Categoria: Psicologia

  • Educare alla sessualità: oltre il consumo, verso una relazione autentica

    Educare alla sessualità: oltre il consumo, verso una relazione autentica

    Introduzione

    L’educazione alla sessualità in adolescenza costituisce una delle sfide più delicate e decisive della scuola e della famiglia contemporanea. Lungi dall’essere mera trasmissione di nozioni biologiche o precauzioni igienico-sanitarie, essa richiede un’antropologia di riferimento capace di orientare la persona verso una maturazione integrale, dove la sessualità non sia ridotta a consumo, ma riconosciuta come linguaggio di relazione, crescita e condivisione.

    Antropologia relazionale come fondamento

    L’adolescente, posto di fronte alle trasformazioni corporee e identitarie, ricerca significati profondi attraverso la propria esperienza affettiva. È qui che una visione antropologica relazionale diviene imprescindibile: l’essere umano non si definisce solo in termini di istinto, ma come soggetto in relazione, in cui l’incontro con l’altro rappresenta un cammino di crescita reciproca.
    La sessualità, in tale prospettiva, non è un atto isolato, ma la conseguenza di dinamiche di fiducia, comunicazione e riconoscimento reciproco.

    Il rischio del consumismo sessuale precoce

    I dati epidemiologici confermano un abbassamento progressivo dell’età del primo rapporto sessuale (in Italia tra i 15 e i 16 anni, ISTAT 2023). Parallelamente, si registra un aumento di comportamenti a rischio, dal sexting all’esposizione precoce a contenuti pornografici. Questo fenomeno, che potremmo definire consumismo sessuale precoce, veicola un messaggio illusorio: la sessualità come oggetto di mercato e non come incontro esistenziale.
    Tale dinamica produce fragilità psichiche, compromettendo lo sviluppo di una sana capacità di scelta e di elaborazione affettiva.

    La scuola come spazio educativo privilegiato

    La scuola, lungi dall’essere luogo neutro, rappresenta un laboratorio di convivenza e di crescita. L’educazione alla sessualità non può limitarsi a interventi occasionali, ma deve inserirsi in un progetto formativo coerente, capace di integrare dimensioni psicologiche, etiche, corporee e sociali.
    Si tratta di promuovere una pedagogia della responsabilità, dove il corpo non sia ridotto a oggetto, ma riconosciuto come dimensione essenziale della persona, dotata di dignità e potenzialità relazionali.

    Verso una sessualità come linguaggio di vita

    Educare significa restituire ai ragazzi la possibilità di comprendere che la sessualità non è il punto di partenza, bensì l’approdo di una relazione che ha già conosciuto la cura, la fiducia e il rispetto. Solo in questo orizzonte l’atto sessuale perde il carattere consumistico e diviene esperienza di autentica reciprocità.
    L’adolescente che impara a leggere la sessualità come narrazione di sé e dell’altro sarà un adulto più capace di vivere la propria intimità con responsabilità e libertà interiore.

  • Il complesso edipico: genealogia psicoanalitica di un paradigma fondativo

    Il complesso edipico: genealogia psicoanalitica di un paradigma fondativo

    Introduzione

    Il complesso edipico rappresenta una delle strutture cardine della teoria psicoanalitica freudiana e continua a costituire un dispositivo ermeneutico imprescindibile nello studio dello sviluppo psicodinamico infantile. Introdotto da Sigmund Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905) e successivamente rielaborato in scritti più maturi, il concetto assume valenza universale nell’esplicitare i processi attraverso cui il soggetto costruisce la propria identità, la dimensione della legge e il rapporto con la desiderabilità dell’Altro.

    Definizione tecnica

    Il complesso edipico designa l’insieme di fantasie inconsce e di investimenti libidici che il bambino, attorno ai 3-6 anni, rivolge nei confronti del genitore di sesso opposto, vissuto come oggetto privilegiato di amore e desiderio. Parallelamente, il genitore dello stesso sesso viene percepito come rivale e ostacolo, catalizzando sentimenti ambivalenti di ostilità, gelosia e al contempo di identificazione.

    Dal punto di vista tecnico, tale dinamica costituisce la matrice originaria del Super-Io, in quanto l’interiorizzazione della figura genitoriale frustrante o proibente determina la costruzione delle istanze morali e normative che regolano la vita psichica adulta.

