Categoria: Psicologia

  • Fantasmi nel sangue: quando il passato plasma il presente

    Fantasmi nel sangue: quando il passato plasma il presente

    Eredità invisibili: la trasmissione transgenerazionale del trauma.

    Un trauma non si esaurisce con chi lo vive. In molti casi, esso si incarna nel silenzio familiare, nelle emozioni indicibili, nei gesti che si ripetono come un’eco muta. La psicologia contemporanea ha ormai documentato con rigore che i traumi possono attraversare le generazioni, incidendo profondamente sulla salute mentale e sullo sviluppo psico-affettivo della prole.

    La scoperta dell’epigenetica del trauma

    L’epigenetica ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’ereditarietà. Non solo i geni, ma le esperienze vissute – soprattutto quelle traumatiche – possono modificare l’espressione genica e queste modificazioni possono essere trasmesse alla generazione successiva.

    Uno degli studi più noti è quello condotto sui sopravvissuti all’Olocausto: la ricerca del Mount Sinai Hospital di New York (Yehuda et al., 2016) ha mostrato come i figli di sopravvissuti presentino alterazioni epigenetiche nei geni legati alla risposta allo stress, in particolare al gene FKBP5, coinvolto nella regolazione del cortisolo.

    Quando il dolore si eredita: clinica e osservazione

    Molti pazienti portano dentro di sé tracce di eventi che non hanno vissuto in prima persona, ma che risuonano nella storia familiare: guerre, migrazioni forzate, lutti, abusi. La clinica parla di “memorie non elaborate”, che possono emergere sotto forma di ansia immotivata, senso di colpa, paura del mondo o difficoltà relazionali.

    Il noto psicoanalista Nicolas Abraham parlava di “cripta psichica”, una sorta di sepolcro interiore dove si depositano segreti e dolori indicibili che il discendente finisce per incarnare inconsciamente.

    Come si trasmette un trauma?

    • Modelli relazionali: i genitori traumatizzati possono manifestare forme di attaccamento disorganizzato, trasmettendo insicurezza e imprevedibilità affettiva.
    • Narrazioni spezzate: ciò che non è stato detto, elaborato o raccontato crea buchi neri nella biografia familiare.
    • Epigenetica: come accennato, l’esposizione a eventi traumatici modifica l’espressione genica, con effetti sui sistemi neuroendocrini e comportamentali.
    • Meccanismi proiettivi: il figlio viene investito di aspettative, paure o ideali che non gli appartengono, ma che riflettono il trauma rimosso del genitore.

    E in Italia? Traumi collettivi e familiari

    Nel contesto italiano, eventi storici come la Seconda Guerra Mondiale, l’emigrazione di massa, il terrorismo degli anni di piombo e i terremoti hanno generato traumi collettivi non elaborati. In molte famiglie sarde, ad esempio, il trauma migratorio ha inciso su intere generazioni, spesso nel silenzio o nella rimozione.

    Un recente studio dell’Università di Torino (2023) ha evidenziato che i figli di migranti italiani degli anni ’50-’70 presentano maggiore incidenza di sintomi depressivi e ansiosi, anche in assenza di eventi traumatici diretti, suggerendo l’effetto a lungo termine delle condizioni stressanti vissute dai genitori.

    La cura: dalla consapevolezza alla liberazione

    L’elaborazione transgenerazionale del trauma avviene attraverso il riconoscimento, la narrazione e la ristrutturazione delle memorie familiari. Terapie come l’EMDR, l’approccio sistemico-relazionale, la psicogenealogia (Anne Ancelin Schützenberger) o la psicoterapia psicodinamica possono aiutare a “spezzare il cerchio”.

    Come sottolinea la psicoanalista Françoise Davoine:

    “I traumi che non parlano gridano da una generazione all’altra finché qualcuno non li ascolta.”

  • PAURA: L’OMBRA CHE CI ABITA

    PAURA: L’OMBRA CHE CI ABITA

    Analisi antropologica, psicologica e sociale di un’emozione primordiale.

    DOVE NASCE LA PAURA
    La paura è un’emozione primaria e automatica che ha una funzione evolutiva di sopravvivenza. A livello neurobiologico, essa origina principalmente nell’amigdala, una struttura sottocorticale del sistema limbico, che si attiva in presenza (o previsione) di un pericolo.
    L’amigdala riceve segnali sensoriali grezzi dal talamo e può reagire prima ancora che la corteccia prefrontale — sede del pensiero razionale — abbia tempo di valutare la situazione. Questo meccanismo è stato confermato da Joseph LeDoux in numerosi studi di neuroscienze affettive, secondo cui la via “bassa” della paura consente una reazione immediata, ma spesso imprecisa.

    Egli sostiene che “la paura non ha bisogno del pensiero per nascere: è sufficiente il sospetto.”


    Uno studio della University of Wisconsin (2013) ha dimostrato che la stimolazione artificiale dell’amigdala nei ratti induceva una risposta di congelamento anche in assenza di minaccia reale, evidenziando come la paura sia neurobiologicamente automatica e difensiva.

    PERCHÉ PROVIAMO PAURA?

