Categoria: Neuropsicologia

  • Disprassia: quando il corpo non segue il pensiero

    Disprassia: quando il corpo non segue il pensiero

    Un disturbo invisibile ai più

    La disprassia evolutiva, nota in ambito internazionale come Developmental Coordination Disorder (DCD), è una condizione neurologica che compromette la pianificazione e l’esecuzione dei movimenti volontari, in assenza di deficit motori primari o cognitivi espliciti. Secondo il DSM-5 (APA, 2013), rientra tra i disturbi del neurosviluppo, con una prevalenza stimata intorno al 5-6% della popolazione infantile globale, sebbene i dati siano verosimilmente sottostimati a causa di diagnosi tardive o erronee.

    In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità rileva che circa il 4% dei bambini in età scolare presenta sintomi compatibili con una forma di disprassia, ma solo una parte riceve una valutazione specialistica entro i primi otto anni di vita. Un’indagine europea promossa da European Academy of Childhood Disability (2021) ha evidenziato un preoccupante ritardo nella presa in carico nei Paesi mediterranei rispetto a quelli nordici, dove le prassi diagnostiche risultano più sistematiche.

    Le cause: un mosaico di fattori neurobiologici

    Non esiste un’unica causa della disprassia. Studi condotti con tecniche di neuroimaging funzionale (Forde et al., 2020; Licari et al., 2021) hanno evidenziato alterazioni nei circuiti fronto-parietali, in particolare nella corteccia premotoria e nel cervelletto, suggerendo una disfunzione nella comunicazione interemisferica e nella rappresentazione interna del movimento.

    Alcune ipotesi etiologiche includono:

    • Complicanze perinatali (ipossia, prematurità)
    • Disregolazioni sensoriali precoci
    • Alterazioni nei geni legati alla motricità fine (ad esempio DYX1C1, associato anche alla dislessia)

    Segnali clinici e criticità scolastiche

    I bambini disprassici manifestano difficoltà nel vestirsi, allacciarsi le scarpe, scrivere, utilizzare le posate o partecipare a giochi sportivi. La componente motoria impatta direttamente sulla sfera psicologica, generando vissuti di frustrazione, esclusione sociale e una possibile comorbilità con disturbi internalizzanti come ansia o depressione (Zwicker et al., 2018).

    In adolescenza, una diagnosi tardiva può comportare un impatto significativo sull’autostima e sulla performance scolastica. Le difficoltà nella gestione dello spazio, nella coordinazione occhio-mano e nella scrittura (disgrafia) spesso vengono erroneamente interpretate come svogliatezza o disattenzione, aggravando il ritardo nella presa in carico.

    Diagnosi tardiva: non è mai troppo tardi per intervenire

    Quando la disprassia viene riconosciuta oltre i 10 anni, è necessario un approccio multimodale, che coinvolga:

    • Valutazione neuropsicologica integrata, con particolare attenzione alle funzioni esecutive e visuo-spaziali.
    • Riabilitazione psicomotoria individualizzata, basata su esercizi progressivi di organizzazione spazio-temporale, equilibrio e pianificazione.
    • Strumenti compensativi, come tastiere facilitanti, sintesi vocale, o mappe concettuali.
    • Supporto psicologico, mirato al rinforzo dell’identità personale e della motivazione scolastica.

    Un efficace protocollo di intervento è stato illustrato dal progetto Move to Learn (Cairney et al., 2019), che ha dimostrato significativi miglioramenti nella coordinazione motoria e nell’integrazione sociale di adolescenti con DCD.

    Il ruolo della scuola e della famiglia

    La sinergia tra scuola e famiglia è essenziale. L’introduzione di Piani Didattici Personalizzati (PDP), come previsto dalla normativa italiana (Legge 170/2010), può rappresentare un valido strumento per garantire equità e accessibilità all’apprendimento. La formazione degli insegnanti sul tema della disprassia resta tuttavia disomogenea: secondo una recente indagine ANPE (2022), solo il 28% dei docenti ha ricevuto un’adeguata preparazione in merito ai disturbi della coordinazione motoria.

    Conclusioni

    La disprassia non è sinonimo di goffaggine, ma una complessa condizione neuroevolutiva che richiede attenzione, diagnosi precoce e interventi mirati. Anche in caso di diagnosi tardiva, è possibile promuovere uno sviluppo armonico e rafforzare il senso di autoefficacia nel soggetto, a patto che vi sia una rete competente e solidale attorno a lui.