    Dimensione simbolica e strutturale

    Il complesso edipico non è riducibile a un mero conflitto pulsionale. Esso si configura piuttosto come nucleo strutturante della soggettività, nella misura in cui introduce il bambino all’ordine simbolico, al riconoscimento del limite e alla necessità della rinuncia pulsionale. Come sottolinea Jacques Lacan, l’Edipo va interpretato non solo come vicenda familiare, bensì come “funzione del Nome-del-Padre”, ossia la possibilità di accesso al linguaggio, alla legge e al desiderio mediato dall’Altro.

    Aspetti evolutivi e clinici

    Lo scioglimento del complesso edipico, che avviene normalmente intorno alla latenza (6-11 anni), rappresenta un passaggio imprescindibile verso l’acquisizione di una identità sessuata stabile e di una più complessa organizzazione relazionale.
    In psicopatologia, fissazioni o regressioni a tale fase possono manifestarsi in diverse configurazioni:

    • nevrosi ossessive, nelle quali la colpa edipica permane come nodo irrisolto;
    • disturbi dell’identità e difficoltà nelle relazioni oggettuali;
    • configurazioni di dipendenza o di rivalità patologica.

    Attualità del concetto

    Nonostante le critiche provenienti da approcci post-freudiani, femministi e neuroscientifici, il concetto mantiene una forza esplicativa significativa. Recenti studi interculturali (Shweder, 2003; Chodorow, 2012) dimostrano come la dinamica edipica si presenti con modulazioni differenti nei vari contesti sociali, ma permanga come struttura simbolica universale nell’organizzazione del desiderio e dell’interdizione.

    Conclusione

    Il complesso edipico, lungi dall’essere un relitto teorico, resta una chiave interpretativa fondamentale per la comprensione del divenire soggettivo, delle dinamiche familiari e delle configurazioni cliniche. La sua attualizzazione nel contesto odierno richiede uno sguardo comparativo e transculturale, capace di integrare i paradigmi psicoanalitici con le neuroscienze affettive e la psicologia dello sviluppo.

  • Perché Agostino è più attuale di Freud

    Perché Agostino è più attuale di Freud

    La confessione come atto di verità

    Nel tempo in cui l’“io” si moltiplica in selfie e diagnosi, dove la confessione ha perso la sua dimensione sacra per farsi narrazione social o seduta di terapia, riscoprire Agostino può non solo sorprendere, ma persino guarire.

    Il vescovo d’Ippona non si limita a raccontare sé stesso: egli interroga l’abisso dell’anima, cercando in ogni battito interiore il riflesso di un Altro. Nelle Confessiones non c’è solo autobiografia, ma una forma radicale di autocoscienza, un’apertura alla luce che scandaglia il cuore più di quanto non faccia l’interpretazione dei sogni.

    Agostino e Freud: due modelli di profondità

    Freud ha aperto le porte dell’inconscio, ma Agostino ha abitato le stanze della coscienza. Il primo cerca le cause nascoste, il secondo cerca il senso. Freud decifra, Agostino ascolta. Entrambi scavano, ma con utensili diversi: lo psicoanalista con la parola analitica, il teologo con il silenzio orante.

    Se Freud ha dato voce ai traumi, Agostino ha dato voce al desiderio che salva. Non è forse questo il nodo cruciale? Oggi la psicologia rischia di fermarsi all’origine del male, mentre Agostino osa chiedere: “Che cosa amo, quando amo il mio Dio?” (Confessioni X,6,8). Una domanda che oltrepassa il passato per orientare il futuro.

    Il cuore inquieto dell’uomo moderno

    Agostino sapeva che non si guarisce solo comprendendo, ma orientando. In un tempo in cui l’analisi spesso si chiude nell’autoreferenzialità dell’“io ferito”, egli offre una via ulteriore: la trascendenza.

    Scrive: “Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (Conf. I,1,1). Un’inquietudine che non cerca solo una spiegazione, ma una casa.

    Freud leggeva i simboli, Agostino li abitava. Il primo era medico dell’inconscio, il secondo pellegrino del cuore.