    Dal punto di vista evoluzionistico, la paura è servita a evitare predatori, pericoli ambientali, malattie e minacce sociali. Oggi, i pericoli fisici sono meno frequenti, ma le paure moderne si sono trasformate in paure sociali, economiche, esistenziali.

    Nel campo della psicologia cognitiva, la paura è legata a pensieri distorti, anticipatori o catastrofici. È ciò che alimenta i disturbi d’ansia, le fobie e gli attacchi di panico.

    Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2022)una persona su otto nel mondo soffre di disturbi d’ansia. Tra i giovani europei, l’ansia sociale colpisce circa il 20% degli adolescenti (Eurofound, 

    2023).

    PAURA E SOCIETÀ: COSTRUTTO CULTURALE E POLITICO

    In chiave sociologica, la paura è alimentata da un clima di incertezza sistemica. Viviamo in una società del rischio(Beck), in cui l’iper-esposizione ai media e la precarietà diffusa amplificano la percezione del pericolo.

    La paura sociale è anche un dispositivo di controllo: in tempi di crisi, può essere strumentalizzata da politica, economia e comunicazione. La pandemia da COVID-19 ha rappresentato un esempio paradigmatico, generando un aumento globale dei livelli di ansia e fobia sociale, come documentato in una meta-analisi del 2021 pubblicata su The Lancet.

    ANTROPOLOGIA DELLA PAURA

    Dal punto di vista antropologico, la paura è un’emozione universale ma codificata in modo diverso nelle varie culture. In molte società tradizionali, il timore non si concentra su eventi concreti, ma su entità invisibili, tabù, riti non compiuti.

    L’antropologa Mary Douglas ha osservato che “il pericolo è attribuito a ciò che viola l’ordine simbolico”, suggerendo che la paura nasce anche dalla perdita di senso e dal timore dell’anomalia culturale.


    PERCHÉ LA PAURA CI FA VIVERE MALE?

    La paura acuta è utile. Ma se cronicizzata, diventa disfunzionale. L’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) porta a un rilascio prolungato di cortisolo, che in eccesso può danneggiare l’ippocampo, alterare la memoria e abbassare la soglia di tolleranza allo stress (McEwen, 2007).

    Inoltre, la paura costante limita la libertà comportamentale e inibisce la capacità decisionale. In adolescenza, per esempio, può inibire la sperimentazione, la socializzazione e l’autonomia.

    STRUMENTI PER FRONTEGGIARE LA PAURA

    🔹 1. Psicoterapia e ristrutturazione cognitiva

    La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) aiuta a identificare e correggere le distorsioni cognitive che alimentano la paura. Gli studi di Aaron Beck e, più recentemente, quelli di David Clark e Paul Salkovskis hanno dimostrato un tasso di efficacia superiore al 70% nel trattamento delle fobie e dei disturbi d’ansia.

    🔹 2. Tecniche di regolazione fisiologica

    Pratiche come la respirazione diaframmatica, la coerenza cardiaca e la mindfulness-based stress reduction (MBSR)(Kabat-Zinn) mostrano effetti benefici sulla regolazione dell’attività amigdaloide.

    🔹 3. Relazioni protettive

    Il sostegno sociale, come dimostrato da uno studio longitudinale su oltre 5.000 individui (Harvard Study of Adult Development), riduce l’impatto delle paure croniche sul benessere psichico.

    🔹 4. Educazione emotiva

    L’alfabetizzazione emotiva nei contesti educativi è un antidoto potente. In Italia, i progetti MIUR legati alla prevenzione del disagio giovanile includono la gestione della paura tra le competenze socio-emotive.

    🔹 5. Esposizione graduale (Desensibilizzazione)

    Tecniche come l’Exposure Therapy e l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) permettono di disinnescare le memorie traumatiche, favorendo una rielaborazione sicura del ricordo.

    CONCLUSIONI

    La paura è una funzione essenziale dell’organismo umano. Tuttavia, nel contesto ipermoderno, rischia di diventare uno stato psichico pervasivo più che un’emozione momentanea. Comprendere dove nasce, come si manifesta e con quali strumenti affrontarla è oggi un’urgenza educativa, clinica e sociale.

    Solo così potremo evitare che un meccanismo di difesa si trasformi in una trappola esistenziale.

  • Diamante o carbone

    Diamante o carbone

    La forma che decidiamo di dare alla luce

    Nel cuore delle scelte umane vibra una tensione silenziosa, una dialettica tra possibilità e rinuncia, tra luce e materia, tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere. Pavel Florenskij, genio dell’intelligenza mistica e scientifica, ci ha insegnato che la forma è luce che si trattiene, che prende corpo. In uno dei suoi passaggi più folgoranti, suggerisce che la verità non è data, ma formata: come un raggio che attraversa un prisma, si distingue in mille sfumature a seconda dell’angolo da cui lo si osserva.

    In questa lente, ogni nostra decisione diventa il punto focale in cui la luce si condensa. E a ben guardare, ogni scelta è una metamorfosi silenziosa: potremmo restare carbone, o farci diamante. Non per valore intrinseco, ma per pressione, per pazienza, per interiorità.

