Categoria: Scuola

  • Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Introduzione

    Secondo l’UNESCO (2023) oltre il 60% dei Paesi europei ha introdotto restrizioni all’uso del cellulare in classe. Anche in Italia, il dibattito si è acceso: il divieto è una misura educativa o un’imposizione coercitiva? Per gli adolescenti, lo smartphone non è un semplice strumento tecnologico, ma una vera estensione del sé, tanto che le neuroscienze parlano di “protesi cognitiva e identitaria”.

    Il divieto di cellulare nella mente dell’adolescente

    Per lo studente delle scuole secondarie, il cellulare rappresenta:

    • Connessione sociale: chat e social come spazi vitali di appartenenza.
    • Autonomia percepita: possibilità di scegliere, comunicare, affermarsi.
    • Rifugio emotivo: un modo per sedare ansia e noia.

    Quando interviene il divieto, scatta un conflitto: da un lato la necessità dell’adulto di creare un ambiente di concentrazione, dall’altro la percezione di una limitazione della libertà personale. Studi di Przybylski e Weinstein (2017) parlano di “fear of missing out” (FoMO), ossia la paura di essere esclusi dalle interazioni sociali digitali, che può aumentare l’ansia negli adolescenti.

    Utilità educativa: cosa dicono gli studi

    Il divieto non è solo una misura disciplinare: ha basi scientifiche.

    • Concentrazione: Rosen, Carrier e Cheever (2013) hanno dimostrato che anche brevi interruzioni dovute al cellulare riducono del 20% la capacità di memorizzazione.
    • Apprendimento profondo: un report dell’OECD (2015) evidenzia che un uso eccessivo dei dispositivi digitali in classe è correlato a peggiori risultati scolastici in matematica e lettura.
    • Benessere psicologico: lo studio di Twenge e Campbell (2018) mostra una correlazione tra uso intensivo dello smartphone e sintomi depressivi negli adolescenti, suggerendo l’importanza di momenti di disconnessione.

    Perché è percepito come coercizione

    • Assenza di dialogo: il divieto viene comunicato spesso come regola e non come progetto educativo condiviso.
    • Identità digitale: lo smartphone è parte integrante della costruzione di sé nell’adolescenza.
    • Relazione adulti–studenti: quando non c’è mediazione, la misura appare come un controllo autoritario.

    La chiave sta nella pedagogia del limite: spiegare che un confine non è una negazione, ma uno spazio che permette di crescere.

    Strategie educative alternative

    Il divieto ha senso se integrato in un percorso:

    • Educazione digitale: insegnare uso critico e consapevole dei social.
    • Zone e tempi di disconnessione: creare momenti dedicati all’apprendimento senza dispositivi.
    • Coinvolgimento degli studenti: costruire regole condivise aumenta l’adesione.
    • Supporto psicologico: aiutare gli studenti a gestire ansia e FoMO.

    Linee guida e buone pratiche

    In Europa, la Francia ha introdotto nel 2018 il divieto di cellulare nelle scuole primarie e secondarie, con risultati positivi sulla concentrazione. L’Italia segue una linea più flessibile, demandando alle scuole la regolamentazione interna. Le Linee guida del MIUR (2022) sottolineano l’importanza di un uso “didatticamente orientato” delle tecnologie, non la loro demonizzazione.

    Conclusione

    Il divieto di cellulare a scuola può essere letto come coercizione se resta solo una regola imposta. Ma se accompagnato da spiegazioni, attività educative e spazi di confronto, diventa occasione di crescita. La sfida non è eliminare la tecnologia, ma insegnare a usarla con consapevolezza. Come scriveva Umberto Eco, “le nuove tecnologie non sono buone né cattive, dipende dall’uso che se ne fa”.

  • Un nuovo anno scolastico

    Un nuovo anno scolastico

    Pensieri sparsi per gli insegnanti.

    Caro collega

    l’inizio di un nuovo anno scolastico porta con sé più interrogativi che certezze. La scuola italiana si trova oggi a fronteggiare sfide complesse e inedite, che interpellano tanto la pedagogia quanto la politica educativa.