  • Figure bistabili e ambiguità digitale

    Figure bistabili e ambiguità digitale

    Le figure bistabili, note sin dal XIX secolo (Necker, 1832; Jastrow, 1899), rappresentano una frontiera iconica della psicologia percettiva. Tali immagini ambigue consentono due o più letture incompatibili, pur coesistendo nello stesso stimolo visivo. Il soggetto non è in grado di mantenerle simultaneamente: l’alternanza è inevitabile e spesso involontaria. Questo fenomeno è una potente metafora epistemologica della crisi interpretativa del nostro tempo.

    Nell’epoca dell’infobesità digitale, le figure bistabili non sono più solo strumenti di studio neurocognitivo, ma simboli semiotici di una comunicazione disgregata, dove ogni segno slitta di significato in base al frame algoritmico, alla bolla sociale, al bias di conferma.

    La percezione tra realtà e costruzione

    Secondo la neurofenomenologia contemporanea, la percezione non riflette la realtà in modo passivo, ma la costruisce attivamente. Le fluttuazioni nella lettura di una figura bistabile sono prodotte da oscillazioni neuronali spontanee(Sterzer et al., Nat Rev Neurosci, 2009), ma anche da influenze top-down: esperienze, aspettative, contesto culturale.

    Analogamente, nella sfera comunicativa odierna, non esiste più un codice stabile di riferimento: ogni messaggio – testo, immagine o video – si presta a una pluralità di interpretazioni che scivolano da un significato all’altro in base al pubblico, alla piattaforma, al momento storico.

    Social media e crisi dell’ermeneutica

    Il crollo delle chiavi ermeneutiche è una delle grandi emergenze del presente. In una cultura visiva iperaccelerata, l’utente medio non possiede più gli strumenti cognitivi e semiotici per decifrare in modo critico i contenuti. I social network fungono così da catalizzatori di percezione bistabile: si passa in pochi istanti dalla commozione alla polarizzazione, dalla verità alla disinformazione, dalla testimonianza autentica alla manipolazione algoritmica.

    Il frame digitale funziona come una “camera di risonanza percettiva”: ciò che vedo è ciò che mi è stato anticipato, suggerito, preformattato da modelli predittivi (bias dell’aspettativa) e da feedback di gruppo (bias del consenso).

    Bias cognitivi nella lettura digitale

    Le figure bistabili offrono un modello per comprendere i principali bias cognitivi che strutturano l’esperienza nei social:

    • Bias della salienza: l’interpretazione prevale su base emozionale e visiva, non razionale.
    • Bias di conferma: si privilegiano contenuti che rinforzano le proprie convinzioni.
    • Bias dell’ambiguità: in assenza di significato univoco, la mente si rifugia in scorciatoie cognitive.
    • Bias dell’euristica della disponibilità: ciò che è immediatamente accessibile o frequente diventa “vero”.

    La disintegrazione del significato

    La comunicazione digitale odierna si muove, come le figure bistabili, in una zona di interstizio semantico, in cui l’ambiguità è programmata e dove ogni messaggio può essere rovesciato nel suo opposto. Questa disintegrazione del significato non è una semplice fragilità cognitiva, ma una crisi antropologica: l’uomo contemporaneo assiste impotente alla dissoluzione delle categorie interpretative con cui decifrava il mondo.

    Come notava Paul Virilio, la velocità dell’informazione genera una “cecità della trasparenza”. In questo contesto, la figura bistabile diviene emblema della fragilità della verità nell’era postmediatica.

    Per una nuova ecologia della percezione

    Riapprendere a vedere – nel senso ermeneutico e neuropsicologico – è una sfida educativa e culturale. Occorre formare individui in grado di:

    • Riconoscere l’ambiguità come dato e non come fallimento.
    • Sospendere il giudizio dinanzi alla complessità del segno.
    • Riscoprire lenti interpretative non binarie, capaci di contenere la polisemia dell’esperienza digitale.

    Le figure bistabili, da semplice illusione ottica, si rivelano dunque strumenti pedagogici e clinici, utili per rieducare l’occhio e la mente a una percezione più integrata, meno reattiva, più critica.

  • Infanzia e memoria: la scienza del ricordo nei primi anni di vita

    Infanzia e memoria: la scienza del ricordo nei primi anni di vita

    La memoria dell’infanzia rappresenta uno degli enigmi più affascinanti della neuropsicologia dello sviluppo. Nonostante l’infanzia sia il periodo più ricco in termini di acquisizione di competenze fondamentali, come il linguaggio e la socialità, i ricordi autobiografici dei primi anni di vita sono frammentari, se non del tutto assenti. Questa lacuna è nota come amnesia infantile, un termine coniato da Sigmund Freud nel 1899, ma oggi corroborato da solide evidenze neuroscientifiche.