    Il peso delle decisioni: la geologia dell’anima

    Il carbone e il diamante, come noto, condividono la stessa origine chimica: entrambi sono forme allotropiche del carbonio. Ma ciò che li distingue è l’intensità delle condizioni cui sono sottoposti. Il carbone è materia che ha scelto il riparo, il nascondimento. Il diamante, al contrario, è il risultato di una compressione estenuante, di un buio millenario, di una fedeltà a sé stessi nonostante tutto.

    Così anche le scelte umane si configurano non tanto come atti volitivi episodici, ma come sedimentazioni, strati di coscienza accumulati nel tempo, decisioni che assumono forma. Ogni rinuncia, ogni passo in avanti, ogni sosta è una firma esistenziale.

    L’angolo da cui guardi fa la luce che vedi

    Florenskij amava dire che l’occhio interiore non vede la realtà, ma una realtà filtrata dalla disposizione del cuore. Come il prisma scompone la luce, così ogni nostro “sguardo” mentale può trasformare un problema in occasione, una sconfitta in radice di sapienza. Non è un ingenuo ottimismo, ma un realismo spirituale: il mondo non cambia, cambiamo noi nel guardarlo.

    La depressione, la crisi, il lutto, l’abbandono – tutte queste sono esperienze che possono generare carbone o, in certi casi, produrre diamante. Non per automatismo, ma per scelta della forma da dare a ciò che ci accade. Il dolore, come insegna anche Viktor Frankl, può essere trasformato in significato. Ma solo se scelgo di farlo.

    Psicologia delle forme: come modelliamo il senso

    Nella psicologia esistenziale, ogni scelta è un atto creativo. Il soggetto non subisce il mondo, lo interpreta, lo forma, lo colora con la propria struttura di senso. È questa l’eredità più profonda di Florenskij: la verità non è un dato neutro, è una presenza che si plasma nella coscienza attraverso le forme che le diamo – etiche, estetiche, spirituali.

    Dare forma al dolore, alla gioia, alla perdita, alla colpa, significa non lasciarli liquefare nel caos del non senso. È come scolpire la luce. Alcuni si pietrificano nelle loro esperienze; altri, con mani tremanti, le trasformano in cattedrali invisibili.

    Diamante e carbone: due modi di attraversare il buio

    La vera domanda non è “Cosa mi è successo?”, ma “Cosa ho deciso di fare con ciò che mi è successo?”. In questo senso, non esistono davvero traumi che non possano essere integrati, né felicità che durino senza forma. Ogni esistenza si gioca nella costanza con cui scegliamo se rimanere materia opaca o farci trasparenza solida.

    Diamante e carbone non sono che due facce della stessa possibilità: la nostra. Entrambi vivono nel sottosuolo della nostra anima. Ma solo uno riflette la luce, perché ha deciso di attraversarla.

    Conclusione: la scelta come opera d’arte

    Ogni vita è una scultura. A volte levighiamo il dolore, altre volte lo abbandoniamo grezzo. Ma nulla è inutile, se lo scegliamo davvero. In un tempo dove tutto sembra deciso dal caso o dall’impulso, riscoprire la sacralità della scelta diventa un atto rivoluzionario.

    Siamo ciò che decidiamo di diventare. E ogni nostra decisione è un modo di scolpire la luce.

  • Serie sul bullismo: da ‘Adolescents’ a ‘The Glory’

    Serie sul bullismo: da ‘Adolescents’ a ‘The Glory’

    “The Glory e Adolescents: cosa ci insegnano davvero le serie sul dolore adolescenziale?”

    Da Adolescents a The Glory: lo spettacolo del trauma, l’epica della vendetta

    L’universo delle serie tv contemporanee – e in particolare Adolescents (Francia, 2019) e The Glory (Corea del Sud, 2022-2023) – è diventato un laboratorio narrativo dove si esplora il dolore adolescenziale con una crudezza che a tratti turba, a tratti seduce. Ma cosa accomuna due prodotti tanto distanti per cultura, estetica e registro?

    L’uno, un documentario che accompagna per cinque anni due ragazze nel loro percorso di crescita, è una lente sociologica sul disagio quotidiano. L’altro, una serie di fiction, è un’esplosione stilizzata di violenza psicologica, bullismo estremo e vendetta catartica. Eppure, a ben vedere, Adolescents e The Glory parlano della stessa ferita: la costruzione dell’identità sotto il peso dell’umiliazione e dell’indifferenza adulta.

    Il trauma come architrave narrativa

    In entrambi i casi, il trauma non è solo un tema, ma il vero motore drammaturgico. Non assistiamo semplicemente a una cronaca del dolore adolescenziale, ma alla sua estetizzazione. The Glory, in particolare, trasforma il trauma in un’ossessione ipnotica, rendendolo oggetto di uno sguardo voyeuristico e al tempo stesso catartico. La protagonista, Moon Dong-eun, non chiede pietà: architetta una vendetta chirurgica. E lo spettatore applaude.

    In Adolescents, la vendetta non arriva. Ma resta la stessa sensazione: l’istituzione scolastica è assente, la famiglia spesso inconsapevole o impotente. È l’adolescente a portare il peso del mondo, in solitudine.

    Perché ci attraggono queste storie?

