Categoria: Scuola

  • Quando il bullismo ritorna: la verità di un padre

    Quando il bullismo ritorna: la verità di un padre

    Quando la vita restituisce ciò che abbiamo seminato

    La storia (vera) di un padre che da ragazzo è stato un bullo e che oggi vede suo figlio, bambino nello spettro autistico, subire bullismo, non è solo una vicenda personale: è uno specchio sociale. È il riflesso doloroso di ciò che gli studi chiamano trasmissione intergenerazionale delle ferite, un fenomeno ben documentato dalla psicologia dello sviluppo (Cicchetti, 2016).

    Eppure, dentro questo cerchio che si richiude, c’è anche la possibilità di trasformare la colpa in cura, la vergogna in responsabilità, la violenza in consapevolezza.

    Da carnefice a testimone del dolore: la memoria che ritorna

    Da adolescente si sentiva forte “per sottrazione”: sottraendo dignità ai più deboli, cercando nel dominio ciò che non trovava dentro di sé. Un meccanismo comune tra i bulli: secondo uno studio dell’Università di Cambridge (2021), molti adolescenti aggressori riportano fragilità emotiva, disregolazione e un senso di vuoto, compensato dall’esercizio del potere.

    A distanza di anni, la vita lo rimette nello stesso scenario, ma con ruoli invertiti.

    Oggi è il padre di un bambino autistico, delicato, sensibile, esploratore del mondo attraverso logiche e dettagli che il resto della classe non comprende. E mentre suo figlio viene escluso, deriso o etichettato, la memoria riaffiora come una ferita antica.

    Trasformare la colpa in cura: un processo possibile

    La storia non offre soluzioni semplici.

    La resilienza non è un bottone da premere.

    Il perdono non è immediato.

    L’amore, però, è un processo.

    Il padre decide di fare ciò che la psicologia definisce riparazione simbolica: utilizzare il proprio passato per proteggere il futuro di suo figlio e dei bambini intorno a lui.

    Diventa vigile, presente, consapevole.

    Trasforma la sua ferita in promessa: non permettere più che l’indifferenza diventi complice della violenza.

    Il cerchio che si chiude può diventare un ponte

    La vicenda di questo padre racconta che il bullismo non è solo un comportamento: è una catena di dolore che attraversa generazioni.

    Ma può essere spezzata.

    Quando la vita ti rimette dall’altra parte, scopri la fragilità, la cura, l’amore. E capisci che essere umani significa assumersi la responsabilità di ciò che siamo stati, per diventare migliori per chi verrà dopo di noi.

  • Chi ama poco non ha mai conosciuto davvero il perdono.

    Chi ama poco non ha mai conosciuto davvero il perdono.

    Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha amato molto; invece colui al quale si perdona poco, ama poco.”

    Il Vangelo secondo Luca racconta l’incontro tra Gesù, un fariseo e una donna definita “peccatrice”.
    Mentre il padrone di casa giudica quella presenza come scandalosa, la donna compie gesti di intensa tenerezza: bagna i piedi di Gesù con le lacrime, li asciuga con i capelli e li profuma.
    Gesù risponde con parole che ribaltano l’ordine morale:
    «Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha amato molto; invece colui al quale si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47).
    Ma in greco il testo dice qualcosa di ancora più sottile. Il termine ὅτι (hoti) non significa “perché”, ma “poiché”, “come segno che”: l’amore non è la causa, ma la conseguenza del perdono.
    Lo confermano gli esegeti Joseph A. FitzmyerFrançois Bovon e Joel B. Green, secondo cui il passo mostra che “il perdono precede l’amore e lo rende possibile” (Anchor Bible, Hermeneia, NICNT).

    L’ordine dell’amore: prima la grazia, poi il gesto

    Il racconto include una parabola: due debitori vengono condonati, uno di più, l’altro di meno. Gesù chiede: «Chi dei due amerà di più?».
    La risposta è chiara: colui al quale è stato condonato di più.

    La donna del Vangelo è dunque il volto umano di chi ha sperimentato il perdono come evento fondante, non come premio.
    Simone il fariseo, invece, rappresenta l’uomo che non si sente mai in debito: corretto, osservante, ma chiuso.
    Chi si crede “giusto” non chiede nulla — e non ama, perché non sa ricevere.