    Le recenti indicazioni del Ministro Valditara pongono attenzione a due nodi cruciali: l’uso regolamentato degli smartphone e l’ingresso dell’intelligenza artificiale nei processi formativi. Sono strumenti che non possono essere liquidati come nemici, ma che devono essere governati con consapevolezza: la loro presenza chiede di ripensare metodi, contenuti e ruoli educativi.

    Neurodivergenze e ansia scolastica

    Sempre più evidenti sono i bisogni legati alle neurodivergenze e al diffondersi dell’ansia scolastica. Non si tratta di emergenze isolate, ma di fenomeni strutturali che chiedono di riformulare le programmazioni didattiche con maggiore flessibilità. La scuola è chiamata a diventare realmente inclusiva, capace di piegarsi senza spezzarsi.

    In questo senso, ciascun docente dovrebbe sentirsi, almeno in parte, insegnante di sostegno: non per sostituirsi a figure specialistiche, ma per riconoscere che la conoscenza cresce soltanto se trova terreno fertile nella relazione educativa.

    La questione della dignità

    C’è poi un capitolo che riguarda da vicino la condizione degli insegnanti: gli stipendi. L’Italia resta in ritardo rispetto agli altri Paesi europei. Non è una questione meramente economica: più risorse significano più dignità professionale, più tempo per la formazione, più possibilità di crescita.

    Occorrerebbe introdurre un diritto a un anno sabbatico ogni sette, destinato all’aggiornamento, allo studio e alla ricerca. Sarebbe un investimento sulla qualità dell’istruzione, non un privilegio individuale.

    Una riflessione conclusiva

    Italo Calvino scriveva: «La scuola è il luogo dove si impara a leggere il mondo e a scriverlo di nuovo».
    Questa è la vera sfida: preservare la missione educativa della scuola italiana, rinnovandola senza tradirne il senso profondo.

  • Open School del Terzo Paradiso

    Open School del Terzo Paradiso

    La scuola parentale che rivoluziona l’educazione.

    Introduzione

    Negli ultimi anni la città di Biella è diventata un laboratorio educativo internazionale grazie alla nascita della Open School del Terzo Paradiso, un progetto scolastico parentale complementare alla scuola statale. Nato nel 2021 su iniziativa di Cittadellarte – Fondazione Pistoletto e dell’associazione Associazionedidee, questo modello ha attirato l’attenzione di pedagogisti, famiglie e ricercatori di tutta Italia. La sua originalità risiede nella capacità di coniugare arte, comunità ed educazione, secondo i principi del “Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto e del concetto di Learning Arcipelago.

    Che cos’è l’Open School del Terzo Paradiso

    L’Open School non è una semplice scuola privata o un doposcuola innovativo. È una scuola parentale complementare, riconosciuta come esperienza educativa autonoma ma in dialogo con il sistema scolastico nazionale. Accoglie bambini tra i 6 e gli 11 anni e propone un percorso che integra le discipline tradizionali con laboratori di arte, natura, filosofia, educazione civica, digitale e performativa (si pensi all’uso del circo come strumento didattico).

    Al centro vi è la visione che “l’educazione è un ecosistema”, non confinato nelle mura scolastiche ma diffuso nei luoghi di cultura e di comunità: musei, biblioteche, cooperative sociali, spazi urbani, orti condivisi.

    Il modello pedagogico: il Learning Arcipelago

    La filosofia educativa dell’Open School si ispira al concetto di Learning Arcipelago, ossia un arcipelago di luoghi e saperi collegati da ponti e connessioni. Non una scuola-isola, ma una scuola-rete.

    I tratti distintivi:

    • Didattica diffusa: la città e il territorio diventano aula estesa.
    • Comunità educante: genitori, insegnanti, artisti, operatori sociali partecipano al progetto.
    • Interdisciplinarità: arte, scienza e tecnologia dialogano costantemente.
    • Governance partecipata: le decisioni educative sono frutto di co-progettazione tra famiglie, docenti e partner istituzionali.

    Si tratta, a tutti gli effetti, di una “pedagogia ecologica”, capace di collegare educazione formale, non formale e informale.