    Queste serie non solo ci intrattengono. Ci parlano. Anzi, ci mettono a nudo. Il successo di The Glory – oltre 437 milioni di ore visualizzate nel mondo (fonte: Netflix, 2023) – mostra quanto la società globale si identifichi nel bisogno di giustizia, anche se privata. Ma ciò che più inquieta è la legittimazione implicita: lo spettatore non condanna la protagonista, parteggia per lei. E in questo, la serie diventa specchio di una società incapace di perdonare, ma abilissima nell’architettare punizioni narrative.

    Adolescents, al contrario, ci chiede di guardare senza filtri. Ci costringe a sopportare il tempo lungo dell’attesa, della trasformazione, dell’inadeguatezza.

    Spunti di riflessione per genitori ed educatori

    1. Il bullismo non è fiction. Le scene estreme di The Glory non sono frutto di pura invenzione: la stessa sceneggiatrice, Kim Eun-sook, ha dichiarato di essersi ispirata a reali episodi di cronaca scolastica sudcoreana. Secondo i dati dell’OECD (2023), il 23% degli studenti in Corea ha subito atti di bullismo fisico o verbale. In Italia, i numeri non sono meno inquietanti: ISTAT 2021 riporta che oltre il 22% degli adolescenti è stato vittima di atti di prevaricazione.
    2. Il silenzio degli adulti. Entrambe le opere denunciano, in modo implicito o esplicito, la latitanza delle figure adulte: genitori distratti, insegnanti inerti, dirigenti scolastici complici. Un dato su cui riflettere seriamente, poiché suggerisce che non esiste trauma giovanile senza corresponsabilità adulta.
    3. Vendetta o giustizia riparativa? L’epica della vendetta affascina, ma educa? Lo spettatore che si identifica nella vendetta rischia di rinunciare alla cultura del perdono e della riparazione. In questo senso, The Glory lancia una sfida etica: possiamo davvero celebrare la giustizia quando somiglia alla vendetta?

    Conclusione: lo schermo come specchio pedagogico

    Nel loro linguaggio visivo e narrativo, Adolescents e The Glory parlano anche agli adulti: ai genitori che non ascoltano, agli insegnanti che non vedono, agli psicologi che arrivano tardi. Ma soprattutto agli educatori – in senso lato – che hanno ancora il compito di costruire contesti in cui l’identità adolescenziale possa svilupparsi senza dover attraversare il deserto dell’umiliazione.

    Guardare queste serie con occhi critici, insieme ai propri figli o studenti, può diventare un’occasione educativa. Purché si abbia il coraggio di porre le domande giuste: chi sono io in questa storia? E cosa avrei fatto se fossi stato lì?

  • Dormire nel letto della mamma in età scolare e adolescenza

    Dormire nel letto della mamma in età scolare e adolescenza

    Quando il lettone diventa rifugio: la parabola del cosleeping prolungato

    Il cosleeping, termine anglosassone che indica la condivisione del letto tra genitore e figlio, è una pratica diffusa in molte culture del mondo. Se nei primi mesi di vita può rappresentare un valido alleato per il legame di attaccamento e per la regolazione sonno-veglia del neonato, la sua persistenza in età scolare e, ancor più, in adolescenza, solleva interrogativi profondi in ambito psicologico e pedagogico.

    Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Developmental & Behavioral Pediatrics (Mileva-Seitz et al., 2016), il cosleeping nei primi due anni di vita non è associato a problematiche comportamentali, ma la sua prolungata estensione può interferire con lo sviluppo dell’autonomia psicologica e affettiva. In un’ottica evolutiva, il letto rappresenta non solo un luogo di riposo, ma anche un simbolo della progressiva separazione-individuazione tra madre e figlio.

    Cosleeping oltre l’infanzia: un segnale o una richiesta d’aiuto?

    Quando il cosleeping si estende oltre i 10-11 anni, spesso siamo di fronte a una regressione comportamentale o a un indicatore di insicurezza ambientale o fragilità emotiva. Non sono rari i casi in cui bambini già autonomi tornino a dormire con i genitori in concomitanza con eventi stressanti: separazioni, lutti, mobbing scolastico o ansia generalizzata.

    La letteratura clinica mostra che in alcuni adolescenti il desiderio di dormire con i genitori può nascondere disturbi d’ansia o una non corretta elaborazione del processo di separazione. Uno studio italiano condotto da Miano e colleghi (2020) ha riscontrato che il 14% degli adolescenti con disturbi del sonno presentava dipendenza da cosleeping, collegata a fattori di iperprotezione materna e ansia da separazione.

    Sviluppo dell’autonomia e funzione pedagogica del distacco

    Secondo la pedagogista e psicoanalista Françoise Dolto, «l’individuazione comincia nel corpo», e il letto rappresenta il primo confine tra il “sé” e l’“altro”. Lasciare che un adolescente condivida abitualmente il letto con un genitore equivale, in termini simbolici, a congelare la separazione necessaria allo sviluppo dell’identità.

    La pedagogia del sonno sottolinea la necessità di aiutare il bambino a elaborare il distacco in modo progressivo, strutturando routine del sonno rassicuranti ma orientate all’autonomia. Questo percorso va sostenuto precocemente: ritardare il distacco può rinforzare vissuti di dipendenza e inadeguatezza.