    L’interpretazione dei Padri e la rilettura moderna

    Sant’Agostino commentava:

    “Non fu perdonata perché amò, ma amò perché fu perdonata.”
    (Sermo 99)

    Gregorio Magno, nel VI secolo, identificò questa donna con Maria Maddalena, creando una tradizione che confonde peccato e redenzione.
    Ma la ricerca biblica contemporanea distingue chiaramente le due figure e restituisce alla “donna anonima” di Luca un ruolo simbolico: l’umanità fragile che si lascia toccare.

    La lettura psicologica: l’amore come risposta alla vulnerabilità

    La psicologia del profondo conferma ciò che il testo sacro anticipava: chi ha sperimentato la vergogna, la colpa e poi il perdono sviluppa una forma più matura di amore.
    È la cosiddetta “gratitudine riparativa” (Melanie Klein), che nasce dal riconoscere la propria imperfezione e dal sentire che nonostante tutto si è degni di accoglienza.

    Chi invece vive nella logica del merito, del controllo e della perfezione tende a un amore condizionato, fragile, difensivo.
    Solo chi accetta di “essere stato perdonato” può amare senza difese.

    L’attualità di un messaggio rivoluzionario

    Nel tempo della performance, dove l’autostima è misurata dai risultati e la fragilità è vista come fallimento, il Vangelo di Luca svela un’altra via: la verità di sé è la premessa dell’amore autentico.

    Non è la perfezione che genera amore, ma la consapevolezza di essere stati accolti proprio quando non lo meritavamo.
    L’amore gratuito nasce da lì: dal sentirsi guardati con misericordia.

    In sintesi

    Chi ama poco, forse non ha mai conosciuto davvero il perdono.

    L’amore non è ricompensa per chi è senza colpa,
    ma fioritura per chi ha lasciato cadere la maschera del giusto.

    Solo chi ha sentito sulla pelle la grazia — può trasformare la ferita in carezza.

  • Sofia Corradi e il viaggio come nascita dell’Europa interiore

    Sofia Corradi e il viaggio come nascita dell’Europa interiore

    La “mamma dell’Erasmus” e la pedagogia dello spostamento

    1. La visione di una donna che ha cambiato l’Europa

    Sofia Corradi, scomparsa a Roma il 17 ottobre 2025, non fu soltanto un’accademica o una consulente universitaria. Fu una visionaria dell’educazione.
    Quando negli anni ’60 si vide negare in Italia il riconoscimento del proprio master ottenuto alla Columbia University, comprese che il sapere – se resta chiuso nei confini – non genera civiltà. Da quel rifiuto nacque un’idea che avrebbe attraversato le generazioni: l’Erasmus, divenuto dal 1987 uno dei più potenti strumenti di mobilità culturale al mondo.

    Corradi non costruì solo un programma di studio, ma una pedagogia della mobilità: l’idea che l’apprendimento non si compia soltanto sui libri, ma anche nelle strade, nei caffè, nelle stazioni, nei gesti imprevisti dell’incontro.

    2. Il viaggio come antropologia dell’anima

    Ogni partenza è una forma di nascita. L’Erasmus, più che un progetto accademico, è un rito di passaggio: si lascia la casa, la lingua, l’ordine simbolico della propria quotidianità per entrare in un orizzonte altro.
    L’essere umano, scriveva l’antropologo Victor Turner, cresce nella “liminalità”, in quello spazio di sospensione dove le categorie abituali si dissolvono e si ricostruisce un nuovo sé.

    Lo studente che parte non compie solo un viaggio geografico: attraversa se stesso, affronta la solitudine, l’adattamento, la nostalgia, la libertà.
    È in quella frattura che si apre la possibilità della crescita. Si impara a vivere con meno certezze e più relazioni, si sostituisce il possesso con la scoperta, l’abitudine con l’ascolto.

    3. La relazione come orizzonte educativo

    Incontrare l’altro significa misurarsi con l’imprevisto.
    L’esperienza Erasmus non è solo accumulo di crediti formativi, ma costruzione di capitale umano e relazionale: il giovane impara la grammatica delle culture, decifra l’alterità, scopre che la verità non è monolingue.
    È un atto profondamente educativo, perché educare significa letteralmente “trarre fuori” – tirare l’essere umano fuori dal recinto del già noto, verso ciò che può diventare.

    Sofia Corradi aveva compreso che la vera formazione è un’esperienza di spaesamento: un gesto di coraggio che mette in discussione identità e abitudini.
    Il viaggio educa all’empatia, alla diplomazia interiore, alla pazienza. È il contrario dell’ideologia: non impone un pensiero, ma lo amplia.