    Perché Agostino è più attuale

    Oggi abbiamo strumenti diagnostici, terapie brevi, app per la meditazione e per il respiro. Eppure la fame d’interiorità resta. Anzi, cresce. In questo scenario iperanalitico e spesso iperfragile, Agostino parla con forza nuova.

    Perché non offre tecniche, ma uno sguardo verticale.

    Perché non propone la “liberazione dai sintomi”, ma l’integrazione dell’essere.

    Perché non cerca semplicemente la causa del dolore, ma l’origine del senso.

    Agostino non è un’alternativa a Freud: è la sua profondità perduta. La sua introspezione teologica è ciò che manca a una psiche che ha dimenticato l’anima.

  • Sindrome di Tourette: storia, scoperte e applicazioni didattiche

    Sindrome di Tourette: storia, scoperte e applicazioni didattiche

    Introduzione

    La Sindrome di Tourette è un disturbo neuropsichiatrico che affascina e interroga il mondo scientifico da oltre un secolo. Si manifesta con tic motori e vocali che compaiono nell’infanzia e possono persistere, con andamento variabile, nel corso della vita. Ma chi fu lo scopritore di questa sindrome e come la ricerca ha contribuito a comprenderla?

    Chi fu Gilles de la Tourette

    Il nome della sindrome deriva da Georges Gilles de la Tourette (1857–1904), neurologo francese e allievo di Jean-Martin Charcot alla Salpêtrière di Parigi.

    Nel 1885 pubblicò uno studio pionieristico su 9 pazienti che presentavano tic involontari, ecolalia (ripetizione di parole), coprolalia (uso di termini osceni o socialmente inappropriati) e andamento cronico della sintomatologia.

    Il suo maestro, Charcot, decise di chiamare questo insieme di disturbi “malattia di Gilles de la Tourette” in onore del giovane studioso.

    Precedenti storici

    Già prima del 1885, alcuni casi erano stati documentati. Ad esempio:

    • Jean Itard (1825) descrisse la “Marchesa di Dampierre”, una donna con tic e imprecazioni verbali.
    • Tuttavia, fu Tourette a sistematizzare i sintomi e a definirne una cornice clinica chiara.

    Evoluzione delle conoscenze

    Negli anni successivi, la comprensione della sindrome è cambiata profondamente:

    • Oggi sappiamo che si tratta di un disturbo neurobiologico con forte componente genetica, non di una malattia psichiatrica pura.
    • È spesso associata a Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD), Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) e altre condizioni del neurosviluppo.
    • Le ricerche di neuroimaging hanno evidenziato alterazioni nei circuiti dopaminergici dei gangli della base.

    Tourette e scuola: sfide e inclusione

    Dal punto di vista didattico, la sindrome può generare incomprensioni e stigmatizzazione. Gli insegnanti possono trovarsi disorientati di fronte a tic improvvisi o espressioni verbali fuori contesto.

    È fondamentale:

    • Sensibilizzare la classe per ridurre lo stigma.
    • Offrire strategie inclusive, come tempi più flessibili per le prove scritte o pause durante le attività.
    • Creare un ambiente accogliente, evitando punizioni per comportamenti involontari.

    Alcuni progetti pilota in Italia e in Europa hanno mostrato come la psicoeducazione rivolta a docenti e compagni riduca significativamente i livelli di isolamento degli studenti con Tourette.

    Conclusione

    La Sindrome di Tourette, da “curiosità clinica” descritta nel XIX secolo, è oggi riconosciuta come un disturbo del neurosviluppo complesso, che richiede interventi mirati non solo sul piano clinico ma anche educativo.

    Ricordare il lavoro pionieristico di Gilles de la Tourette ci aiuta a comprendere quanto la scienza e la scuola debbano camminare insieme per promuovere inclusione e benessere.

  • Nostalgia: il dolore dolce della memoria

    Nostalgia: il dolore dolce della memoria

    La clinica di un’emozione che attraversa i secoli.

    Che cos’è la nostalgia?

    La nostalgia è un’emozione complessa, un intreccio di dolore e desiderio che accompagna l’essere umano sin dall’antichità. Il termine fu introdotto nel 1688 dal medico alsaziano Johannes Hofer, che la descrisse come una vera e propria malattia dei soldati svizzeri lontani da casa. Deriva dal greco nóstos (ritorno) e álgos (dolore): “dolore per il ritorno”.