    Cosa fare se l’adolescente chiede ancora il lettone?

    Non è necessario stigmatizzare o colpevolizzare: l’adolescente che cerca il lettone sta esprimendo un bisogno emotivo, non un capriccio. Ma il bisogno va ascoltato per essere decodificato, non sempre assecondato.

    Interventi consigliati:

    • Esplorare le cause con delicatezza e attenzione clinica (es. paure, stress, lutti).
    • Rafforzare le competenze di autoregolazione affettiva (con psicoterapia o training di mindfulness).
    • Offrire alternative simboliche (come la condivisione di momenti serali, rituali di passaggio o ristrutturazioni dello spazio personale).
    • Attivare un percorso psicopedagogico familiare, che riconsideri i ruoli e le dinamiche affettive all’interno del nucleo.

    Una riflessione clinica

    Il cosleeping non è di per sé patologico, ma può diventarlo se interferisce con i processi di crescita psicologica. Ogni famiglia ha la propria traiettoria, ma l’obiettivo educativo è comune: rendere il figlio capace di stare nel mondo senza la necessità continua della presenza fisica del genitore.

    In definitiva, come affermava Winnicott, «Una madre è buona se riesce a rendersi superflua». E forse il letto vuoto, nella camera accanto, è il primo passo verso la presenza autentica, fatta di fiducia, e non di contiguità.

  • Quando il dolore esplode: il cervello del bullizzato che si vendica

    Quando il dolore esplode: il cervello del bullizzato che si vendica

    Dalla vittimizzazione all’odio agito: cosa accade nella mente di chi non ha mai potuto raccontare il proprio trauma.

    Il ciclo del dolore: quando la vittima diventa carnefice

    Esiste un paradosso spesso ignorato ma ben documentato dalla letteratura scientifica: molti bulli sono stati, in passato, vittime di bullismo. La psicologia evolutiva e le neuroscienze stanno contribuendo a spiegare questo passaggio inquietante da vittima a persecutore, tracciando i circuiti neurofisiologici della vendetta e dell’aggressività reattiva.

    Trauma precoce e plasticità sinaptica

    Secondo numerosi studi, le esperienze traumatiche precoci, come l’essere bullizzati, modificano profondamente l’architettura cerebrale. L’esposizione reiterata a minacce o umiliazioni attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA)in maniera cronica, con ipersecrezione di cortisolo e modifiche nei circuiti dell’amigdala, dell’ippocampo e della corteccia prefrontale.

    Uno studio pionieristico di Teicher et al. (2003) ha evidenziato che i bambini vittime di abusi o esclusione sociale presentano una riduzione del volume dell’ippocampo e un’iperattivazione dell’amigdala, associata a ipervigilanza e iperreattività agli stimoli sociali percepiti come minaccia.

    Il ruolo dell’amigdala e del sistema limbico

    L’amigdala, nucleo chiave nella gestione della paura e dell’aggressività, nei soggetti bullizzati tende a reagire in modo eccessivo a stimoli sociali ambigui, sviluppando una forma di “bias dell’intenzione ostile” (Hostile Attribution Bias), secondo cui anche situazioni neutre vengono interpretate come potenzialmente minacciose (Dodge et al., 1990).

    La corteccia prefrontale mediale, deputata all’inibizione comportamentale e al controllo emotivo, risulta meno efficiente nel modulare queste risposte limbiche, specialmente in soggetti che non hanno avuto esperienze relazionali correttive e contenitive.

    Neurobiologia della vendetta

    Un esperimento condotto da de Quervain et al. (2004) con risonanza magnetica funzionale ha dimostrato che l’atto di vendicarsi attiva il nucleo caudato e il putamen, regioni coinvolte nel circuito della ricompensa dopaminergica. In altre parole, la vendetta può generare piacere neurochimico, come una sorta di compensazione biologica al dolore patito.

    Perché diventano bulli?

    La sofferenza emotiva interiorizzata senza possibilità di elaborazione può convertirsi in aggressività reattiva o proattiva, come forma di regolazione disfunzionale del Sé. I bambini che subiscono bullismo e non ricevono supporto psicologico adeguato sviluppano spesso modelli relazionali basati sul dominio o sulla sottomissione, come descritto dalla teoria dell’attaccamento disorganizzato (Lyons-Ruth, 1999).

    Vendetta come strategia del Sé ferito

    Quando la vittima non viene ascoltata, non trova simbolizzazione del dolore, non riceve protezione né strumenti per elaborare, l’unica via percepita come riscatto può diventare l’agito violento. Non si tratta di “follia improvvisa”, ma della cristallizzazione di un Sé frantumato che restituisce al mondo la propria sofferenza sotto forma di distruzione.

    Questo processo è noto anche in ambito clinico come disforia post-traumatica, e include:

    • depersonalizzazione,
    • distacco affettivo,
    • cinismo difensivo,
    • costruzione di un’identità vendicativa.

    Un caso di cronaca: la vendetta post-traumatica

    Un caso emblematico è quello di Will Cornick, adolescente inglese che nel 2014 uccise la propria insegnante con 7 coltellate. L’analisi forense rivelò una storia di bullismo scolastico prolungato, con conseguente ritiro sociale, ossessione per la vendetta e progressiva disconnessione empatica. La CTU (Criminal Trial Unit) parlò di “aggressività vendicativa con componenti narcisistiche”, alimentata da sentimenti di impotenza e desiderio di riscatto sociale.