    4. L’Erasmus come culla dell’identità europea

    Più che un programma di studio, l’Erasmus è stato un laboratorio antropologico dell’Europa.
    Milioni di giovani hanno imparato a pensarsi cittadini di un continente prima ancora che di una nazione. Nelle residenze universitarie, nei corridoi, nelle serate condivise, si è formata una generazione che ha appreso la grammatica dell’incontro.

    Il viaggio è diventato così strumento di pacificazione: conoscere un volto diverso, una storia diversa, un accento diverso significa dissolvere il pregiudizio.
    In questo senso, l’Erasmus è stato – e rimane – una pedagogia della pace.

    5. Psicologia dello spostamento e della scoperta

    La mobilità formativa produce effetti psicologici profondi:

    • autonomia emotiva, attraverso la gestione della distanza e della solitudine;
    • resilienza cognitiva, nel sapersi adattare a contesti nuovi;
    • plasticità relazionale, nel rinegoziare i propri codici affettivi;
    • consapevolezza di sé, poiché lo sguardo dell’altro diventa specchio.

    L’Erasmus è quindi una forma di “psicoterapia sociale” ante litteram: spinge a uscire dalla comfort zone, a riscrivere le mappe interiori del possibile.

    6. Eredità di una mente libera

    La morte di Sofia Corradi non è la fine di un progetto, ma la continuità di un’idea: l’educazione come viaggio e il viaggio come educazione.
    In un tempo in cui il digitale tende a sostituire l’esperienza, il messaggio di Corradi è di una lucidità sorprendente:

    “Il mondo non si comprende da fermi. Bisogna muoversi, non solo con i piedi ma con la mente.”

    Il suo sogno era un’Europa in cui la conoscenza si muove e, muovendosi, costruisce ponti.
    E in effetti, ogni giovane che parte, con una valigia leggera e un dizionario nuovo, continua a edificare quella cattedrale invisibile che chiamiamo integrazione.

    7. Conclusione: partire per tornare diversi

    Il viaggio, quando è autentico, non è mai un’evasione ma un ritorno.
    Tornare dopo un’esperienza Erasmus significa rientrare con occhi nuovi: il mondo non è cambiato, ma siamo cambiati noi.
    Sofia Corradi ci lascia questo lascito: che la vera formazione non è solo l’accumulo di saperi, ma la capacità di abitare il mondo con gratitudine, apertura e consapevolezza.

  • “Quando l’insegnare logora: il burnout docente sotto la lente”

    “Quando l’insegnare logora: il burnout docente sotto la lente”

    Un fenomeno in crescita

    Il burnout degli insegnanti non è più un tema di nicchia ma una vera emergenza educativa. Sempre più docenti sperimentano stanchezza cronica, senso di inefficacia e perdita di motivazione. Questo logoramento non nasce solo dal carico di lavoro, ma da una rete di pressioni che spesso rimane invisibile a chi osserva la scuola dall’esterno.

    La burocrazia che consuma

    Uno dei fattori più citati è l’eccesso burocratico. Compilazioni infinite, documentazioni ridondanti, normative in continua evoluzione sottraggono tempo ed energie alla didattica. Insegnare rischia di trasformarsi in un lavoro d’ufficio, in cui il docente si sente più “impiegato” che educatore. Quando le carte prevalgono sulle persone, la passione inevitabilmente si affievolisce.

    Un’utenza che cambia

    Anche l’utenza scolastica è profondamente mutata. Classi sempre più eterogenee, con bisogni educativi complessi, difficoltà comportamentali e nuove fragilità psicologiche, richiedono competenze aggiuntive e un impegno costante sul piano emotivo. A ciò si aggiunge un rapporto con le famiglie spesso conflittuale o eccessivamente esigente, che può minare l’autorevolezza e aumentare il livello di stress percepito.

    Altri aspetti che incidono

    Oltre a burocrazia e utenza, diversi altri elementi contribuiscono al burnout degli insegnanti:

    • Carico di lavoro invisibile: preparazione delle lezioni, correzione, attività extracurricolari non sempre riconosciute.
    • Scarso riconoscimento sociale: la professione docente è percepita come poco valorizzata rispetto alla complessità del compito.
    • Presenteismo: molti docenti continuano a lavorare anche quando avrebbero bisogno di riposo, aggravando la fatica psicofisica.
    • Clima scolastico: assenza di supporto da parte della dirigenza e conflitti interni tra colleghi aumentano la sensazione di isolamento.