    A che età iniziamo a ricordare?

    Studi longitudinali hanno dimostrato che i primi ricordi autobiografici coscienti si collocano, nella maggior parte dei soggetti, tra i 3 e i 4 anni di età. Tuttavia, come evidenziato da Bauer e Larkina (2016), la stabilità e l’accuratezza di questi ricordi sono soggette a una forte erosione nel tempo, e solo alcuni eventi specifici sopravvivono alla ristrutturazione mnestica dell’età adulta.

    Il motivo principale risiede nello sviluppo neurologico: l’ippocampo, struttura centrale per la formazione della memoria episodica, non è pienamente funzionale nei primi anni di vita. Solo a partire dal terzo anno si registra una sufficiente integrazione tra ippocampo e corteccia prefrontale, condizione necessaria per la codifica e il recupero di esperienze autobiografiche complesse (Nelson, 1995; Bauer, 2007).

    Perché ricordiamo di più gli eventi traumatici?

    In netto contrasto con l’amnesia infantile, molti soggetti riportano ricordi vividi e dettagliati di eventi traumatici occorsi in tenera età. Questa apparente contraddizione è spiegata dal coinvolgimento della amigdala, struttura limbica deputata all’elaborazione delle emozioni, che matura prima dell’ippocampo e che mostra un’attività accentuata in situazioni di pericolo, paura o stress.

    La codifica mnestica degli eventi traumatici è infatti potenziata dall’attivazione del sistema noradrenergico e cortico-surrenalico, che rinforza l’immagazzinamento delle informazioni emotivamente salienti. Come evidenziato dallo studio di McGaugh (2004), gli ormoni dello stress (ad esempio il cortisolo) modulano positivamente la memoria emotiva, rendendo gli eventi traumatici resistenti all’oblio.

    Un classico esempio è rappresentato dai bambini che hanno subito incidenti o esperienze di ospedalizzazione precoce: molti di essi, pur non ricordando eventi quotidiani coevi, riportano immagini nitide, talvolta intrusive, legate al trauma. Uno studio condotto da Goodman et al. (1997) dimostra che bambini di 3-4 anni che avevano subito un intervento chirurgico conservavano ricordi specifici anche mesi dopo l’evento, in maniera significativamente superiore rispetto a eventi neutri.

    Trauma precoce e memoria implicita: quando il corpo ricorda prima della mente

    La memoria degli eventi traumatici che avvengono nei primi anni di vita assume una forma diversa dalla memoria episodica classica. Si parla in questo caso di memoria implicita o procedurale, che si inscrive nei circuiti subcorticali e somatosensoriali prima ancora che il linguaggio o la coscienza narrativa possano intervenire.

    Secondo le teorie di Allan Schore e della psicoanalisi neurobiologica, i traumi relazionali precoci – come trascuratezza, mancanza di sintonizzazione affettiva, o esperienze invasive – si depositano nella struttura del Sé attraverso vie neuroaffettive non verbali. La corteccia orbitofrontale, in dialogo precoce con l’amigdala e il sistema limbico, diventa l’archivio di questa “memoria senza parole”.

    La conseguenza clinica è rilevante: molti adulti portano nel corpo tracce mnestiche di traumi infantili senza poterne avere un ricordo cosciente, ma manifestando sintomi psicosomatici, disregolazione affettiva, disturbi dissociativi o forme croniche di ansia. Il corpo, come suggerisce Van der Kolk (2014), “tiene il conto” (The Body Keeps the Score).

    Memoria, linguaggio e narrazione: una triade evolutiva

    Un altro fattore chiave nel consolidamento della memoria infantile è il linguaggio narrativo. La possibilità di verbalizzare gli eventi li rende più accessibili al recupero cosciente. Questo spiega perché bambini cresciuti in ambienti comunicativamente stimolanti sviluppano una maggiore capacità di ricordare esperienze passate. Le narrazioni genitoriali svolgono un ruolo cruciale nel dare forma e coerenza ai ricordi, trasformandoli da semplici sensazioni in veri e propri episodi autobiografici (Fivush et al., 2006).