    All’epoca era considerata una sindrome clinica caratterizzata da malinconia, insonnia e perdita di appetito. Oggi non compare più nei manuali diagnostici come il DSM-5 o l’ICD-11, ma resta un’esperienza psicologica di grande interesse.

    Evoluzione clinica e storica

    Nel corso dei secoli la nostalgia ha mutato la sua collocazione:

    • XVII-XVIII secolo: malattia dei migranti, degli studenti e dei soldati.
    • XIX secolo: assimilata alla malinconia e ai disturbi depressivi.
    • XX-XXI secolo: considerata emozione universale, non patologica ma ambivalente.

    Come ricorda lo psichiatra americano Clay Routledge, “la nostalgia è un ponte che unisce passato, presente e futuro, dando continuità al senso del Sé”.

    Cosa significa provare nostalgia

    Clinicamente e psicologicamente, la nostalgia comporta:

    • Dolore per l’assenza: la mancanza di luoghi, persone o tempi perduti.
    • Desiderio di ritorno: il sogno di rivivere un contesto ormai passato.
    • Funzione identitaria: il ricordo nostalgico aiuta a sentirsi radicati, rafforza la continuità della propria storia.

    Gli studi di Wildschut e Sedikides (2006) hanno evidenziato che la nostalgia può avere anche un ruolo positivo: favorisce la resilienza, incrementa l’autostima e riduce la solitudine.

    Nostalgia tra dolore e risorsa

    Se nel passato era letta come un limite, oggi la nostalgia viene vista anche come risorsa psicologica. Lungi dall’essere un ostacolo, può trasformarsi in:

    • ancoraggio affettivo, quando le relazioni odierne sono fragili;
    • stimolo creativo, come mostrano letteratura, arte e musica;
    • strumento di resilienza, capace di ridare senso nei momenti di crisi.

    Conclusione

    Provare nostalgia significa dunque sperimentare la dolceamara tensione tra assenza e memoria. È il dolore del tempo che scorre, ma anche la capacità dell’anima di custodire ciò che ci ha reso vivi.

    Come scrive Milan Kundera: “La nostalgia non è il desiderio di ritornare, ma di ritrovare ciò che ha dato senso alla vita.”

  • Ghosting: la scomparsa digitale che lascia cicatrici emotive

    Ghosting: la scomparsa digitale che lascia cicatrici emotive

    Introduzione

    Nel lessico delle relazioni contemporanee il termine ghosting è ormai entrato a pieno titolo. Esso descrive l’interruzione improvvisa e ingiustificata di un rapporto – sentimentale, amicale o professionale – attraverso il silenzio totale. Nel contesto delle relazioni digitali, dove la comunicazione è istantanea e continua, il ghosting diventa una ferita invisibile che colpisce la psiche in profondità.

    Il ghosting come trauma relazionale

    Il ghosting non è soltanto un atto di sottrazione comunicativa: rappresenta un trauma relazionale. La persona che lo subisce sperimenta un dolore simile all’abbandono improvviso, con vissuti di rifiuto e svalutazione. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Social and Personal Relationships (2021), il 65% degli adulti under 30 ha sperimentato almeno una volta il ghosting in relazioni affettive. L’effetto psicologico più frequente è la riduzione dell’autostima, accompagnata da ansia anticipatoria nei successivi legami.

    Dinamiche psicologiche

    Per chi pratica il ghosting, il silenzio non è sempre segno di indifferenza: spesso nasconde incapacità di sostenere il conflitto, difficoltà a gestire la colpa o tratti di evitamento tipici di personalità insicure. Per chi lo subisce, invece, il non detto alimenta la ruminazione mentale e la ricerca ossessiva di spiegazioni. Questo circolo vizioso genera sofferenza, come confermato da ricerche condotte dall’American Psychological Association (2022), che evidenziano come l’ambiguità dell’abbandono digitale provochi attivazioni cerebrali simili a quelle del dolore fisico.

    Ghosting e psicologia digitale

    Nella psicologia digitale il ghosting viene interpretato come una forma di “comunicazione zero” che sfrutta le potenzialità tecnologiche per evitare la responsabilità emotiva. In un mondo dove il “visualizzato” equivale a una risposta, l’assenza diventa una dichiarazione crudele. Non a caso il fenomeno è particolarmente diffuso tra adolescenti e giovani adulti, categorie più vulnerabili alla pressione relazionale dei social.