    Conseguenze del burnout

    Il burnout non colpisce solo il singolo insegnante: riduce la qualità dell’insegnamento, genera assenteismo, alimenta il turnover e, soprattutto, si riflette sul benessere degli studenti. Quando un docente perde energia e motivazione, l’intero contesto educativo ne risente.

    Uscire dalla spirale

    Prevenire il burnout significa agire su più fronti: semplificazione burocratica, sostegno psicologico, valorizzazione del lavoro docente, costruzione di comunità scolastiche collaborative. Restituire all’insegnante il senso del suo ruolo è la chiave per contrastare il logoramento e ridare respiro alla scuola.

  • Riabilitare l’attenzione a scuola: neuroscienze e studi recenti

    Riabilitare l’attenzione a scuola: neuroscienze e studi recenti

    Introduzione

    La capacità di mantenere l’attenzione in classe è una delle sfide centrali della scuola contemporanea. Gli studenti trascorrono in media 5-6 ore seduti al giorno: ma questa condizione favorisce davvero la concentrazione e l’apprendimento?
    Le neuroscienze, unite alle pratiche educative adottate nei paesi nordici, offrono risposte chiare: l’attenzione va allenata e riabilitata attraverso pause, movimento e ambienti didattici più flessibili.

    Attenzione e limiti fisiologici

    Studi neuroscientifici hanno dimostrato che l’attenzione non è una risorsa illimitata.

    • Negli adolescenti il picco di attenzione sostenuta dura circa 15–20 minuti (Risko et al., Trends in Cognitive Sciences, 2016).
    • Oltre questo tempo, aumenta il rischio di mind wandering (divagazione mentale), con calo del rendimento e della memorizzazione.

    Stare fermi a lungo comporta sovraccarico cognitivo, perdita di motivazione e incremento di comportamenti disfunzionali (agitazione, sbadigli, distrazioni).

    Immobilità o movimento? Le evidenze scientifiche

    Secondo la cognitive load theory, il sovraccarico attentivo senza pause porta a un rapido esaurimento delle risorse cognitive.
    Le ricerche più recenti confermano che il movimento è un alleato dell’apprendimento:

    • Maiztegi-Kortabarria et al., 2024 (Frontiers in Psychology): le “pause attive” legate al contenuto curricolare migliorano attenzione e concentrazione.
    • Larose et al., 2024 (Journal of Activity, Sedentary and Sleep Behaviors): spazi flessibili, lezioni attive e interruzioni motorie riducono la sedentarietà e favoriscono la partecipazione.
    • Slattery et al., 2022 (Neuroscience & Biobehavioral Reviews): attività fisica, mindfulness e training cognitivo sono tra le strategie più efficaci per migliorare l’attenzione sostenuta.

    Strategie di riabilitazione attentiva

    1. Micro-pause cognitive
      Inserire pause di 2-3 minuti ogni 20 di lezione. Una semplice domanda stimolo, un breve lavoro di coppia o un cambio di ritmo possono riattivare la concentrazione.
    2. Didattica multimodale
      Alternare spiegazioni frontali, lavori di gruppo, attività pratiche e piccoli momenti di movimento. La varietà sensoriale aiuta il cervello a rinnovare l’attenzione.
    3. Autoregolazione attentiva
      Tecniche di respirazione, stretching e mindfulness applicate in classe riducono l’ansia e potenziano l’autocontrollo (Zenner et al., Mindfulness, 2014).
    4. Modularità dei tempi scolastici
      Progetti sperimentali in Nord Europa hanno introdotto lezioni da 40 minuti con 10 minuti di movimento: gli studi hanno registrato miglioramenti sia nella performance cognitiva che nel benessere psicosociale.

    Le scuole nordiche: esempi concreti

    I paesi nordici rappresentano un laboratorio di innovazione educativa, con strategie che incidono direttamente sulla qualità dell’attenzione:

    • Finlandia (2023–2024): ha introdotto una normativa che limita l’uso dei cellulari durante l’orario scolastico per ridurre le distrazioni e migliorare la concentrazione.
    • Svezia (2023–2025): ha avviato un ritorno a metodi “back to basics”: più lettura su carta, scrittura a mano, riduzione dell’uso digitale, per contrastare il calo dell’attenzione causato dall’iperconnessione.
    • Danimarca e Norvegia: diversi istituti hanno sperimentato un ban parziale degli smartphone e l’introduzione di pause motorie strutturate, osservando un aumento della partecipazione e della motivazione.

