Categoria: Psicologia

  • Il nucleo intatto: la forza invisibile che sostiene identità e relazioni

    Il nucleo intatto: la forza invisibile che sostiene identità e relazioni

    Introduzione: l’essere umano non è mai la sua ferita

    Nel panorama della psicologia contemporanea, uno dei concetti più potenti e trasversali è quello di nucleo intatto: una porzione profonda e non lesionata della persona, capace di resistere alla frammentazione, di riorganizzare l’esperienza e di riattivare il progetto di crescita anche dopo eventi traumatici, crisi evolutive o disagi psicopatologici.
    È la parte che “resta in piedi” quando il resto sembra cedere.
    È ciò che Winnicott definiva True Self, ciò che Cyrulnik vede come matrice della resilienza, ciò che Viktor Frankl riconosceva come “il resto che salva”, l’ultima libertà interiore a cui nessuna circostanza può accedere.

    In una società frammentata e accelerata, parlare di nucleo intatto significa rimettere al centro la dignità strutturale della persona, oltre il sintomo, oltre l’errore, oltre la diagnosi.

    1. Che cos’è il nucleo intatto? Un concetto clinico con radici profonde

    Il nucleo intatto è un costrutto metapsicologico e fenomenologico che indica:

    • la matrice profonda dell’identità,
    • l’insieme delle competenze interne non lesionate,
    • la dimensione stabile del Sé anche nelle crisi,
    • il punto da cui riparte ogni processo di cura e cambiamento.

    È il luogo in cui la persona conserva:

    • capacità di desiderare,
    • senso di continuità,
    • motivazione alla vita,
    • possibilità di fidarsi e di essere nel mondo.

    Dal punto di vista clinico, il nucleo intatto non è riducibile a un concetto astratto: si manifesta in micro-segni di vitalità psichica, come un sorriso inatteso, un gesto cooperativo, una domanda improvvisa, un frammento di narrazione che “tiene insieme”.

    2. Il nucleo intatto nell’adolescenza: quando tutto cambia

    L’adolescenza è un tempo di oscillazione tra costruzione e perdita di equilibrio.

    A livello neurobiologico, la corteccia prefrontale e i circuiti dopaminergici attraversano una profonda riorganizzazione (Blakemore, 2018).
    A livello identitario, il ragazzo sperimenta una pluralità di Sé, spesso contraddittori.

    In questo scenario l’adulto rischia di vedere solo:

    • comportamenti oppositivi,
    • impulsività,
    • chiusure,
    • disregolazioni emotive.

    Ma dietro la superficie disorganizzata esiste quasi sempre un nucleo di continuità, che nel clinico, nell’educatore e nell’insegnante chiede uno sguardo capace di distinguere ciò che appare da ciò che è ancora sano.

    Nelle psicopatologie emergenti (disturbi del pensiero, depressioni atipiche, ritiro sociale, ideazioni dissociative), il lavoro parte proprio da lì: da ciò che non si è spezzato.

    3. Pedagogia del nucleo intatto: educare significa custodire la parte sana

    Nella scuola, la psicologia del nucleo intatto invita a un cambio di paradigma:
    non si interviene sulla patologia, ma sulle possibilità.

    Significa credere che:

    • nessuno coincide con la sua diagnosi;
    • ogni alunno possiede un punto di forza nascosto;
    • la relazione educativa è un atto di fiducia nelle potenzialità non ancora visibili;
    • il comportamento non definisce l’identità.

    Questa prospettiva è particolarmente efficace nella didattica inclusiva, nei PEI e nei PDP:
    l’obiettivo non è correggere il deficit, ma potenziare il nucleo sano, valorizzare le microcompetenze, costruire continuità tra ciò che il ragazzo è e ciò che può diventare.

    Educare, in fondo, significa sempre “andare verso la parte non ferita dell’altro”.

    4. Clinica del nucleo intatto: quando si cura ciò che è rimasto vivo

    In psicoterapia, soprattutto con adolescenti e giovani adulti, lavorare sul nucleo intatto implica tre movimenti fondamentali:

    a) Ricontattare la parte integra del Sé

    È il processo di Winnicott: fornire un ambiente sicuro in cui il soggetto possa riemergere dalla difesa e mostrare elementi autentici.

    b) Riattivare il desiderio (Frankl)

    Il nucleo intatto è sempre orientato al senso: la persona può riprendere a desiderare quando si sente vista, non giudicata e accompagnata nella riorganizzazione del significato.

    c) Ricostruire continuità narrativa

    Molte crisi psicotiche, dissociative o depressive sono crisi di narrazione.
    Il nucleo intatto permette di riannodare i fili, restituendo una storia che il soggetto sente di poter abitare di nuovo.

    Questo lavoro è oggi documentato anche nelle neuroscienze dell’attaccamento: la capacità di regolazione interiore emerge dalla qualità delle relazioni significative (Siegel, 2020).

    5. Dimensione esistenziale: l’ultima libertà dell’essere umano

    Al di là della clinica e dell’educazione, il nucleo intatto ha una valenza spirituale ed esistenziale.

    Viktor Frankl, sopravvissuto ai lager, lo descriveva così:
    “Esiste nell’uomo un residuo di libertà che nessuna condizione può violare.”

    È quella scintilla che:

    • ci fa rialzare,
    • ci permette di ritrovare significato,
    • mantiene aperta la possibilità di rinascita.