    Eredità invisibili: la memoria transgenerazionale del trauma

    Un’ulteriore espansione della comprensione mnestica in psicologia dello sviluppo riguarda la trasmissione transgenerazionale del trauma. Studi epigenetici dimostrano che l’esposizione a eventi traumatici gravi (es. guerre, carestie, deportazioni) può lasciare tracce misurabili nel corredo biologico delle generazioni successive. Un famoso studio pubblicato su Biological Psychiatry (Yehuda et al., 2016) ha evidenziato alterazioni nei livelli di cortisolo nei figli di sopravvissuti all’Olocausto, suggerendo una trasmissione epigenetica dello stress traumatico.

    Ma non si tratta solo di geni. La trasmissione avviene anche attraverso il linguaggio emotivo, le narrazioni familiari, le omissioni e i silenzi, che costruiscono nei discendenti un paesaggio psichico intriso di significati traumatici mai pienamente esperiti, ma profondamente incorporati. La “memoria assente”, per citare Marianne Hirsch, agisce come postmemoria: un’eredità psichica ricevuta senza esperienza diretta.

    Clinica del ricordo: verso una rielaborazione trasformativa

    Nel trattamento psicoterapeutico, la ricostruzione di questi frammenti mnestici – impliciti, somatici o transgenerazionali – richiede tecniche non puramente cognitive. Approcci come la terapia sensomotoria (Ogden), l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), e la psicoterapia relazionale integrata consentono al soggetto di dare forma e significato a ciò che non è stato mai nominato, ma che permane come traccia silente.

    Nel lavoro clinico con bambini e adolescenti, è fondamentale favorire l’integrazione narrativa precoce: aiutare il minore a nominare le emozioni, a costruire un senso di continuità tra ciò che sente e ciò che pensa. Solo così la memoria traumatica può essere trasmutata da sintomo a consapevolezza.

    Conclusione: la memoria infantile non è assente, ma diversa
    La nostra mente non registra i primi anni di vita come una videocamera oggettiva, ma come un sistema selettivo, emotivamente modulato e strutturalmente incompleto. Ricordiamo ciò che ha attivato in profondità i nostri circuiti neurali, ciò che ci ha segnato. In questa prospettiva, l’infanzia non è un vuoto mnestico, ma una zona opaca della coscienza, dove il corpo e le emozioni ricordano anche quando le parole non bastano.

  • Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Nell’era della scuola “neurocentrica”, dove ogni metodologia didattica ambisce a definirsi “evidence-based”, si annida un pericolo silenzioso e affascinante: il neuromito. Con questo termine si indicano quelle convinzioni errate sul funzionamento del cervello umano che, pur prive di fondamento scientifico, si diffondono capillarmente nella formazione docente, nella pratica educativa e persino nei colloqui con le famiglie.

    Molti di questi miti derivano da una semplificazione eccessiva o da una distorsione dei risultati delle neuroscienze. Il pericolo? Che, anziché promuovere un’educazione più efficace, si costruiscano prassi rigide, stigmatizzanti o inutili.

    Che cosa sono i neuromiti?

    Il termine “neuromito” è stato coniato nel 2002 da Paul A. Howard-Jones, docente dell’Università di Bristol, per descrivere false credenze sul cervello che trovano terreno fertile nella scuola e nella formazione. Uno dei suoi studi più citati (Howard-Jones, 2014) ha mostrato che oltre il 70% degli insegnanti europei crede in almeno un neuromito, nonostante il loro alto livello di istruzione.

    Esempi classici includono:

    • “Usiamo solo il 10% del nostro cervello”
    • “Gli stili di apprendimento (visivo, uditivo, cinestetico) vanno assecondati per ogni alunno”
    • “L’emisfero destro è creativo, il sinistro è logico”
    • “È meglio insegnare ai bambini solo nella loro finestra sensibile”
    • “Il cervello si sviluppa solo fino a una certa età”

    Una questione di (in)formazione

    Uno studio condotto su 242 insegnanti italiani (Ferrero, Garaizar, & Vadillo, 2016) ha evidenziato che l’89% crede nell’esistenza degli stili di apprendimento come criterio per adattare la didattica. Tuttavia, nessuna ricerca neuroscientifica ha mai dimostrato un miglioramento significativo nei risultati scolastici adottando tale classificazione.

    Allo stesso modo, credere che il cervello abbia “un lato creativo e un lato logico” è una sovrainterpretazione di ricerche sulla specializzazione emisferica, ma le neuroscienze moderne mostrano che le funzioni cognitive complesse richiedono l’integrazione di entrambi gli emisferi (Gazzaniga, 2009).

    Perché sono dannosi?