    La resilienza post-pandemica

    Durante la pandemia l’Open School si è distinta per la capacità di reinventarsi:

    • con podcast educativi curati da una redazione di bambini (“Comeapprenderemo”),
    • con residenze estive di apprendimento esperienziale,
    • con l’Academy della Comunità Educante, un percorso di formazione rivolto agli insegnanti e agli educatori, per rigenerare le pratiche scolastiche.

    Queste esperienze hanno mostrato come il progetto non sia solo una scuola alternativa, ma un cantiere pedagogico permanente.

    Numeri e organizzazione attuale

    Per l’anno scolastico 2024/25, la scuola conta 23 alunni regolarmente iscritti. Non si tratta di grandi numeri, ma di una scelta deliberata: la dimensione ridotta garantisce la personalizzazione dei percorsi, l’attenzione al bambino e l’implementazione di metodologie attive come il cooperative learning e la didattica laboratoriale.

    Impatto sul territorio e replicabilità

    La Open School del Terzo Paradiso non vuole restare un’esperienza isolata. Il suo obiettivo è contaminare il sistema scolastico pubblico, mostrando come sia possibile innovare attraverso:

    • alleanze educative territoriali,
    • formazione docenti,
    • partnership con istituzioni culturali,
    • coinvolgimento attivo delle famiglie.

    Il progetto appare scalabile e replicabile, configurandosi come un prototipo di scuola del futuro, in linea con le raccomandazioni europee su educazione inclusiva, sostenibilità e cittadinanza attiva (cfr. EU Key Competences for Lifelong Learning, 2018).

    Analisi pedagogica

    Dal punto di vista scientifico, l’Open School intercetta alcune tendenze cruciali dell’educazione contemporanea:

    1. Centralità dell’esperienza (Dewey, Montessori): l’apprendimento nasce dall’esperienza diretta.
    2. Educazione estetica e creativa (Nussbaum, Eisner): l’arte non è solo ornamento, ma motore cognitivo ed etico.
    3. Comunità educante (Bronfenbrenner): il contesto sociale è parte integrante del processo di crescita.
    4. Scuola come ecosistema (Morin): complessità e interconnessione sono la vera grammatica del sapere.

    Conclusione: un laboratorio per la scuola italiana

    L’Open School del Terzo Paradiso è oggi un piccolo ma straordinario esperimento che unisce arte, pedagogia e comunità. Non sostituisce la scuola statale, ma la completa e la sfida a ripensarsi.

    Come pedagogista e psicologo, osservo con interesse come questo modello biellese stia dimostrando che un’altra scuola è possibile: una scuola che educa non solo alla conoscenza, ma alla cittadinanza creativa, ecologica e solidale.

  • Taser e solitudine dello stato: chi protegge chi ci protegge?

    In una giornata come tante, due membri delle forze dell’ordine fermano un uomo che rifiuta le regole. Tentano di contenerlo, il Taser entra in azione: lo strumento “non letale” diventa letale. L’uomo muore, e con lui crolla anche la certezza di chi indossa la divisa.

    Il paradosso è chiaro: chi serve lo Stato viene lasciato solo dallo Stato. Da garanti della sicurezza a imputati per omicidio colposo. Con le spese legali a carico e la percezione che la divisa, in fondo, sia un’armatura bucata.

    ✦ Ma qui va detto con chiarezza: non sono ammessi eccessi di forza, squilibri e arroganze che talvolta la divisa porta con sé quando viene indossata da chi fraintende il proprio ruolo. L’abuso di potere, l’uso sproporzionato della forza, l’arroganza istituzionale vanno condannati senza ambiguità. La società deve distinguere tra chi agisce per necessità e chi invece sfrutta l’uniforme come strumento di sopraffazione.

    E allora la domanda resta: come possiamo chiedere sicurezza se non siamo disposti ad assumerci collettivamente le conseguenze di chi rischia la vita per garantirla? Celebriamo le forze dell’ordine come eroi, ma le abbandoniamo al primo errore. Condanniamo con forza ogni abuso, ma proteggiamo chi agisce correttamente, anche quando l’esito è tragico.