    In un’epoca segnata da ansia, isolamento digitale e impoverimento emotivo, il nucleo intatto diventa una vera rivoluzione antropologica:
    ci ricorda che non siamo definiti da ciò che ci accade, ma da come scegliamo di rispondere.

    6. Perché oggi parlare di nucleo intatto è necessario

    • Perché i ragazzi vivono in un contesto di fragilità emotiva senza precedenti.
    • Perché la scuola rischia di ridurre gli studenti a numeri o diagnosi.
    • Perché la clinica deve tornare a vedere la persona prima del disturbo.
    • Perché la società confonde la prestazione con il valore.

    Il nucleo intatto è un invito a rimettere al centro la dignità originaria della persona, a credere che esiste sempre qualcosa da cui rinascere.

    Conclusione

    La psicologia del nucleo intatto non è un’idea astratta: è una lente clinica, educativa ed esistenziale che permette di vedere la parte più vera della persona.
    È ciò che resta integro quando tutto sembra frantumarsi.
    È il fondamento della resilienza, dell’educazione autentica e della cura.

    Riconoscerlo significa dare all’altro la possibilità di ritrovare sé stesso.

  • COME SI AMA UNA DONNA

    COME SI AMA UNA DONNA

    Si ama una donna non come si possiede un oggetto, ma come si custodisce un mistero.

    L’amore autentico non è il gesto eclatante, ma la tessitura quotidiana dei gesti minimi: la cura del dettaglio, l’ascolto che non giudica, l’essere presenti senza invadere, il sostare accanto senza appropriarsi.

    Amare una donna significa:

    • Riconoscerle il diritto di essere fragile e forte insieme.

    L’amore non teme le oscillazioni emotive: le attraversa, le comprende, le accoglie.

    • Accogliere la sua storia.

    Una donna si ama anche attraverso ciò che ha vissuto: ferite, attese, cadute, rinascite.

    • Proteggere senza imprigionare.

    La protezione non è chiusura: è riparo.

    Non è trattenerla: è offrirle un luogo sicuro in cui tornare senza sentirsi legata.

    • Guardarla come essere unico e irripetibile.

    Nel tempo dell’omologazione, amare significa restituire unicità e saperla vedere oltre i ruoli.

    • Saper chiedere scusa.

    La maturità maschile non si misura nell’infallibilità, ma nella capacità di riconoscere l’errore, di rammendarlo, di non sottrarsi.

    Amare una donna, in fondo, è scegliere ogni giorno di non lasciarla sola dentro la sua solitudine.

    PERCHÉ INSEGNARE A UN FIGLIO AD AMARE SUA MADRE

    Perché l’amore che un figlio impara per la madre diventa la grammatica emotiva con cui amerà il mondo.

    1. La madre è la prima geografia affettiva del figlio

    In lei il bambino sperimenta accoglienza o rifiuto, sintonizzazione o distanza.

    Da questo apprende la base di ogni futura relazione.

    2. Amare la madre significa imparare a rispettare la donna

    I figli apprendono la tenerezza dagli esempi, non dalle parole.

    Se ti vede ascoltare, rispettare, valorizzare, comprenderà che:

    • il corpo non è un diritto,
    • la parola non è un’arma,
    • il silenzio non è punizione,
    • la donna non è un’estensione delle sue esigenze.

    3. L’amore per la madre fonda l’empatia

    Un figlio che vede la madre come persona – e non come funzione – impara riconoscimento, reciprocità, cura.

    4. Amerà come ha visto amare

    I figli non riproducono ciò che diciamo.

    Riproducono ciò che facciamo.

    5. Imparerà la gratitudine, non la pretesa

    Chi riconosce la cura materna impara la gratitudine, che è l’antidoto più forte contro la violenza, l’arroganza, la prepotenza affettiva.

    «Un figlio impara ad amare una donna guardando come suo padre ama sua madre.

    L’amore è l’eredità più alta che possiamo trasmettere».

  • Il resto che salva – Viktor Frankl e l’emergenza educativa

    Il resto che salva – Viktor Frankl e l’emergenza educativa

    Introduzione

    L’emergenza educativa che caratterizza il nostro presente non è soltanto un problema di risorse o di strategie scolastiche: è una crisi di senso. Le famiglie, gli insegnanti e gli stessi adolescenti vivono un tempo di frammentazione, dove le bussole identitarie si indeboliscono e la vulnerabilità psichica cresce in modo esponenziale.
    In questo scenario, il pensiero di Viktor E. Frankl appare di sorprendente attualità. La sua intuizione sul resto – il nucleo irriducibile di libertà interiore che sopravvive anche nelle condizioni più estreme – offre una chiave ermeneutica preziosa per ripensare il compito educativo oggi.

    1. L’emergenza educativa: forme, dati e criticità

    Negli ultimi anni, numerosi indicatori internazionali delineano un quadro allarmante:

    • aumentano i disturbi d’ansia e depressione in età evolutiva (OMS, 2023: +25% post-pandemia);
    • cresce l’incapacità di sostenere la frustrazione e di progettare;
    • si amplifica la solitudine digitale e la difficoltà a costruire relazioni significative;
    • il rapporto tra genitori e figli è sempre più sbilanciato tra iper-protezione emotiva e deficit di autorevolezza;
    • il ruolo educativo della scuola è sovraccaricato da aspettative che superano le sue possibilità.

    L’emergenza educativa è quindi una crisi antropologica: riguarda la qualità della presenza adulta, la capacità di trasmettere senso, di sostenere la crescita e di offrire modelli coerenti.