    I neuromiti non sono semplici errori concettuali: influenzano direttamente il modo in cui gli educatori insegnano e valutano. Possono portare a etichettature precoci (“questo bambino non è portato per la matematica”), a strategie didattiche inefficaci e a spreco di risorse. In ambito clinico, possono addirittura ritardare diagnosi corrette in bambini con difficoltà specifiche dell’apprendimento.

    Una ricerca dell’OCSE (2019) ha sottolineato che la presenza di neuromiti nei sistemi scolastici rallenta l’innovazione educativa basata su dati scientifici e aumenta la dipendenza da mode pedagogiche.

    Come difendersi?

    1. Formazione scientificamente fondata

    Occorre inserire nei percorsi di aggiornamento per docenti e pedagogisti moduli di neuroeducazione, fondati su evidenze, per distinguere tra ciò che è “neuro-realistico” e ciò che è solo una “neuro-mod(a)”.

    2. Pensiero critico e interdisciplinarità

    È fondamentale promuovere il dialogo tra scienze cognitive, psicologia dell’educazione e didattica. Le neuroscienze non dettano il “come si insegna”, ma offrono vincoli e possibilità da tradurre con intelligenza pedagogica.

    3. Ricerca condivisa scuola-università

    Istituire progetti pilota in cui le scuole collaborano con centri di ricerca per monitorare gli effetti reali degli approcci didattici è una strada promettente.

    Esempio concreto: “Programmi per potenziare il cervello”

    Molte scuole hanno acquistato negli ultimi anni costosi software “per l’allenamento cerebrale” o “per lo sviluppo delle intelligenze multiple”, attratte da pubblicità che promettono miracoli cognitivi. Tuttavia, la letteratura scientifica (Simons et al., 2016) mostra che gli effetti di questi training sono spesso limitati e non trasferibili alla vita scolastica reale.

    Conclusione

    La fascinazione per il cervello è comprensibile: ogni educatore vorrebbe una chiave per liberare il potenziale degli alunni. Tuttavia, una chiave sbagliata apre porte sbagliate.
    Conoscere e smascherare i neuromiti è un dovere etico e professionale per ogni docente e pedagogista, perché solo su basi scientifiche possiamo costruire una scuola realmente inclusiva, efficace e umana.

  • Tipi di memoria funzioni e potenziamento nei DSA

    Tipi di memoria funzioni e potenziamento nei DSA

    La memoria non è un archivio statico, ma un atto creativo del cervello: ricorda ricostruendo, non conservando.” D.L.

    I diversi tipi di memoria: classificazione e funzioni

    Memoria di lavoro (working memory)

    È il fulcro della nostra capacità di mantenere e manipolare informazioni per brevi periodi.
    Esempio pratico: un bambino che ascolta una consegna e contemporaneamente deve trascrivere ciò che ha sentito.
    Funzione: essenziale per la comprensione del testo, la risoluzione di problemi matematici e la pianificazione.

    Memoria a breve termine

    Immagazzina le informazioni per pochi secondi o minuti.
    Esempio pratico: ricordare un numero di telefono per il tempo necessario a comporlo.
    Funzione: sostiene l’apprendimento immediato, ma senza manipolazione attiva dei dati.

     Memoria a lungo termine

    Comprende le informazioni conservate per lunghi periodi. Si divide in:

    • Memoria dichiarativa (esplicita): riguarda fatti (memoria semantica) e esperienze personali (memoria episodica).
    • Memoria procedurale (implicita): concerne abilità automatiche, come andare in bicicletta o scrivere.

    Funzione: immagazzina conoscenze, automatizza competenze, costruisce la narrazione autobiografica.

    Quando la memoria non funziona bene: segnali e conseguenze

    Nei bambini con DSA (in particolare dislessia, disortografia e discalculia), la memoria può presentare fragilità specifiche:

    • Difficoltà nella memoria fonologica: ostacola la decodifica dei suoni e la corretta ortografia delle parole.
    • Compromissione della memoria di lavoro: limita l’autonomia nei compiti complessi e rallenta l’elaborazione cognitiva.
    • Deficit della memoria procedurale: rende difficoltosa l’automatizzazione delle abilità scolastiche, costringendo il bambino a “ripensare” ogni volta come si legge, scrive o calcola.

    Queste difficoltà non vanno confuse con scarso impegno o svogliatezza: sono segni di un funzionamento neuropsicologico differente, che richiede un approccio mirato.