    In generale, i casi di cronaca ci mostrano come l’odio, quando incubato nell’infanzia, può diventare una “memoria emotiva tossica” che il cervello conserva come ferita aperta. Se non curata, può diventare agita. Le neuroscienze oggi ci danno gli strumenti per prevedere e prevenire. Spetta a noi usarli.

  • Nel primo bacio, la nascita del cervello affettivo

    Nel primo bacio, la nascita del cervello affettivo

    “Ogni bacio che sfiora la pelle del neonato è una sinapsi che si accende nel cervello dell’amore.”

    Il miracolo sinaptico del primo bacio

    Il bacio che una madre imprime sulla fronte o sulla guancia del neonato subito dopo la nascita non è soltanto un gesto d’affetto: rappresenta, in termini neurobiologici, una miccia che innesca un’elaborazione multisensoriale sofisticata, finalizzata all’attaccamento e alla sopravvivenza. Questo evento attiva circuiti cerebrali ancestrali che modellano il futuro sviluppo affettivo e neurochimico del bambino.

    Attivazione multisensoriale: olfatto, udito, tatto

    Fin dalla nascita, il neonato è dotato di un sistema olfattivo sorprendentemente maturo. Studi su neonati umani e modelli animali (Schaal et al., 2020; Sullivan et al., 2019) hanno dimostrato che già nelle prime ore di vita i neonati preferiscono l’odore del liquido amniotico e del seno materno. L’atto del bacio, spesso accompagnato da vocalizzazioni dolci e familiari, integra stimoli olfattivi e uditivi che si consolidano nel sistema limbico come tracce mnestiche precoci.

    Questa sinergia attiva l’amigdala e l’ippocampo, aree cruciali per la memoria affettiva. Il neonato “riconosce” la madre tramite il suo odore (produzione di feromoni e secrezioni sebacee), il tono della voce (prosodia) e la temperatura cutanea del bacio. È la base di quello che Bowlby definì sistema di attaccamento, oggi supportato da evidenze neurobiologiche.

    La cascata biochimica: ossitocina, dopamina e oppioidi endogeni

    Il bacio materno stimola nel neonato il rilascio di ossitocina, il neuropeptide dell’amore e della connessione, prodotto dall’ipotalamo e secreto dalla neuroipofisi. L’ossitocina è implicata nella regolazione dell’attaccamento sociale, riduce il cortisolo (ormone dello stress) e promuove la regolazione parasimpatica.

    Un esperimento del Karolinska Institutet (Uvnäs-Moberg et al., 2021) ha mostrato come anche nei primissimi momenti post-partum, i livelli di ossitocina aumentino significativamente nei neonati esposti al contatto pelle-a-pelle e al bacio materno. Questo aumento favorisce la sincronizzazione biologica e affettiva tra madre e bambino, fenomeno noto come coregolazione.

    In parallelo, vengono rilasciate dopamina (sistema mesolimbico), implicata nel piacere e nella motivazione, e beta-endorfine, che modulano il dolore e inducono stati di benessere profondo. Il bacio, dunque, diventa il primo “farmaco naturale” capace di regolare la neurofisiologia del neonato.

    Voce e sincronia affettiva: il canto della madre come imprinting acustico

    Le ricerche di Trevarthen e Malloch (2017) sull’intersoggettività primaria dimostrano che la voce materna, specie se cantilenante (infant-directed speech), attiva precocemente la corteccia uditiva del neonato e genera un sincronismo neuronale tra i due cervelli. Il bacio, spesso accompagnato da parole dolci, rafforza questa connessione, amplificando la plasticità sinaptica nella corteccia prefrontale, sede dell’integrazione sociale ed emotiva.

    Plasticità neuronale e memoria implicita

    Il primo bacio non viene “ricordato” in senso autobiografico, ma si imprime nelle memorie implicite del sistema limbico, dando forma a schemi relazionali profondi. Secondo un lavoro di Tronick e Beeghly (2022), queste prime interazioni sensoriali sono le fondamenta delle rappresentazioni interne di sé e dell’altro.

    Nel cervello neonatale, ancora in pieno sviluppo, il contatto affettivo promuove l’espressione genica di fattori neurotrofici come il BDNF (Brain-Derived Neurotrophic Factor), essenziale per la maturazione sinaptica e la connettività cerebrale.

    Conclusione: un gesto arcaico per un futuro neuro-affettivo

    Il primo bacio materno non è soltanto un gesto simbolico: è un atto neurochimico, un imprinting sensoriale e affettivo che modella il cervello del neonato. In quel contatto, si intrecciano biologia ed emozione, in un dialogo silenzioso tra due esseri umani appena uniti dal vincolo della vita.

  • Quando la notte parla: sogni e sonnambulismo

    Quando la notte parla: sogni e sonnambulismo

    Il parlare nel sonno: un enigma della coscienza notturnaParlare nel sonno, o somniloquio, è una parasonnia benigna che colpisce circa il 5% degli adulti e fino al 50% dei bambini (Ohayon et al., 1997). Può manifestarsi come borbottii indistinti, frasi brevi o veri e propri dialoghi coerenti, spesso durante fasi di sonno profondo non-REM (N3), ma anche nel sonno REM, la fase dei sogni vividi.