    Queste esperienze confermano che attenzione e benessere non si separano: la scuola deve diventare uno spazio che favorisce ritmi cerebrali naturali e riduce gli stimoli dispersivi.

    Conclusione

    Restare seduti 5-6 ore non agevola l’attenzione: al contrario, rischia di logorarla.
    Gli studi neuroscientifici e gli esempi concreti delle scuole nordiche dimostrano che l’attenzione può essere riabilitata e allenata con:

    • pause attive,
    • lezioni più brevi e modulari,
    • spazi flessibili,
    • limitazione delle distrazioni digitali.

    La sfida per la scuola italiana è tradurre queste evidenze in pratica didattica quotidiana. Solo così gli studenti potranno allenare davvero la capacità di pensare, ricordare, concentrarsi e crescere.

  • Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Introduzione

    Secondo l’UNESCO (2023) oltre il 60% dei Paesi europei ha introdotto restrizioni all’uso del cellulare in classe. Anche in Italia, il dibattito si è acceso: il divieto è una misura educativa o un’imposizione coercitiva? Per gli adolescenti, lo smartphone non è un semplice strumento tecnologico, ma una vera estensione del sé, tanto che le neuroscienze parlano di “protesi cognitiva e identitaria”.

    Il divieto di cellulare nella mente dell’adolescente

    Per lo studente delle scuole secondarie, il cellulare rappresenta:

    • Connessione sociale: chat e social come spazi vitali di appartenenza.
    • Autonomia percepita: possibilità di scegliere, comunicare, affermarsi.
    • Rifugio emotivo: un modo per sedare ansia e noia.

    Quando interviene il divieto, scatta un conflitto: da un lato la necessità dell’adulto di creare un ambiente di concentrazione, dall’altro la percezione di una limitazione della libertà personale. Studi di Przybylski e Weinstein (2017) parlano di “fear of missing out” (FoMO), ossia la paura di essere esclusi dalle interazioni sociali digitali, che può aumentare l’ansia negli adolescenti.

    Utilità educativa: cosa dicono gli studi

    Il divieto non è solo una misura disciplinare: ha basi scientifiche.

    • Concentrazione: Rosen, Carrier e Cheever (2013) hanno dimostrato che anche brevi interruzioni dovute al cellulare riducono del 20% la capacità di memorizzazione.
    • Apprendimento profondo: un report dell’OECD (2015) evidenzia che un uso eccessivo dei dispositivi digitali in classe è correlato a peggiori risultati scolastici in matematica e lettura.
    • Benessere psicologico: lo studio di Twenge e Campbell (2018) mostra una correlazione tra uso intensivo dello smartphone e sintomi depressivi negli adolescenti, suggerendo l’importanza di momenti di disconnessione.

    Perché è percepito come coercizione

    • Assenza di dialogo: il divieto viene comunicato spesso come regola e non come progetto educativo condiviso.
    • Identità digitale: lo smartphone è parte integrante della costruzione di sé nell’adolescenza.
    • Relazione adulti–studenti: quando non c’è mediazione, la misura appare come un controllo autoritario.

    La chiave sta nella pedagogia del limite: spiegare che un confine non è una negazione, ma uno spazio che permette di crescere.

    Strategie educative alternative

    Il divieto ha senso se integrato in un percorso:

    • Educazione digitale: insegnare uso critico e consapevole dei social.
    • Zone e tempi di disconnessione: creare momenti dedicati all’apprendimento senza dispositivi.
    • Coinvolgimento degli studenti: costruire regole condivise aumenta l’adesione.
    • Supporto psicologico: aiutare gli studenti a gestire ansia e FoMO.

    Linee guida e buone pratiche

    In Europa, la Francia ha introdotto nel 2018 il divieto di cellulare nelle scuole primarie e secondarie, con risultati positivi sulla concentrazione. L’Italia segue una linea più flessibile, demandando alle scuole la regolamentazione interna. Le Linee guida del MIUR (2022) sottolineano l’importanza di un uso “didatticamente orientato” delle tecnologie, non la loro demonizzazione.