    ⟡ O lo Stato garantisce davvero protezione ai suoi uomini, oppure continueremo a recitare una farsa: la sicurezza “senza macchia” che non esiste.
    Dietro ogni uniforme c’è una persona.
    E prima di puntare il dito, dovremmo chiederci: chi protegge chi ci protegge?

  • Mind Wandering in classe: distrazione o risorsa cognitiva?

    Mind Wandering in classe: distrazione o risorsa cognitiva?

    • Il mind wandering — ovvero quando l’attenzione si sposta da ciò che stiamo facendo verso pensieri non correlati — è un fenomeno diffuso, ma ancora poco esplorato sui social in ambito scolastico. Si stima che studenti dedichino tra il 30% e il 50% del tempo cosciente a questo tipo di pensieri Wikipedia.
    • Alcuni momenti di “sogni a occhi aperti” possono addirittura favorire creatività, problem solving e memoria, specialmente se il contenuto è motivante Wikipedia.
    • Applicazione concreta: racconta come gestire questo fenomeno con tecniche di interazione attiva o pause mentali, trasformando una potenziale distrazione in opportunità didattica.

    Cos’è il Mind Wandering

    Il mind wandering è lo spostamento spontaneo dell’attenzione da un compito in corso verso pensieri interni non collegati al contesto.
    Esempio tipico: uno studente legge un brano di storia ma improvvisamente pensa al pomeriggio con gli amici.

    Dal punto di vista neuropsicologico, è correlato all’attività della Default Mode Network (DMN), rete cerebrale che entra in funzione quando non siamo concentrati su stimoli esterni.

    Effetti negativi in ambito scolastico

    • Perdita di informazioni: lo studente non assimila quanto spiegato.
    • Calano attenzione sostenuta e memoria di lavoro: ostacolando apprendimento strutturato.
    • Aumento dell’errore: soprattutto in attività che richiedono vigilanza (es. calcoli matematici).

    Un esempio concreto: in un esperimento, studenti che vagavano con la mente durante la lettura ricordavano il 50% in meno del testo rispetto ai compagni attenti (Smallwood et al., 2008).

    Benefici cognitivi del Mind Wandering

    Non tutto è negativo: le fughe mentali hanno anche valenze evolutive e creative.

    • Creatività: durante divagazioni spontanee emergono connessioni nuove tra concetti.
    • Problem solving: a volte la soluzione arriva proprio nei momenti di “mente in pausa”.
    • Memoria prospettica: immaginare scenari futuri aiuta a pianificare.

    Un esempio pratico: mentre lo studente si annoia, immagina un’app per studiare più facilmente. Quell’idea creativa nasce grazie al mind wandering.

    Strategie didattiche per trasformare il fenomeno in risorsa

    1. Pause guidate – introdurre brevi momenti di riflessione creativa in classe.
    2. Didattica attiva – alternare spiegazioni frontali a domande stimolo e lavori di gruppo.
    3. Micro-narrazioni – raccontare storie o aneddoti legati alla materia: agganciano l’attenzione e la canalizzano.
    4. Tecniche metacognitive – insegnare agli studenti a riconoscere quando la mente “vaga” e a riportarla gentilmente sul compito.
    5. Uso consapevole – trasformare le fughe mentali in brainstorming: “Chiudete gli occhi, immaginate una soluzione e poi condividiamola”.

    Esempio di applicazione in aula

    Un insegnante di scienze, spiegando l’ecosistema, concede due minuti di “immaginazione libera”: gli studenti devono pensare a come sarebbe la Terra senza alberi. Al termine, condividono le loro immagini mentali. Risultato? Maggiore coinvolgimento emotivo e consolidamento della conoscenza.

    Conclusione

    Il mind wandering non è un nemico da combattere, ma un fenomeno cognitivo da comprendere e incanalare.
    Nella didattica moderna, accettare che la mente degli studenti possa vagare significa riconoscere la natura dinamica del pensiero e sfruttarla per favorire creatività, motivazione e apprendimento significativo.