    Ricordiamo ciò che diciamo nel sonno?

    La risposta è quasi sempre no. Il parlare nel sonno avviene senza coscienza vigile, e raramente il soggetto conserva memoria di quanto pronunciato. Uno studio pubblicato su Sleep Medicine Reviews (2017) ha rilevato che oltre l’85% dei soggetti non ricorda alcun episodio, a conferma della dissociazione tra attività verbale automatica e consapevolezza. Il cervello, in queste fasi, può attivare aree motorie del linguaggio (come Broca) senza coinvolgere la corteccia prefrontale, responsabile della coscienza e dell’autocontrollo.

    Il sonnambulismo: agire senza coscienza

    Diversamente dal somniloquio, il sonnambulismo (sleepwalking) è una parasonnia più complessa, che include movimenti motori coordinati come alzarsi dal letto, camminare, persino mangiare o scrivere. Colpisce fino al 17% dei bambini e il 4% degli adulti (Zadra & Pilon, 2011), soprattutto durante il sonno NREM.

    Chi ne soffre appare sveglio, ma è in realtà in uno stato di coscienza dissociata: il cervello profondo (tronco encefalico, talamo) è attivo, mentre la neocorteccia è inibita. Il soggetto non sogna in quel momento, né ricorda l’episodio al risveglio.

    Tutti sognano? E cosa ricordiamo?

    La neurofisiologia del sogno è un campo in continua evoluzione. Grazie a tecniche di neuroimaging e EEG, oggi sappiamo che tutti sognano, anche se non tutti ricordano.

    Uno studio del 2023 del Lyon Neuroscience Research Center ha identificato un’area chiave: la giunzione temporo-parietale. Nei “grandi ricordatori di sogni”, questa zona mostra maggiore connettività durante il sonno REM (Eichenlaub et al., NeuroImage, 2023). Il ricordo del sogno è dunque legato a una maggiore attività cerebrale nei micro-risveglinotturni.

    Memoria onirica e contenuto

    Il 95% dei sogni viene dimenticato entro 10 minuti dal risveglio (Crick & Mitchison, 1983). Tuttavia, se il sogno è emozionalmente intenso, o se il risveglio avviene durante la fase REM, la probabilità di ricordarlo aumenta. I sogni sono spesso narrativi, simbolici e legati a contenuti emotivamente salienti. Studi recenti (Nir & Tononi, Trends in Cognitive Sciences, 2020) ipotizzano che sognare serva a integrare esperienze emotive nella memoria a lungo termine.

  • Tiroide e adolescenza: il cuore silenzioso dello sviluppo

    Tiroide e adolescenza: il cuore silenzioso dello sviluppo

    Un piccolo organo, un grande impatto

    La ghiandola tiroidea, posta alla base del collo, è una delle registe più silenziose e fondamentali dell’equilibrio psico-fisico in adolescenza. Il suo funzionamento influenza il metabolismo basale, la maturazione cerebrale, l’umore, la termoregolazione, il battito cardiaco e persino il ciclo mestruale. Eppure, i suoi disturbi sono frequentemente misconosciuti o scambiati per “normali” variazioni adolescenziali, col rischio di sottovalutare quadri clinici potenzialmente invalidanti.

    Perché è cruciale monitorare la tiroide negli adolescenti

    L’adolescenza è un periodo di intensa trasformazione: il corpo accelera, la mente si espande, e l’identità si costruisce. In questo contesto, anche lievi disfunzioni tiroidee possono produrre scompensi sistemici:

    • Ipotiroidismo: può manifestarsi con rallentamento del pensiero, stanchezza cronica, aumento ponderale, bradicardia, pelle secca, irregolarità mestruali e scarso rendimento scolastico. Spesso viene confuso con depressione o demotivazione.
    • Ipertiroidismo: si presenta con agitazione, insonnia, tachicardia, calo ponderale, ansia e alterazioni del comportamento. È spesso mal interpretato come semplice iperattività o reattività adolescenziale.

    Secondo uno studio del 2023 pubblicato su The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolismcirca il 3-4% degli adolescenti europei presenta una forma subclinica di disfunzione tiroidea, spesso non diagnosticata. In Italia, una casistica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (2022) ha rilevato che 1 adolescente su 10 con disturbi psicoemotivi presentava alterazioni del TSH senza una diagnosi endocrinologica precedente.

    Meccanismi di interazione e scompenso

    I meccanismi con cui la tiroide influisce sull’organismo sono molteplici e complessi:

    • Asse ipotalamo-ipofisi-tiroide: regola la produzione ormonale e può essere alterato dallo stress psicosociale tipico dell’età evolutiva.
    • Influenza sul SNC: l’ormone tiroideo T3 agisce su recettori neuronali modulando vigilanza, memoria e umore (Rivas & Naranjo, Front. Neurosci., 2021).
    • Interazioni con il ciclo mestruale: l’ipotiroidismo può causare dismenorrea, amenorrea e sindrome dell’ovaio policistico.
    • Ruolo nell’insulino-resistenza: disfunzioni tiroidee sono state correlate a un aumento del rischio di diabete tipo 2 e sindrome metabolica in adolescenti in sovrappeso (Kim et al., Pediatrics, 2020).