    È qui che il pensiero di Frankl diventa fecondo.

    2. Viktor Frankl e il concetto di “resto”: la libertà che resiste

    Viktor Frankl, neurologo e psichiatra viennese, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, elabora la logoterapia, una psicoterapia centrata sul senso e sulla responsabilità personale.
    Nei suoi testi fondamentali – Uno psicologo nei lager (1946), La volontà di significato (1969), Alla ricerca di un significato della vita – Frankl descrive come, anche nelle condizioni più disumane, l’uomo conservi un residuo interiore, un nucleo irriducibile di autodeterminazione.

    Questo resto è:

    • la possibilità ultima di dire “sì” o “no” alla disperazione;
    • la capacità di interpretare la sofferenza in chiave di significato;
    • la libertà di assumere un atteggiamento dentro circostanze che non possiamo cambiare.

    Frankl lo chiama “la libertà ultima”, un baluardo spirituale e psicologico che nessun evento esterno può annientare. È lo spazio dell’atto educativo, oggi più che mai.

    3. L’apporto di Frankl alla psicologia contemporanea

    La logoterapia introduce elementi rivoluzionari, oggi riconosciuti nella psicologia clinica e nelle scienze educative:

    3.1 Il senso come fattore protettivo

    Per Frankl, la percezione di senso – anche micro-significati – rafforza la resilienza, riduce la vulnerabilità psichica e stimola la motivazione intrinseca. Ricerche moderne sulla meaning-oriented therapy confermano che la percezione di scopo personale è correlata a:

    • minore rischio di ansia e depressione;
    • maggiore tolleranza allo stress;
    • gestione più efficace dei fallimenti educativi.

    3.2 La responsabilità come struttura della libertà

    Frankl sostiene che non esiste libertà senza responsabilità: è questa la dimensione che differenzia la logoterapia da altre correnti cliniche più centrate sul bisogno o sul sintomo.

    3.3 L’uomo è orientato al futuro

    La postura psicologica verso il futuro – non verso il passato – determina la qualità dell’esistenza.
    Nelle scuole, ciò si traduce nell’importanza di aiutare bambini e adolescenti a sviluppare una progettualità vitale, oggi drammaticamente compromessa.

    4. L’impatto pedagogico: educare al resto, non al risultato

    Trasportato nella pedagogia, il concetto di resto indica ciò che permane nonostante le crisi:

    • la capacità di scelta;
    • la dignità personale;
    • la responsabilità verso la vita;
    • il legame profondo con valori e significati.

    Una pedagogia frankliana:

    1. non mira a eliminare la sofferenza, ma a trasformarla in occasione di crescita;
    2. non riduce l’educazione a tecnica, ma la radica in una relazione di senso;
    3. non protegge dall’impatto della realtà, ma insegna ad affrontarla con atteggiamento creativo;
    4. non educa al successo, ma alla solidità interiore.

    In una società che frammenta, distrae e indebolisce, l’educazione deve diventare una custodia del resto: aiutare ogni giovane a riconoscere quel nucleo di forza che nessuna crisi può dissolvere.

    5. Il resto come strategia contro l’emergenza educativa

    Applicare Frankl all’emergenza educativa significa proporre una svolta antropologica:

    • rimettere al centro la persona, non la performance;
    • sostenere il valore dell’impegno e della responsabilità;
    • allenare la capacità di scegliere il senso in mezzo al rumore;
    • costruire adulti presenti, testimonianze di coerenza;
    • restituire alla scuola un ruolo di fucina di coscienza, non solo di competenze.

    Il resto è ciò che resta quando tutto il resto crolla.
    È l’ancora psicologica che impedisce ai giovani di dissolversi nella fragilità del presente.

    Conclusione

    Frankl ci ricorda che l’uomo non è mai completamente in balìa degli eventi.
    In un’epoca segnata da algoritmi che prevedono comportamenti e da pressioni sociali che modellano identità fragili, educare significa custodire la libertà interiore, quel “resto” che permette a ciascuno di resistere e rinascere.

    L’emergenza educativa non si supera solo con riforme o dispositivi disciplinari: si supera formando persone capaci di orientarsi, di assumere responsabilità e di coltivare il senso.
    Ed è proprio nel resto, minuscolo ma inviolabile, che l’educazione trova ancora il suo fondamento più autentico.

  • La Sindrome di Ganser

    La Sindrome di Ganser

    La sindrome di Ganser è una delle espressioni più enigmatiche del comportamento umano, un confine sottile tra realtà psichica e rappresentazione scenica del dolore.
    Descritta per la prima volta a fine Ottocento, continua a suscitare interrogativi sulla natura della coscienza, sulla volontarietà del sintomo e sul bisogno profondo di essere riconosciuti.

    In questa sindrome, il soggetto appare confuso, fornisce risposte errate ma non casuali, manifesta un linguaggio alterato e un senso di smarrimento che sfiora la dimensione onirica.
    È come se la mente, sopraffatta da un conflitto interiore, scegliesse di esprimersi in modo paradossale: fingendo senza mentire davvero.

    Quando il sintomo diventa messaggio

    Nel cuore della sindrome di Ganser si cela un meccanismo di difesa raffinato.
    La simulazione non è sempre menzogna: talvolta è un linguaggio alternativo, un modo per dire l’indicibile.
    Il soggetto non costruisce un inganno deliberato, ma mette in scena una forma di verità psichica.
    Dietro la risposta approssimata si nasconde la richiesta di attenzione, di comprensione, di tregua da un dolore che non trova parole.