    Come affrontarlo

    Affrontare il ghosting significa rielaborare il senso di perdita, accettando che la mancanza di spiegazioni non dipende da un proprio difetto intrinseco.

    • Psicoeducazione: comprendere le dinamiche relazionali per ridurre il senso di colpa.
    • Sostegno psicologico: favorire percorsi di rielaborazione emotiva per spezzare il circolo della ruminazione.
    • Resilienza digitale: imparare a costruire confini e strategie di autoregolazione nelle relazioni online.

    Conclusione

    Il ghosting, seppur “silenzioso”, rappresenta una forma di violenza relazionale sottile, che richiede consapevolezza e strumenti psicologici per essere superata. Le cicatrici invisibili che lascia insegnano che il silenzio non sempre è neutro: può essere il segno più tagliente del nostro tempo digitale.

  • Il chewing gum: tra ribellione, psicologia e cultura pop

    Il chewing gum: tra ribellione, psicologia e cultura pop

    Il chewing gum non è soltanto un passatempo zuccherato: è un oggetto culturale, uno strumento psicologico, un piccolo atto quotidiano che attraversa secoli e simboli. La sua storia, infatti, affonda le radici nelle antiche civiltà, ma assume un significato del tutto nuovo nel Novecento, fino a diventare emblema di gioventù ribelle, consumismo e talvolta di maleducazione.

    Origini storiche: dalle resine naturali all’industria

    Masticare resine vegetali è un’usanza antichissima: i Maya utilizzavano la chicle, derivata dall’albero della sapotiglia, mentre in Grecia si masticava la resina di lentisco. Tuttavia, il vero salto commerciale si ebbe nell’Ottocento negli Stati Uniti, con l’introduzione del chewing gum industriale, inizialmente venduto come rimedio digestivo.

    Negli anni ’50 e ’60, con l’avvento della cultura pop americana, la gomma da masticare si trasformò in un simbolo di gioventù, ribellione e modernità, complici il cinema e la pubblicità. Pensiamo a James Dean o ai ragazzi dei musical: il gesto del masticare divenne un segno identitario.

    Risvolti psicologici: tra ansia e auto-regolazione

    Dal punto di vista psicologico, masticare gomma può essere interpretato come una forma di auto-consolazione. Studi recenti hanno evidenziato che il chewing gum può:

    • ridurre temporaneamente lo stress e l’ansia (Smith, 2010);
    • migliorare la concentrazione e la memoria a breve termine (Allen & Smith, 2012);
    • favorire un senso di rilassamento, grazie alla ripetitività del gesto.

    La gomma da masticare, insomma, agisce come una sorta di “tic funzionale”: un piccolo rito quotidiano che permette di scaricare tensioni in maniera socialmente accettabile, anche se non sempre ben vista.

    Ribellione e cultura pop

    Negli anni della contestazione giovanile, masticare una gomma con aria svogliata divenne un modo di esprimere sfida all’autorità. Il chewing gum fu percepito dagli adulti come un segno di maleducazione: simbolo di indisciplina a scuola, di irriverenza verso i valori tradizionali.

    Ancora oggi, insegnanti e genitori associano il gesto al disimpegno, mentre per gli adolescenti può rappresentare un segnale di appartenenza a un gruppo, un modo di marcare differenza. È il linguaggio silenzioso della ribellione quotidiana.

    Educazione o maleducazione?

    La gomma da masticare resta ambigua: da un lato strumento di concentrazione e sollievo dallo stress, dall’altro segno di trasgressione sottile e mancanza di rispetto nei contesti formali (scuola, chiesa, lavoro).

    L’educazione non consiste nel proibire in assoluto, ma nell’insegnare quando e dove masticare: un atto che può essere neutro, oppure disturbante e maleducato. La differenza la fa il contesto.

    Conclusione: un piccolo oggetto, una grande metafora

    Il chewing gum è più di un dolce: è un fenomeno psicologico e culturale che continua a oscillare tra necessità, piacere e ribellione. Da simbolo pop a strumento di autoregolazione, resta una metafora dei nostri tempi: sempre in bilico tra libertà individuale e regole sociali.