    Quando sospettare un disturbo tiroideo

    Ecco alcuni segnali clinici che dovrebbero far sospettare un malfunzionamento tiroideo:

    • Aumento o perdita di peso inspiegabili
    • Astenia persistente
    • Disturbi del sonno
    • Variazioni marcate del tono dell’umore
    • Alterazioni del ciclo mestruale
    • Difficoltà scolastiche improvvise
    • Ritardi nello sviluppo puberale

    Il dosaggio di TSH, FT3, FT4 e anticorpi anti-TPO può offrire indicazioni preziose. In alcuni casi è utile anche l’ecografia tiroidea, soprattutto in presenza di gozzo o familiarità per malattie autoimmuni.

    Strategie di intervento precoce

    Una diagnosi tempestiva consente trattamenti efficaci e non invasivi. Il levotiroxina sodica per l’ipotiroidismo e l’antitiroideo per l’ipertiroidismo possono restituire equilibrio in tempi brevi. In contesto scolastico e familiare, è fondamentale:

    • Educare al riconoscimento dei sintomi
    • Monitorare periodicamente la crescita e lo sviluppo
    • Includere una valutazione endocrinologica nei controlli adolescenti con disturbi psichici inspiegabili
    • Integrare supporto psicologico nei casi in cui il quadro ormonale alteri la sfera emotiva e cognitiva

    Conclusioni

    La tiroide in adolescenza non è un dettaglio secondario, ma un nodo cruciale del benessere globale. Ignorarla significa rischiare di lasciare nell’ombra un possibile snodo clinico che può compromettere non solo la crescita fisica ma anche l’equilibrio psichico e sociale del giovane. Per questo, un semplice controllo può cambiare la traiettoria di una vita.

  • Il senso di colpa: radici psichiche e vie di liberazione

    Il senso di colpa: radici psichiche e vie di liberazione

    Il peso invisibile della colpa

    Il senso di colpa è un’emozione secondaria, complessa e culturalmente modellata, che emerge quando percepiamo di aver violato una norma morale o relazionale significativa. Non si tratta soltanto di un sentimento passeggero, ma di una risposta psichica profonda, che può strutturarsi in forme nevrotiche o persino psicotiche, compromettendo il benessere dell’individuo.

    La psicoanalisi freudiana ne ha fatto uno dei cardini della nevrosi: secondo Freud, la colpa nasce dal conflitto tra Es e Super-Io, tra pulsioni istintuali e istanze morali interiorizzate. Ma anche nella psicologia umanistica di Carl Rogers, essa viene vista come il risultato di uno scarto tra il sé reale e il sé ideale, generando una tensione esistenziale che può cronicizzarsi.

    Quando nasce e cosa genera

    Il senso di colpa può emergere in molteplici situazioni: dopo un’azione trasgressiva, un’omissione, o anche solo per pensieri giudicati inappropriati. In ambito clinico, però, la colpa non sempre è legata a fatti oggettivi: spesso si radica in vissuti precoci, legati a dinamiche familiari disfunzionali. I bambini iper-responsabilizzati, ad esempio, tendono da adulti a sentirsi colpevoli per tutto ciò che non controllano.

    Effetti sulla psiche e sul corpo:

    • Disturbi d’ansia e dell’umore
    • Somatizzazioni (gastralgie, cefalee, insonnia)
    • Bassa autostima e auto-svalutazione
    • Tendenza all’auto-punizione e all’autosabotaggio

    Le forme patologiche della colpa

    In ambito psicopatologico, si parla di colpa depressiva e colpa persecutoria. La prima si lega al rimorso e all’autocritica eccessiva, tipica del disturbo depressivo maggiore. La seconda, invece, emerge in contesti psicotici o nei disturbi di personalità borderline, con vissuti paranoidi, proiezioni e angosce di punizione.

    Inoltre, secondo Heinz Kohut, nella sua prospettiva psicodinamica, esistono colpe narcisistiche, legate alla ferita dell’ideale del sé, e colpe relazionali, legate all’aver deluso figure significative.

    È possibile liberarsene?

    Superare il senso di colpa non significa annullarlo, ma integrarlo. Come afferma la psicoterapeuta e ricercatrice Brené Brown, «la colpa può essere uno strumento evolutivo se la trasformiamo in responsabilità». In questo senso, il lavoro terapeutico è fondamentale:

    Strategie cliniche:

    • Psicoterapia cognitivo-comportamentale: decostruzione dei pensieri disfunzionali legati alla colpa
    • EMDR: rielaborazione di traumi legati a episodi generativi del senso di colpa
    • Terapia psicodinamica: ricostruzione delle dinamiche interiori e familiari che alimentano la colpa

    Accanto a queste, pratiche come la mindfulness, training autogeno, la scrittura terapeutica e i percorsi di auto-compassione (Neff, 2003) aiutano ad accogliere le emozioni senza giudizio, favorendo un’autonarrazione più sana.