    In questa prospettiva, il “ruolo di malato” diventa un modo per essere visti e accolti, soprattutto nei contesti in cui l’emozione autentica non trova spazio.
    È la mente che — non potendo chiedere aiuto — si traveste da corpo malato o da pensiero disorganizzato per essere finalmente ascoltata.

    Un teatro della coscienza

    La sindrome di Ganser rappresenta una forma estrema di dissociazione: la coscienza si frattura e una parte dell’Io assume la regia della scena.
    Chi ne è affetto appare disorientato, ma conserva in filigrana una logica interna, una coerenza simbolica che parla di un trauma o di una tensione insostenibile.

    È un teatro della coscienza in cui la mente recita per sopravvivere.
    Ciò che dall’esterno può sembrare finzione o artificio, è in realtà una difesa estrema dal collasso psichico.
    Il sintomo, così, diventa una soglia: un tentativo disperato di ordinare il caos.

    Simulazione o dissociazione?

    Nell’ambito clinico, la sfida diagnostica consiste nel discernere la simulazione consapevole dalla dissociazione automatica.
    Nel primo caso, il soggetto finge per un vantaggio concreto o per evitare una responsabilità; nel secondo, la finzione è involontaria, una scissione dell’Io che si difende attraverso l’alterazione della realtà.
    La sindrome di Ganser si colloca proprio tra questi due poli, fondendo recita e verità, volontà e perdita di controllo.

    È un fenomeno raro, ma di straordinaria importanza per comprendere come la mente possa generare realtà alternative pur di difendere il proprio equilibrio.

    Adolescenti e bisogno di essere visti

    Negli adolescenti, la dinamica della simulazione può assumere una valenza comunicativa.
    In un tempo in cui l’immagine domina la sostanza, il sintomo può diventare linguaggio: il corpo parla ciò che la parola non osa dire.
    Talvolta la costruzione di un disturbo — reale o simbolico — diviene una forma di riconoscimento, una scena attraverso cui chiedere attenzione, affetto, presenza.

    L’adulto che osserva — genitore, insegnante o terapeuta — non deve fermarsi alla superficie della “finzione”, ma interrogarsi sul bisogno che la sostiene.
    Dietro la messinscena c’è spesso una ferita: la paura di non essere abbastanza, la necessità di essere amati anche attraverso l’errore o la fragilità.

    L’approccio terapeutico

    La cura della sindrome di Ganser richiede un ascolto raffinato e paziente.
    Non basta smascherare la simulazione: occorre decifrarne il significato.
    Il terapeuta deve accompagnare la persona a ritrovare un senso di coerenza interna, restituendole la capacità di dire in parole ciò che prima era affidato al sintomo.

    La psicoterapia, sostenuta se necessario da un intervento medico, mira a reintegrare le parti dissociate e a ricostruire la continuità dell’Io.
    Ogni gesto, ogni silenzio, ogni risposta “sbagliata” diventa così una traccia di verità da interpretare con rispetto e intelligenza clinica.

    Conclusione

    La sindrome di Ganser è una finestra sull’ambiguità della mente umana: ci mostra che anche l’inganno può essere un grido d’aiuto, e che la dissociazione è talvolta il modo più sofisticato con cui l’anima tenta di salvarsi.
    Capirla significa superare il giudizio morale sul “fingere” e riconoscere che, nelle profondità del sé, la menzogna è talvolta l’unico linguaggio rimasto alla verità.

  • La durezza che ci abita: il nostro giudice interiore

    La durezza che ci abita: il nostro giudice interiore

    Il peso della nostra stessa durezza

    Esiste una forma di crudeltà che non ha bisogno di nemici: è quella che esercitiamo contro noi stessi.
    È la voce che sussurra: “non sei abbastanza”“hai fallito di nuovo”“non te lo meriti”.
    Molti di noi convivono con un giudice interiore implacabile, ereditato da antiche esperienze di rimprovero, da modelli educativi inflessibili o da relazioni in cui l’amore era condizionato alla performance.

    La durezza verso sé stessi è una corazza, ma anche una prigione: nasce per proteggerci, ma finisce per ferirci.
    Secondo la psicologia umanistica di Carl Rogers, “l’essere umano ha una tendenza innata alla realizzazione di sé, ma questa può essere soffocata dal bisogno di approvazione esterna”.
    Quando la nostra autostima dipende dal giudizio altrui, ogni errore diventa una minaccia identitaria, un fallimento da espiare.

    L’autosabotaggio: il nemico invisibile

    Perché ci auto-sabotiamo?
    Perché, pur desiderando il bene, ci ostacoliamo nei momenti decisivi?
    La risposta è complessa, ma spesso radicata nella paura: paura di non essere amabili, paura del successo, paura del cambiamento.

    Il cervello, per paradosso, preferisce la sicurezza del dolore conosciuto all’incertezza della libertà.
    Si tratta di un meccanismo di omeostasi emotiva: anche se nocivo, ciò che è familiare ci dà l’illusione di controllo.
    E così ripetiamo schemi, relazioni tossiche, scelte autolimitanti.

    La psicanalista Karen Horney definiva questa tendenza “autodisprezzo inconscio”: la spinta distruttiva dell’Io che cerca, in modo paradossale, di punirsi per non aver corrisposto a un ideale di perfezione.