  • Quando i figli diventano specchio delle ferite di coppia

    Quando i figli diventano specchio delle ferite di coppia

    L’equilibrio tra coniugalità e genitorialità secondo Minuchin

    In psicologia familiare, il termine invischiamento – introdotto da Salvador Minuchin – descrive una condizione in cui i confini tra i membri della famiglia risultano sfumati, rendendo difficile la distinzione tra ruoli e identità.
    In queste situazioni, il legame genitori-figli diventa eccessivamente stretto e sostitutivo di quello coniugale.

    La lezione clinica è chiara: senza un rapporto di coppia solido e differenziato, la genitorialità rischia di trasformarsi in terreno fragile, in cui i figli vengono caricati delle tensioni irrisolte degli adulti.

    I figli come sintomo di un legame ferito

    Gli studi sistemici mostrano che i bambini e gli adolescenti non sono mai portatori di un disagio isolato: essi riflettono, come uno specchio, la qualità dei legami che li hanno generati.

    • Un figlio con ansia da separazione spesso manifesta la paura non detta della coppia di lasciarsi.
    • Un’adolescente che si chiude in se stessa può rappresentare la distanza emotiva tra i genitori.
    • Una figlia che si pone come confidente del padre o della madre diventa custode inconsapevole di ferite coniugali.

    Come scrive Minuchin: «Il sintomo individuale è l’eco di una relazione ferita» (1974).

    Invecchiamento e nuove fragilità

    Le dinamiche invischianti non scompaiono con l’età, anzi: durante l’invecchiamento emergono in modo più evidente. Una coppia che non ha coltivato il proprio rapporto rischia di vivere la vecchiaia come solitudine a due, rifugiandosi nei figli adulti.
    Al contrario, una coniugalità ben custodita permette di trasformare la terza età in una stagione di intimità rinnovata, memoria condivisa e trasmissione generativa.

    Psicologia familiare: il compito della cura

    Il lavoro dello psicologo familiare si concentra nel restituire alla coppia e alla famiglia confini chiari e ruoli sani. Gli obiettivi principali sono:

    • differenziare il legame coniugale da quello genitoriale;
    • liberare i figli dal peso delle fratture adulte;
    • ricostruire uno spazio affettivo che nutra tutti i membri senza invischiarli.

    Solo così i figli non saranno più sintomo di una ferita, ma testimoni di una relazione integra e generativa.

    Conclusione

    La famiglia, per restare viva e vitale, deve saper coltivare legami forti ma non invischianticonfini chiari ma non rigidiaffetto intenso ma non totalizzante.
    In questo equilibrio, i figli crescono liberi, e i genitori scoprono che l’amore coniugale è la radice che sostiene ogni altra relazione.

  • Giuda Iscariota: il traditore o l’uomo spezzato?

    Giuda Iscariota: il traditore o l’uomo spezzato?

    L’enigma dell’uomo più discusso della storia

    Chi era davvero Giuda Iscariota, l’apostolo che consegnò Gesù? Traditore, vittima, capro espiatorio? La sua figura continua ad affascinare psicologi, filosofi, artisti e teologi. Da Dante a Dostoevskij, fino a Borges, Giuda rimane il volto oscuro della storia cristiana, “il condannato dall’umanità”.

    Profilo psicologico di Giuda

    La psicologia moderna legge in Giuda una personalità lacerata da profonde tensioni. Da un lato l’idealismo politico e religioso, dall’altro la delusione per un Messia che non rispondeva alle attese.
    Il tradimento può essere interpretato come una forma estrema di dissonanza cognitiva: amare e odiare, seguire e distruggere, sperare e disperarsi.
    Alcuni clinici ipotizzano tratti borderline: incapacità di reggere la frustrazione, oscillazione tra idealizzazione e svalutazione, esplosioni impulsive.

    Dimensione psichiatrica: il peso della colpa

    Il suicidio di Giuda, narrato nei Vangeli e ripreso nel libro degli Atti con il riferimento al campo di sangue (Akeldamà), evidenzia un quadro di verosimile depressione maggiore con colpa persecutoria.
    Il gesto non libera: lo precipita nell’abisso dell’auto-condanna. In termini clinici, Giuda rappresenta l’archetipo dell’atto impulsivo irreversibile, dove alla rabbia subentra un dolore insopportabile, senza possibilità di rielaborazione.