    Strategie e strumenti per il potenziamento

    Interventi mirati

    • Training specifici sulla memoria di lavoro, come gli esercizi a carico cognitivo crescente (dual tasks, n-back).
    • Mappe concettuali e visive, per alleggerire la memoria a breve termine e sostenere quella semantica.
    • Routinizzazione, ovvero ripetizione e automatizzazione progressiva per rinforzare la memoria procedurale.

    Tecnologie compensative

    • Sintesi vocale, audiolibri e software per la gestione delle informazioni, particolarmente utili nei casi di dislessia.

    Didattica metacognitiva

    Aiuta il bambino a diventare consapevole dei propri processi mentali, utilizzando strategie come l’autoverbalizzazione (“Cosa sto facendo?”, “Qual è il prossimo passo?”).

    Conclusione

    In ambito educativo e clinico, la memoria non va intesa come un contenitore più o meno capiente, ma come una rete dinamica di processi interdipendenti. Quando uno di questi nodi è fragile, tutto l’assetto dell’apprendimento può risentirne. Ma la plasticità cerebrale, unita a un intervento precoce e competente, consente di sviluppare strategie adattive che rafforzano le risorse residue e valorizzano le intelligenze alternative. Comprendere i diversi tipi di memoria significa, dunque, aprire una finestra sul modo unico in cui ogni bambino impara, pensa e costruisce il proprio futuro.

  • Migliorare l’attenzione degli studenti a scuola è una priorità

    Migliorare l’attenzione degli studenti a scuola è una priorità

    • primi 5 minuti sono quelli di massimo focus;

      L’attenzione a scuola: una risorsa in declino?

      In un mondo saturo di stimoli digitali, l’attenzione in classe è diventata una risorsa sempre più fragile. Studi recenti mostrano come il tempo medio di concentrazione nei bambini e negli adolescenti si sia ridotto drasticamente negli ultimi vent’anni. Secondo un’analisi pubblicata su Nature Reviews Neuroscience (2023), l’esposizione prolungata a contenuti digitali rapidi e frammentati altera il funzionamento della corteccia prefrontale, sede del controllo esecutivo e dell’attenzione sostenuta.

      Cosa dice la ricerca: attenzione, multitasking e apprendimento

      Uno studio dell’Università di Stanford (2024) ha dimostrato che il multitasking digitale abbassa la qualità dell’apprendimento fino al 40%, interferendo con la memoria di lavoro e il consolidamento delle informazioni. L’effetto è ancora più marcato in soggetti con difficoltà di attenzione o DSA, che già partono con un carico cognitivo maggiore.

      Strategie didattiche basate sulle neuroscienze

      Oggi si parla sempre più di neurodidattica: un approccio che integra i risultati delle neuroscienze cognitive nella progettazione educativa. Alcuni esempi efficaci:

      • Attività brevi e cicliche: le ricerche della McGill University (2023) confermano che suddividere le lezioni in segmenti di 10-15 minuti con pause attive aumenta l’attenzione sostenuta e riduce la fatica mentale.
      • Didattica multisensoriale: coinvolgere diversi canali sensoriali (visivo, uditivo, cinestesico) facilita la codifica e il recupero delle informazioni, soprattutto nei bambini con disturbi dell’attenzione.
      • Tecniche metacognitive: insegnare agli studenti come funziona la propria attenzione e come gestirla attraverso strumenti di self-regulation migliora significativamente i risultati. Studi dell’Università di Harvard (2023) lo confermano con dati longitudinali su oltre 3.000 studenti tra 8 e 14 anni.
      • Esempi concreti e progetti pilota
      • Nel 2024, il MIM ha promosso un progetto sperimentale in 50 scuole italiane, introducendo “pause neurocognitive” ogni 40 minuti di lezione. I risultati preliminari evidenziano un incremento del 25% nella capacità di attenzione degli studenti e una riduzione del 30% nei comportamenti oppositivo-provocatori in classe.
      • Inoltre, l’uso di ambienti scolastici “low stimuli” (riduzione del rumore, luci naturali, arredi funzionali) ha portato a un miglioramento significativo nel comportamento attentivo in bambini neurodivergenti, come dimostrato in un recente studio condotto all’Università di Padova (2023).
      • Conclusioni
      • Migliorare l’attenzione degli studenti è possibile, ma richiede un cambio di paradigma: serve una scuola più ritmata sul cervello degli studenti, meno votata alla performance e più attenta alla qualità dell’ambiente e delle interazioni. Le neuroscienze ci indicano la via, ora sta a noi percorrerla.