    La colpa come anestetico dell’impotenza

    Attribuirsi la colpa di ogni fallimento è un modo per non affrontare la complessità del reale.
    Dire “è tutta colpa mia” ci restituisce una sensazione illusoria di controllo: se tutto dipende da me, allora posso rimediare, posso cambiare.
    Ma la verità è che molte cose non dipendono da noi.
    La colpa diventa così una forma di difesa dalla vulnerabilità.

    Nietzsche scriveva che “l’uomo è un animale che può promettere”, ma anche uno che può rimuginare.
    Il rimuginio è la punizione che infliggiamo a noi stessi per non poter cambiare il passato.

    Riconciliarsi con la propria fragilità

    Guarire dalla durezza interiore significa accettare l’imperfezione come forma di umanità.
    Non c’è crescita senza errore, né autenticità senza fragilità.
    La psicologia della self-compassion (Kristin Neff, 2011) ci insegna che trattarsi con gentilezza non è debolezza, ma un atto di coraggio: riconoscere il proprio dolore, accoglierlo e trasformarlo.

    Essere indulgenti con sé stessi non significa deresponsabilizzarsi, ma riconoscere che il cammino umano è fatto di cadute.
    Ogni errore, se ascoltato, diventa insegnamento. Ogni fallimento può diventare rivelazione.

    Il perdono di sé come atto rivoluzionario

    Perdonarsi non è un atto di resa, ma di liberazione.
    È smettere di identificarsi con la propria ombra.
    È riconoscere che il bambino che siamo stati, con le sue paure e i suoi desideri, merita compassione, non giudizio.

    Come scriveva Jung, “nessuno diventa illuminato immaginando figure di luce, ma rendendo cosciente la propria oscurità”.
    La dolcezza verso sé stessi è la forma più alta di consapevolezza: il punto in cui smettiamo di combattere contro di noi e iniziamo, finalmente, a vivere con noi.

  • Quando l’anima recita: il disturbo istrionico di personalità

    Quando l’anima recita: il disturbo istrionico di personalità

    Introduzione

    Il disturbo istrionico di personalità (HPD) appartiene al cluster B dei disturbi di personalità e si manifesta con emotività intensa, teatralità, bisogno costante di approvazione e paura di essere ignorati. La persona istrionica vive la relazione come un palcoscenico: brama attenzione, idealizza, seduce e soffre quando non è al centro della scena.

    Le cause: tra biologia e attaccamento

    Le ricerche più recenti (APA 2024, PMC Clinical Studies) indicano che l’HPD ha basi genetiche e neurobiologichelegate al sistema noradrenergico, che regola la reattività emotiva e l’ansia.

    Fattori ambientali come attaccamento disorganizzato, trascuratezza affettiva o modelli familiari basati sull’apparenza amplificano la vulnerabilità istrionica. Non si tratta quindi di “vanità”, ma di una modalità di sopravvivenza affettiva costruita su paura e bisogno di conferme.

     Studi e scoperte recenti

    • Lo studio “Change Processes in Psychotherapy for HPD” (2023) evidenzia che l’alleanza terapeutica è la variabile più predittiva di miglioramento.
    • La combinazione di Schema Therapy e ACT riduce la teatralità e le strategie di compensazione emotiva.
    • Le nuove linee del DSM-5-TR propongono di leggere l’HPD in chiave dimensionale, come un insieme di tratti (emotività, disinibizione, bisogno di approvazione) più che come categoria rigida.

     Implicazioni cliniche

    In psicoterapia è essenziale stabilire confini chiari e aiutare il paziente a riconoscere i propri schemi relazionali. L’obiettivo non è “spegnere” l’emotività, ma renderla autentica e integrata.

    Il terapeuta deve evitare di alimentare la dinamica di seduzione-attenzione, mantenendo una relazione empatica ma ferma.

    Non esistono farmaci specifici, ma l’intervento psicologico strutturato può ridurre ansia, instabilità e dipendenza affettiva.

    HPD e società contemporanea

    Nel mondo digitale, l’HPD trova un terreno fertile: like, followers e visibilità possono amplificare le modalità istrioniche, rinforzando il ciclo della ricerca di approvazione.

    Comprendere queste dinamiche è fondamentale per prevenire derive narcisistiche e costruire relazioni più autentiche e sane.

    Casi e riflessioni

    In alcuni casi di cronaca, come quello di Luka Magnotta, gli psichiatri hanno riscontrato tratti istrionici accanto ad altri disturbi. Tuttavia, generalizzare sarebbe scorretto: l’HPD non implica pericolosità, ma fragilità mascherata da teatralità.

     Conclusione

    Il disturbo istrionico di personalità non è un difetto morale, ma una ferita relazionale che cerca di essere vista.

    La cura passa attraverso l’ascolto profondo, la regolazione delle emozioni e l’autenticità del legame terapeutico.

    Come scrive Otto Kernberg:

    “Solo chi riesce a riconoscere le proprie maschere può davvero imparare a stare sulla scena della vita senza recitare.”

  • Il corpo che mente: la Sindrome di Mounchausen

    Il corpo che mente: la Sindrome di Mounchausen

    In un’epoca in cui la verità del corpo sembra prevalere su quella della parola, la Sindrome di Mounchausen rappresenta uno dei più enigmatici paradossi della psiche umana: un corpo che mente, ma lo fa per dire una verità più profonda.