    Antropologia del tradimento: il capro espiatorio

    Per l’antropologia Giuda diventa il capro espiatorio universale. René Girard ricorda che “la violenza si placa quando trova una vittima”. L’umanità ha bisogno di incarnare il male in un volto riconoscibile, e Giuda diventa quel volto.
    Eppure, dietro il “traditore” c’è un uomo che ha viaggiato accanto a Cristo, ascoltato le parabole, condiviso il pane. Un uomo che ha baciato il Maestro con un gesto che ancora scuote la storia.

    Giuda nell’arte e nella letteratura

    La figura di Giuda ha attraversato secoli di interpretazioni.

    • Dante Alighieri lo colloca nell’Inferno, nel cuore ghiacciato della Giudecca, dilaniato da Lucifero stesso.
    • Fëdor Dostoevskij lo vede come simbolo della libertà tragica, capace di scegliere anche contro il bene.
    • Jorge Luis Borges scrive che “nessuno è tanto straniero a noi quanto colui che crediamo irrimediabilmente perduto”, aprendo alla possibilità di vedere Giuda come specchio della nostra stessa fragilità.

    Il condannato dall’umanità

    Giuda Iscariota è il volto ambiguo dell’uomo spezzato, che incarna insieme il peccato e la disperazione. Non è solo “il traditore”, ma l’archetipo della nostra capacità di cedere al male pur amando il bene.
    Guardarlo non significa giustificarlo, ma riconoscere che ogni essere umano porta in sé il rischio del proprio Akeldamà.

  • “Conflitti di coppia: quando l’amore diventa un deserto emotivo”

    “Conflitti di coppia: quando l’amore diventa un deserto emotivo”

    “Meglio il deserto che la lite? La Bibbia e la psicologia spiegano”.

    “Meglio abitare nel deserto che con una donna litigiosa e irascibile” (Proverbi 21,19).

    Questo proverbio biblico, apparentemente duro e intriso di un contesto patriarcale, porta in sé una verità universale: la conflittualità persistente in una relazione è un veleno lento.
    Se nella tradizione sapienziale ebraica l’immagine del deserto evocava isolamento e privazione, qui diventa paradossalmente preferibile rispetto alla convivenza con una persona — moglie o marito che sia — la cui costante ostilità logora la serenità domestica.

    Il conflitto cronico e il danno psicologico

    La psicologia delle relazioni insegna che il conflitto non è di per sé patologico: può persino essere un motore di crescita, se gestito in modo costruttivo. Tuttavia, quando la tensione diventa cronica, la coppia entra in un ciclo di difesa–attacco che altera profondamente il clima emotivo.
    John Gottman, uno dei massimi studiosi della relazione di coppia, ha evidenziato che il disprezzo, la critica costante e la mancanza di ascolto sono i principali predittori della rottura. A lungo andare, la convivenza in un ambiente così carico di frustrazione può condurre a disturbi d’ansia, somatizzazioni e perfino depressione.

    La radice emotiva della litigiosità

    Spesso, dietro l’irascibilità si celano ferite antiche: stili di attaccamento insicuri, vissuti di abbandono, paure di perdita. L’aggressività verbale può essere il linguaggio distorto di un bisogno di vicinanza, espresso però in forma di controllo o accusa.
    Un “deserto” emotivo può crearsi anche dentro la relazione stessa, quando il partner si sente invisibile o non riconosciuto.

    Dal proverbio alla terapia: uscire dal deserto interiore

    L’uscita non è quasi mai la fuga fisica — purtroppo, come spesso accade nella realtà, molte coppie restano insieme in un clima tossico. Piuttosto, occorre un lavoro consapevole:

    • Comunicazione non violenta, per trasformare accuse in richieste chiare e rispettose.
    • Psicoterapia di coppia, per ricostruire fiducia e sicurezza affettiva.
    • Autoconsapevolezza emotiva, perché la pace interiore è la premessa per una pace condivisa.

    Il proverbio ci ammonisce con forza: vivere nel “deserto” è una condizione dura, ma a volte il silenzio arido è meno tossico del rumore costante del conflitto.
    La sfida, oggi, è trasformare quel deserto in un giardino, lavorando sulle radici invisibili della litigiosità.