    Conclusione

    Il divieto di cellulare a scuola può essere letto come coercizione se resta solo una regola imposta. Ma se accompagnato da spiegazioni, attività educative e spazi di confronto, diventa occasione di crescita. La sfida non è eliminare la tecnologia, ma insegnare a usarla con consapevolezza. Come scriveva Umberto Eco, “le nuove tecnologie non sono buone né cattive, dipende dall’uso che se ne fa”.

  • Un nuovo anno scolastico

    Un nuovo anno scolastico

    Pensieri sparsi per gli insegnanti.

    Caro collega

    l’inizio di un nuovo anno scolastico porta con sé più interrogativi che certezze. La scuola italiana si trova oggi a fronteggiare sfide complesse e inedite, che interpellano tanto la pedagogia quanto la politica educativa.

    Le recenti indicazioni del Ministro Valditara pongono attenzione a due nodi cruciali: l’uso regolamentato degli smartphone e l’ingresso dell’intelligenza artificiale nei processi formativi. Sono strumenti che non possono essere liquidati come nemici, ma che devono essere governati con consapevolezza: la loro presenza chiede di ripensare metodi, contenuti e ruoli educativi.

    Neurodivergenze e ansia scolastica

    Sempre più evidenti sono i bisogni legati alle neurodivergenze e al diffondersi dell’ansia scolastica. Non si tratta di emergenze isolate, ma di fenomeni strutturali che chiedono di riformulare le programmazioni didattiche con maggiore flessibilità. La scuola è chiamata a diventare realmente inclusiva, capace di piegarsi senza spezzarsi.

    In questo senso, ciascun docente dovrebbe sentirsi, almeno in parte, insegnante di sostegno: non per sostituirsi a figure specialistiche, ma per riconoscere che la conoscenza cresce soltanto se trova terreno fertile nella relazione educativa.

    La questione della dignità

    C’è poi un capitolo che riguarda da vicino la condizione degli insegnanti: gli stipendi. L’Italia resta in ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Non è una questione meramente economica: più risorse significano più dignità professionale, più tempo per la formazione, più possibilità di crescita.

    Occorrerebbe introdurre un diritto a un anno sabbatico ogni sette, destinato all’aggiornamento, allo studio e alla ricerca. Sarebbe un investimento sulla qualità dell’istruzione, non un privilegio individuale.

    Una riflessione conclusiva

    Italo Calvino scriveva: «La scuola è il luogo dove si impara a leggere il mondo e a scriverlo di nuovo».
    Questa è la vera sfida: preservare la missione educativa della scuola italiana, rinnovandola senza tradirne il senso profondo.

  • Open School del Terzo Paradiso

    Open School del Terzo Paradiso

    La scuola parentale che rivoluziona l’educazione.

    Introduzione

    Negli ultimi anni la città di Biella è diventata un laboratorio educativo internazionale grazie alla nascita della Open School del Terzo Paradiso, un progetto scolastico parentale complementare alla scuola statale. Nato nel 2021 su iniziativa di Cittadellarte – Fondazione Pistoletto e dell’associazione Associazionedidee, questo modello ha attirato l’attenzione di pedagogisti, famiglie e ricercatori di tutta Italia. La sua originalità risiede nella capacità di coniugare arte, comunità ed educazione, secondo i principi del “Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto e del concetto di Learning Arcipelago.

    Che cos’è l’Open School del Terzo Paradiso

    L’Open School non è una semplice scuola privata o un doposcuola innovativo. È una scuola parentale complementare, riconosciuta come esperienza educativa autonoma ma in dialogo con il sistema scolastico nazionale. Accoglie bambini tra i 6 e gli 11 anni e propone un percorso che integra le discipline tradizionali con laboratori di arte, natura, filosofia, educazione civica, digitale e performativa (si pensi all’uso del circo come strumento didattico).

    Al centro vi è la visione che “l’educazione è un ecosistema”, non confinato nelle mura scolastiche ma diffuso nei luoghi di cultura e di comunità: musei, biblioteche, cooperative sociali, spazi urbani, orti condivisi.

    Il modello pedagogico: il Learning Arcipelago

    La filosofia educativa dell’Open School si ispira al concetto di Learning Arcipelago, ossia un arcipelago di luoghi e saperi collegati da ponti e connessioni. Non una scuola-isola, ma una scuola-rete.