    Dietro la messa in scena della malattia si cela un drammatico bisogno di riconoscimento, un desiderio disperato di essere visti, accolti, curati.

    Un nome nato dalla menzogna

    Il termine fu coniato nel 1951 dal medico inglese Richard Asher, che paragonò i suoi pazienti al barone tedesco Karl Friedrich von Münchhausen, celebre per i suoi racconti fantastici e incredibili.

    In psichiatria, il nome divenne così sinonimo di un comportamento patologico in cui l’individuo finge o induce sintomi fisici o psichici, ricercando attenzione e cura, ma senza alcun vantaggio materiale: non si tratta di simulazione per interesse, bensì di una messinscena esistenziale.

    Il desiderio di essere curati

    Nel DSM-5 la sindrome è classificata come Disturbo Fittizio Imposto a Sé Stesso (Factitious Disorder Imposed on Self).

    L’individuo può arrivare a procurarsi feritemanomettere esami clinici o provocare infezioni, pur di confermare la propria condizione di malato.

    Il comportamento è deliberato, ma non razionalmente motivato: l’atto patologico non mira al guadagno, bensì alla ricerca di attenzione e compassione, al bisogno profondo di essere “qualcuno” nel dolore.

    Molti pazienti, paradossalmente, conoscono a fondo il linguaggio medico, muovendosi con disinvoltura tra reparti e specialisti, in una sorta di “pellegrinaggio ospedaliero” alla ricerca del medico perfetto che sappia finalmente riconoscere la loro sofferenza invisibile.

    Una regia inconscia del dolore

    La mente mette in scena ciò che la parola non riesce a dire.

    Numerosi studi psicoanalitici e clinici (p.es. Yates & Feldman, General Hospital Psychiatry, 2016; Bass & Halligan, The Lancet, 2014) evidenziano una correlazione tra la sindrome e storie infantili di abbandono, abusi o trascuratezza emotiva.

    Spesso si tratta di individui cresciuti in contesti in cui la malattia era l’unico modo per ottenere affetto, dove l’attenzione genitoriale passava attraverso il sintomo.

    La finzione del corpo diventa così una forma di autoaffermazione affettiva: il soggetto non vuole tanto ingannare, quanto essere creduto.

    L’inganno, in questo caso, è un linguaggio alternativo alla disperazione, un tentativo di dare forma al dolore dell’anima attraverso il linguaggio dei sintomi.

    La variante per procura: quando il male viene imposto all’altro

    Una forma particolarmente drammatica è la Sindrome di Mounchausen per procura (Factitious Disorder Imposed on Another), nella quale il soggetto — spesso un genitore, in prevalenza la madre — induce o simula malattie nel proprio figlio per assumere il ruolo di “genitore devoto”.

    Questa condotta, oggi riconosciuta come abuso infantile grave, può includere somministrazione di sostanze, manomissione di farmaci o alterazione di referti medici.

    Nei casi più estremi, il bambino può subire danni irreversibili o la morte.

    Studi clinici recenti (Feldman, Journal of the American Academy of Psychiatry and the Law, 2018) mostrano come questa forma patologica emerga spesso in personalità con tratti narcisistici e borderline, incapaci di tollerare la frustrazione affettiva o la perdita di centralità.

    Diagnosi complessa, verità parziale

    Riconoscere la Sindrome di Mounchausen è una delle sfide più complesse della clinica psichiatrica contemporanea.

    Il soggetto tende a negare le proprie manipolazioni, a spostarsi di struttura in struttura, a costruire narrazioni coerenti ma infondate.

    La diagnosi richiede un’analisi multidisciplinare — psichiatrica, psicologica e medica — e un approccio relazionale estremamente cauto, capace di evitare lo scontro frontale che alimenterebbe il circolo vizioso della finzione.

    La chiave terapeutica risiede in una relazione empatica e non giudicante, che offra al paziente una forma di riconoscimento non mediata dal sintomo.

    In alcuni casi la psicoterapia psicodinamica o cognitivo-comportamentale può permettere di costruire un nuovo linguaggio del Sé, non più corporeo ma simbolico.

    Il corpo come teatro del Sé

    Sul piano antropologico, la Sindrome di Mounchausen mette in luce la crisi contemporanea del rapporto tra corpo e identità.

    Viviamo in una cultura che medicalizza l’esistenza e che riconosce il dolore solo se misurabile, visibile, certificabile.

    Così, chi non riesce a far riconoscere la propria sofferenza attraverso la parola finisce per scriverla sul corpo.

    Come scrive il filosofo e psicanalista Paul Ricoeur“il corpo è il primo testimone della nostra verità interiore”.

    Nel caso di Mounchausen, questo testimone mente — ma lo fa per dire qualcosa di autentico: la necessità disperata di essere amati.

    Una verità nella menzogna

    Alla fine, ciò che appare come inganno è spesso una forma estrema di richiesta d’aiuto.

    Il sintomo non è mai una bugia in senso morale, ma un tentativo fallito di comunicare.

    Il compito del clinico è decifrare questo linguaggio, restituendo al paziente la possibilità di esistere senza dover “ammalarsi per essere”.

  • Il nervo vago: il grande sconosciuto che regola il nostro benessere

    Il nervo vago: il grande sconosciuto che regola il nostro benessere

    Il nervo vago, spesso chiamato “il grande sconosciuto”, è in realtà uno degli attori principali del nostro equilibrio psico-fisico. È il decimo nervo cranico e corre come un’autostrada invisibile dal cervello fino agli organi più vitali: cuore, polmoni, stomaco, intestino.

