al pari della muscolatura, tende ad inflaccidirsi, per questo resta fondamentale un training continuo. Oggi, come sottolinea A. Keen, in ‘The Internet is Not the Answer‘, (Internet non è la risposta) allenamento e rigore mentale sono andati perduti.

    Spesso capita di trovare un numero consistente di allievi che nonostante si applichino nello studio non riescano a ricordare, né ad esprimerle compiutamente ciò che hanno studiato. Dopo la fatica, i risultati non sempre sono commisurati allo sforzo e producono risultati scadenti, creando scoraggiamento e sconforto. Neuroscienze e neuropsicologia, che da anni studiano il fenomeno, danno delle risposte in merito, soprattutto sullo studio della memoria nelle sue varie manifestazioni, ma come spesso succede le conoscenze che emergono, rimangono confinate nel ristretto ambito clinico-riabilitativo, per pochi eletti, e non giungono alla destinazione interessata e coinvolta per prima: la scuola.  

    André Rey, nel 1958 ha strutturato una prova che consente di misurare esattamente l’abilità chiamata prova di apprendimento verbale. Al soggetto è presentata una lista di 15 parole che deve cercare di ricordare al termine di ogni presentazione, per 5 volte registrando quanti elementi vengono ricordati. Successivamente il soggetto viene distratto con attività spaziali e dopo 15 minuti gli viene chiesto di ripetere la lista.La curva di apprendimento, in genere, mostra un rapido incremento nel numero di parole ricordate dopo la seconda somministrazione. Il numero di parole cresce fino ad avvicinarsi a 15 al quarto tentativo e spesso tutte le parole vengono ricordate all’ultima ripetizione. Dopo 15 minuti la maggior parte delle persone ricorda l’intera lista senza difficoltà. Ecco dunque un aspetto interessante che deve farci riflettere: nonostante la fase di apprendimento della lista di parole, il recupero a distanza delle informazioni apprese può essere inefficiente: l’immagazzinamento funziona, ma il ricordo no. Siffatta prova conferma quello che a volte si verifica nell’apprendimento scolastico, ovvero, informazioni che al termine del pomeriggio di studio sembravano immagazzinate, dopo qualche ora non sono più recuperabili. Può esistere apprendimento senza ricordo?  Le neuroscienze ci aiutano indicandoci che l’aspetto importante è capire se il soggetto non ricorda o non immagazzina. Sovente si immagazzina ma non si ricorda, e questa è una situazione che trova un trend più frequente nelle nuove generazioni.

    Il problema è risolvibile, con strumenti compensativi, che sovente restano sconosciuti agli stessi insegnanti. Ad uno studente che ha davvero problemi a ricordare una formula o una regola, basta dargli il magazzino delle formule e delle regole a disposizione e lui supererà le sue difficoltà. Gli strumenti ci sono, occorre un utilizzo corretto senza preconcetti di sorta.