    I tratti distintivi:

    • Didattica diffusa: la città e il territorio diventano aula estesa.
    • Comunità educante: genitori, insegnanti, artisti, operatori sociali partecipano al progetto.
    • Interdisciplinarità: arte, scienza e tecnologia dialogano costantemente.
    • Governance partecipata: le decisioni educative sono frutto di co-progettazione tra famiglie, docenti e partner istituzionali.

    Si tratta, a tutti gli effetti, di una “pedagogia ecologica”, capace di collegare educazione formale, non formale e informale.

    La resilienza post-pandemica

    Durante la pandemia l’Open School si è distinta per la capacità di reinventarsi:

    • con podcast educativi curati da una redazione di bambini (“Comeapprenderemo”),
    • con residenze estive di apprendimento esperienziale,
    • con l’Academy della Comunità Educante, un percorso di formazione rivolto agli insegnanti e agli educatori, per rigenerare le pratiche scolastiche.

    Queste esperienze hanno mostrato come il progetto non sia solo una scuola alternativa, ma un cantiere pedagogico permanente.

    Numeri e organizzazione attuale

    Per l’anno scolastico 2024/25, la scuola conta 23 alunni regolarmente iscritti. Non si tratta di grandi numeri, ma di una scelta deliberata: la dimensione ridotta garantisce la personalizzazione dei percorsi, l’attenzione al bambino e l’implementazione di metodologie attive come il cooperative learning e la didattica laboratoriale.

    Impatto sul territorio e replicabilità

    La Open School del Terzo Paradiso non vuole restare un’esperienza isolata. Il suo obiettivo è contaminare il sistema scolastico pubblico, mostrando come sia possibile innovare attraverso:

    • alleanze educative territoriali,
    • formazione docenti,
    • partnership con istituzioni culturali,
    • coinvolgimento attivo delle famiglie.

    Il progetto appare scalabile e replicabile, configurandosi come un prototipo di scuola del futuro, in linea con le raccomandazioni europee su educazione inclusiva, sostenibilità e cittadinanza attiva (cfr. EU Key Competences for Lifelong Learning, 2018).

    Analisi pedagogica

    Dal punto di vista scientifico, l’Open School intercetta alcune tendenze cruciali dell’educazione contemporanea:

    1. Centralità dell’esperienza (Dewey, Montessori): l’apprendimento nasce dall’esperienza diretta.
    2. Educazione estetica e creativa (Nussbaum, Eisner): l’arte non è solo ornamento, ma motore cognitivo ed etico.
    3. Comunità educante (Bronfenbrenner): il contesto sociale è parte integrante del processo di crescita.
    4. Scuola come ecosistema (Morin): complessità e interconnessione sono la vera grammatica del sapere.

    Conclusione: un laboratorio per la scuola italiana

    L’Open School del Terzo Paradiso è oggi un piccolo ma straordinario esperimento che unisce arte, pedagogia e comunità. Non sostituisce la scuola statale, ma la completa e la sfida a ripensarsi.

    Come pedagogista e psicologo, osservo con interesse come questo modello biellese stia dimostrando che un’altra scuola è possibile: una scuola che educa non solo alla conoscenza, ma alla cittadinanza creativa, ecologica e solidale.

  • Taser e solitudine dello stato: chi protegge chi ci protegge?

    In una giornata come tante, due membri delle forze dell’ordine fermano un uomo che rifiuta le regole. Tentano di contenerlo, il Taser entra in azione: lo strumento “non letale” diventa letale. L’uomo muore, e con lui crolla anche la certezza di chi indossa la divisa.

    Il paradosso è chiaro: chi serve lo Stato viene lasciato solo dallo Stato. Da garanti della sicurezza a imputati per omicidio colposo. Con le spese legali a carico e la percezione che la divisa, in fondo, sia un’armatura bucata.

    ✦ Ma qui va detto con chiarezza: non sono ammessi eccessi di forza, squilibri e arroganze che talvolta la divisa porta con sé quando viene indossata da chi fraintende il proprio ruolo. L’abuso di potere, l’uso sproporzionato della forza, l’arroganza istituzionale vanno condannati senza ambiguità. La società deve distinguere tra chi agisce per necessità e chi invece sfrutta l’uniforme come strumento di sopraffazione.