    Come scriveva William James, padre della psicologia moderna:
    “La mente è come un uccello che vola di ramo in ramo: ciò che conta è che, prima o poi, torni a posarsi.”

    1. Pedagogista e Psicologo: per una scuola che cura

      Pedagogista e Psicologo: per una scuola che cura

      Una complementarità necessaria

      Nel sistema scolastico contemporaneo, il pedagogista e lo psicologo scolastico rappresentano due figure professionali fondamentali e complementari. Se il primo opera sulla dimensione educativa, relazionale e metodologica dell’apprendimento, il secondo si concentra sul versante clinico, emotivo e psicologico del soggetto in età evolutiva.

      Insieme, pedagogia e psicologia costruiscono un ponte tra didattica e cura, tra progettazione educativa e ascolto dei disagi sommersi. In una scuola che vuole diventare davvero “ambiente di sviluppo integrale della persona”, l’alleanza tra questi due ruoli non è solo auspicabile: è urgente.

      Il ruolo del pedagogista

      Il pedagogista scolastico agisce su tre livelli:

      • Prevenzione delle difficoltà di apprendimento e di comportamento,
      • Progettazione di interventi educativi personalizzati (in sinergia con il docente),
      • Formazione del personale scolastico e dei genitori.

      Attraverso osservazioni sistematiche, analisi dei contesti e strumenti educativi, il pedagogista favorisce lo sviluppo di competenze trasversali, dalla motivazione alla regolazione emotiva, potenziando il contesto-classe nel suo complesso.

      Il ruolo dello psicologo scolastico

      Lo psicologo si occupa di:

      • Supporto psicologico individuale per studenti in difficoltà,
      • Valutazione di bisogni specifici, disturbi dell’apprendimento, disagi comportamentali e relazionali,
      • Sostegno alla genitorialità e al corpo docente.

      È inoltre figura chiave nei casi di bullismo, autolesionismo, ansia scolastica, disturbi dell’umore e da stress. La sua presenza costante (non occasionale) è indicata come fattore protettivo per il benessere dell’intera comunità scolastica (Fonte: CNOP, 2023).

      Progetti pilota e dati significativi

      📌 Progetto “Benessere a scuola” – Regione Emilia-Romagna

      • Figure coinvolte: psicologo e pedagogista, in sinergia con educatori e referenti BES.
      • Esiti: dopo 12 mesi, il 68% degli alunni seguiti ha mostrato miglioramenti nei comportamenti pro-sociali.
      • Riscontro docente: l’81% degli insegnanti ha dichiarato un miglior clima relazionale in classe.

      📌 “P.I.P.P.I.” – Programma di Intervento Per la Prevenzione dell’Istituzionalizzazione (Ministero del Lavoro e Università di Padova)

      • Coinvolge scuole, servizi sociali, famiglie e specialisti.
      • Il pedagogista lavora sull’empowerment familiare, mentre lo psicologo lavora sul benessere emotivo del minore.
      • Risultato: riduzione del rischio di allontanamento del minore in 3 casi su 4.

      📌 Progetto “Equità” – Città Metropolitana di Torino

      • Modello d’intervento integrato tra pedagogia e psicologia per contrastare la dispersione scolastica.
      • Dopo 2 anni: riduzione dell’abbandono scolastico del 24% nei plessi coinvolti.

      Quale scuola per il futuro?

      Numerosi piani ministeriali, tra cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), insistono sull’ampliamento delle equipe multiprofessionali a scuola. Il modello vincente è quello integrato, in cui pedagogisti, psicologi, educatori e assistenti sociali collaborano costantemente.

      Secondo l’ultimo report OCSE (2024), le scuole che adottano team interdisciplinari registrano:

      • un calo del 35% dei casi di drop-out,
      • un incremento del 48% nella partecipazione degli studenti ai progetti di cittadinanza attiva.

      Conclusione

      La presenza congiunta di pedagogisti e psicologi non rappresenta un lusso, ma una necessità. Solo attraverso un’azione sinergica, continuativa e professionale è possibile incidere davvero nel vissuto scolastico degli studenti e trasformare la scuola in uno spazio di cura, crescita e resilienza.