    Un regista silenzioso del corpo

    Il nervo vago è la colonna portante del sistema nervoso parasimpatico, quello che contrasta lo stress e favorisce il recupero.

    • Rallenta il battito cardiaco quando l’ansia accelera il cuore.
    • Regola la respirazione, favorendo profondità e calma.
    • Influenza la digestione, coordinando i movimenti intestinali.
    • Partecipa all’equilibrio emotivo, perché in dialogo costante con l’amigdala e la corteccia prefrontale.

    Quando il vago funziona bene, ci sentiamo centrati; quando è ipofunzionante, possono emergere tachicardia, disturbi gastrointestinali, insonnia, ansia.

    Il nervo vago e la mente

    Le neuroscienze hanno mostrato che il vago è fondamentale anche per la regolazione emotiva. La teoria polivagale di Stephen Porges spiega come questo nervo agisca da “radar sociale”: ci aiuta a sentirci sicuri, a connetterci con gli altri, a modulare le risposte allo stress.

    Un vago “allenato” favorisce resilienza, calma interiore e maggiore capacità di concentrazione. Non è un caso che molte pratiche educative e terapeutiche oggi inseriscano tecniche di respirazione diaframmaticamindfulness e biofeedback vagale.

    Esempi pratici in ambito didattico

    Nelle scuole, attivare il nervo vago può diventare una strategia semplice ma potente:

    • Respiri lenti collettivi all’inizio della lezione → abbassano la tensione e favoriscono l’attenzione.
    • Pausa attiva con stretching e vocalizzi → stimolano il vago e rimettono in moto le energie cognitive.
    • Spazi di silenzio guidato → aiutano studenti ansiosi a recuperare controllo.

    In alcuni progetti pilota, brevi sessioni di esercizi di coerenza cardiaca hanno ridotto i livelli di ansia e migliorato le prestazioni mnemoniche degli studenti.

    Conclusione

    Il nervo vago non è solo un dettaglio anatomico: è una vera cerniera tra corpo, emozioni e mente. Conoscerlo e stimolarlo significa imparare a regolare se stessi, a scuola come nella vita quotidiana.

  • Giovani e infertilità: il peso nascosto di alcol e cannabis

    Giovani e infertilità: il peso nascosto di alcol e cannabis

    Infertilità giovanile: un problema crescente

    L’infertilità non è un tema di nicchia ma una realtà che riguarda una persona su sei nel corso della vita (WHO, 2023). Non parliamo di morale o stili di vita “giusti” o “sbagliati”, ma di biologia riproduttiva: l’ambiente e le abitudini incidono direttamente sulla capacità di concepire. Tra i fattori a più alta prevalenza tra i giovani spiccano alcol e cannabis, sostanze spesso sottovalutate quando si discute di fertilità.

    Cannabis e fertilità: il lato oscuro del THC

    Nelle donne

    Uno studio pubblicato su Nature Communications (2025) ha rilevato la presenza di THC nel fluido follicolare di pazienti sottoposte a PMA. Il risultato? Alterazioni del fuso meiotico e riduzione dell’euploidia embrionale, cioè un aumento di embrioni con anomalie cromosomiche e minori possibilità di impianto. Ciò significa che anche esposizioni non quotidiane possono compromettere la qualità ovocitaria.

    Negli uomini

    La cannabis colpisce soprattutto la qualità del DNA spermatico. Una ricerca del 2024 su PLOS ONE ha dimostrato che il THC influenza la struttura epigenetica dello sperma, con ripercussioni sulla qualità embrionale. Altri studi segnalano un aumento della frammentazione del DNA e difetti nella compattazione cromatinica, con conseguente riduzione della motilità e della capacità fecondante.

    In sintesi: la cannabis interferisce con i meccanismi più delicati della riproduzione: meiosi ovocitaria, euploidia embrionale e integrità del genoma spermatico.

    Alcol e fertilità: conta il “quando” e il “quanto”

    Nelle donne

    La finestra più critica è la fase luteale e peri-ovulatoria. Studi prospettici dimostrano che anche un consumo moderato di alcol in questi momenti riduce significativamente la probabilità di concepimento. Il binge drinking peggiora ulteriormente il quadro, influenzando sia l’ovulazione sia la recettività endometriale.

    Negli uomini

    Per l’uomo il fattore determinante è la cumulatività. Il consumo cronico riduce i livelli di testosterone, altera la funzione delle cellule di Sertoli e Leydig e peggiora i parametri seminali (volume, concentrazione, motilità e morfologia). Lo stress ossidativo indotto dall’alcol è uno dei principali responsabili del danno a carico degli spermatozoi.

    Meccanismi biologici alla base

    • Cannabis: il THC altera il sistema endocannabinoide, che regola ovulazione, maturazione ovocitaria e capacità fecondante dello sperma. Interferisce con la meiosi femminile e modifica epigeneticamente il genoma maschile.
    • Alcol: provoca stress ossidativo e interferenze sull’asse ipotalamo-ipofisi-gonadi, compromettendo equilibrio ormonale, spermatogenesi e ovulazione.

    Questi processi non sono “opinioni”, ma risposte fisiologiche misurabili, documentate dalle ricerche più recenti.