    E allora la domanda resta: come possiamo chiedere sicurezza se non siamo disposti ad assumerci collettivamente le conseguenze di chi rischia la vita per garantirla? Celebriamo le forze dell’ordine come eroi, ma le abbandoniamo al primo errore. Condanniamo con forza ogni abuso, ma proteggiamo chi agisce correttamente, anche quando l’esito è tragico.

    ⟡ O lo Stato garantisce davvero protezione ai suoi uomini, oppure continueremo a recitare una farsa: la sicurezza “senza macchia” che non esiste.
    Dietro ogni uniforme c’è una persona.
    E prima di puntare il dito, dovremmo chiederci: chi protegge chi ci protegge?

  • Mind Wandering in classe: distrazione o risorsa cognitiva?

    Mind Wandering in classe: distrazione o risorsa cognitiva?

    • Il mind wandering — ovvero quando l’attenzione si sposta da ciò che stiamo facendo verso pensieri non correlati — è un fenomeno diffuso, ma ancora poco esplorato sui social in ambito scolastico. Si stima che studenti dedichino tra il 30% e il 50% del tempo cosciente a questo tipo di pensieri Wikipedia.
    • Alcuni momenti di “sogni a occhi aperti” possono addirittura favorire creatività, problem solving e memoria, specialmente se il contenuto è motivante Wikipedia.
    • Applicazione concreta: racconta come gestire questo fenomeno con tecniche di interazione attiva o pause mentali, trasformando una potenziale distrazione in opportunità didattica.

    Cos’è il Mind Wandering

    Il mind wandering è lo spostamento spontaneo dell’attenzione da un compito in corso verso pensieri interni non collegati al contesto.
    Esempio tipico: uno studente legge un brano di storia ma improvvisamente pensa al pomeriggio con gli amici.

    Dal punto di vista neuropsicologico, è correlato all’attività della Default Mode Network (DMN), rete cerebrale che entra in funzione quando non siamo concentrati su stimoli esterni.

    Effetti negativi in ambito scolastico

    • Perdita di informazioni: lo studente non assimila quanto spiegato.
    • Calano attenzione sostenuta e memoria di lavoro: ostacolando apprendimento strutturato.
    • Aumento dell’errore: soprattutto in attività che richiedono vigilanza (es. calcoli matematici).

    Un esempio concreto: in un esperimento, studenti che vagavano con la mente durante la lettura ricordavano il 50% in meno del testo rispetto ai compagni attenti (Smallwood et al., 2008).

    Benefici cognitivi del Mind Wandering

    Non tutto è negativo: le fughe mentali hanno anche valenze evolutive e creative.

    • Creatività: durante divagazioni spontanee emergono connessioni nuove tra concetti.
    • Problem solving: a volte la soluzione arriva proprio nei momenti di “mente in pausa”.
    • Memoria prospettica: immaginare scenari futuri aiuta a pianificare.

    Un esempio pratico: mentre lo studente si annoia, immagina un’app per studiare più facilmente. Quell’idea creativa nasce grazie al mind wandering.

    Strategie didattiche per trasformare il fenomeno in risorsa

    1. Pause guidate – introdurre brevi momenti di riflessione creativa in classe.
    2. Didattica attiva – alternare spiegazioni frontali a domande stimolo e lavori di gruppo.
    3. Micro-narrazioni – raccontare storie o aneddoti legati alla materia: agganciano l’attenzione e la canalizzano.
    4. Tecniche metacognitive – insegnare agli studenti a riconoscere quando la mente “vaga” e a riportarla gentilmente sul compito.
    5. Uso consapevole – trasformare le fughe mentali in brainstorming: “Chiudete gli occhi, immaginate una soluzione e poi condividiamola”.

    Esempio di applicazione in aula

    Un insegnante di scienze, spiegando l’ecosistema, concede due minuti di “immaginazione libera”: gli studenti devono pensare a come sarebbe la Terra senza alberi. Al termine, condividono le loro immagini mentali. Risultato? Maggiore coinvolgimento emotivo e consolidamento della conoscenza.

    Conclusione

    Il mind wandering non è un nemico da combattere, ma un fenomeno cognitivo da comprendere e incanalare.
    Nella didattica moderna, accettare che la mente degli studenti possa vagare significa riconoscere la natura dinamica del pensiero e sfruttarla per favorire creatività, motivazione e apprendimento significativo.

    Come scriveva William James, padre della psicologia moderna:
    “La mente è come un uccello che vola di ramo in ramo: ciò che conta è che, prima o poi, torni a posarsi.”