    Domande frequenti (e risposte scientifiche)

    • “Una canna nel weekend incide?” Sì: anche esposizioni episodiche sono correlate a minore euploidia embrionale e danno spermatico.
    • “Il vino a cena è pericoloso?” Se consumato nella fase luteale/ovulatoria femminile può ridurre le probabilità di concepimento. Negli uomini gli effetti emergono soprattutto con consumi cronici.
    • “Esistono soglie sicure?” Gli studi non definiscono un limite privo di rischio: la raccomandazione clinica resta l’astensione in fase di ricerca gravidanza o PMA.

    Indicazioni pratiche in fase pre-concezionale

    • Cannabis: astensione per almeno 3 mesi negli uomini (ciclo completo di spermatogenesi) e totale sospensione nelle donne in pre-concepimento e PMA.
    • Alcol: astensione femminile in fase luteale e ovulatoria, riduzione drastica o eliminazione negli uomini con consumo cronico.
    • Counselling clinico: valutazioni su DNA spermatico, riserva ovarica e ormoni sessuali nei giovani esposti ad alcol o cannabis.

    Numeri chiave

    • 1 su 6: adulti che affrontano infertilità (WHO).
    • THC nel follicolo: associato a meno embrioni euploidi (2025).
    • THC sullo sperma: aumenta danno epigenetico e frammentazione del DNA (2024).
    • Alcol in luteale: anche a dosi moderate riduce la probabilità di concepimento.

    Conclusioni

    La ricerca scientifica ci dice chiaramente che non esistono sostanze “neutre” in fase riproduttiva. Cannabis e alcol non vanno interpretati come vizi morali, ma come variabili biologiche che incidono sul destino riproduttivo di molti giovani. Investire in prevenzione, consapevolezza e corretta informazione significa non solo aumentare le chance di concepimento, ma anche garantire benessere psicologico e sanitario alle nuove generazioni.

  • Psicologia e tradizioni popolari: perché crediamo nei rituali magici?

    Psicologia e tradizioni popolari: perché crediamo nei rituali magici?

    Introduzione

    Dal malocchio agli amuleti, dalle formule segrete alle superstizioni quotidiane: l’essere umano, in tutte le culture, ha creato rituali per proteggersi da ciò che non può controllare.
    Ma perché crediamo così facilmente a queste pratiche? Perché siamo disposti a piegare le nostre decisioni a riti e credenze, pur di sentirci dire ciò che, inconsciamente, desideriamo?

    Malocchio e bisogno di controllo

    Il malocchio è uno degli esempi più diffusi di credenza popolare: uno sguardo carico d’invidia o cattiva intenzione capace di “colpire” la vittima.
    La psicologia spiega questo fenomeno come strategia di riduzione dell’incertezza. Quando la vita sembra fuori controllo, il cervello tende a “vedere” connessioni anche dove non ci sono. Whitson e Galinsky (2008) hanno dimostrato che la mancanza di controllo aumenta la percezione di pattern inesistenti: un meccanismo che alimenta superstizioni e rituali.

    La forza del rituale: placebo e suggestione

    Quando una persona “si fa togliere l’occhio” attraverso acqua, olio o formule segrete, spesso sperimenta un reale sollievo. Perché?
    Entra in gioco la risposta placebo. Come spiega Fabrizio Benedetti (2005), il contesto simbolico di cura può attivare nel cervello sistemi neurochimici legati a dopamina e oppioidi endogeni, generando benessere autentico. Non è “solo credere”: è un effetto biologico innescato da aspettative e ritualità.

    Il potere delle parole

    Un altro fattore decisivo è la psicologia del riconoscimento. Le persone si sentono attratte da chi sa dire ciò che inconsciamente vogliono sentire: che il male non dipende da loro, che c’è una spiegazione esterna, che esiste un rimedio accessibile.
    È lo stesso meccanismo che rafforza gli oroscopi o i consigli “magici”: dare un nome all’angoscia e trasformarla in una narrazione condivisibile. Come notava Clifford Geertz, l’uomo ha bisogno di sistemi simbolici per dare senso al dolore e all’incertezza.

    Norme sociali e conformità

    Le credenze popolari non vivono solo nella mente individuale: sono pratiche sociali. Adeguarsi al rito significa restare parte della comunità. Gli esperimenti sulla conformità (Asch, 1951 e repliche moderne) dimostrano che le persone preferiscono spesso sbagliarsi insieme agli altri piuttosto che avere ragione da sole. Così il rituale diventa anche un codice di appartenenza.

    Psicologia antropologica: cosa ci incastra davvero?

    Questi rituali funzionano perché intrecciano diversi livelli:

    • Psicologico: riducono ansia e offrono sollievo simbolico.
    • Biologico: attivano meccanismi placebo che influenzano corpo e mente.
    • Antropologico: rafforzano identità e coesione sociale.
    • Fenomenologico: sono esperienze incarnate, vissute nel corpo come liberazione.

    In altre parole, crediamo perché il rito parla contemporaneamente alla nostra psiche, al nostro corpo e al nostro bisogno di comunità.

    Conclusione

    Il malocchio, la medicina dell’occhio, gli amuleti: non sono semplici superstizioni, ma strumenti culturali che hanno dato all’uomo la possibilità di sentirsi meno solo di fronte al dolore. La psicologia ci mostra che ciò che chiamiamo “magia” è spesso una risposta sofisticata al bisogno di significato e appartenenza.
    E allora la domanda diventa: davvero siamo così lontani da quei rituali? O continuiamo, ogni giorno, a cercare qualcuno che ci dica esattamente quello che vogliamo sentire?