    2. Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

      Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

      Riflessioni di un insegnante, psicologo, pedagogista e padre che da quasi 30 anni si occupa di integrazione, inclusione, neutodiversità…

      Questa è una lettera che nasce dove le parole spesso mancano: nel cuore ferito di un genitore che vede il proprio figlio non solo in difficoltà, ma escluso.

      Ci sono giorni in cui essere genitore di un bambino con disabilità intellettiva è come camminare su una fune tesa, senza rete di protezione. Non perché ci si vergogni, non perché si rinunci ad amarlo con tutto il cuore. Ma perché il dolore più profondo non nasce dalla diagnosi: nasce da ciò che succede dopo.


      Quando l’inclusione resta una parola

      C’è un momento esatto – e chi lo ha vissuto lo sa – in cui tuo figlio smette di essere “uno della classe” e diventa “un problema”.

      Quando la maestra – pur con la miglior buona volontà – ti fa capire che il gruppo classe “viene prima”.

      Quando gli altri bambini vengono incoraggiati a collaborare tra loro… mentre tuo figlio è accompagnato “a parte”, con pazienza, certo, ma anche con distanza.

      Quando l’inclusione viene nominata nei progetti e ignorata nelle dinamiche reali.

      E tu, genitore, torni a casa con la cartella piena di carte e il cuore vuoto. Perché tuo figlio non è un ostacolo alla crescita degli altri. È un bambino. E come ogni bambino, desidera appartenere.

      La solitudine dei genitori

      Si dice che serva un villaggio per crescere un bambino. Ma quando il bambino è fragile, spesso il villaggio si svuota.

      Restano i colloqui, i P.E.I., le buone intenzioni, ma manca lo sguardo profondo che riconosca nel bambino disabile una persona intera, non un frammento, non un “limite”.

      Essere genitore, in questi casi, è essere anche psicologo, terapista, segretario, avvocato del proprio figlio.

      Ma soprattutto, è essere testimone di un’esclusione che si consuma nel silenzio degli altri.

      Eppure l’aiuto è possibile

      L’aiuto vero non è pietà.

      Non è nemmeno la condiscendenza o l’applauso a fine recita.

      L’aiuto vero è lo sguardo educativo che non seleziona, ma si piega senza cedere, si adatta senza arrendersi.

      È la maestra che fa spazio non solo al programma, ma alla persona.

      È l’educatore che non vede un rallentamento ma una via diversa.

      È il compagno di classe che viene educato a riconoscere la diversità come ricchezza e non come ingombro.

      Unire la disperazione all’aiuto

      Come si tiene insieme la disperazione con la speranza di un aiuto effettivo?

      Con una sola parola: alleanza.

      L’alleanza tra scuola e famiglia non è un protocollo, ma un patto di fiducia.

      È dire: “Io vedo tuo figlio. Non come lo vorrei. Ma come è. E lo accolgo.”

      È smettere di difendersi e iniziare a costruire: insieme.

      Perché la disabilità non chiede compassione. Chiede relazioni vereattese pazientistrategie intelligenti.

      Conclusione

      A chi educa: non abbia paura di rallentare, di cambiare il ritmo della classe per accogliere chi ha bisogno.

      Non sarà tempo perso: sarà umanità guadagnata.

      Ai genitori, resti la forza di chiedere aiuto, senza cedere alla solitudine.

      Perché l’unica vera disabilità è un mondo che non vuole includere.

    3. Studenti Muti all’Esame: Ribellione o Fallimento Educativo?

      Studenti Muti all’Esame: Ribellione o Fallimento Educativo?

      Quando il silenzio fa rumore: l’esame di maturità come teatro della crisi educativa

      Il recente fenomeno del “silenzio alla maturità”, messo in atto da alcuni studenti come forma di boicottaggio simbolico dell’Esame di Stato, rappresenta ben più di un atto di ribellione generazionale: è la spia evidente di un disagio sistemico, profondo, stratificato. Non siamo di fronte a semplici episodi isolati, ma a una forma estrema di disaffezione che, pur minoritaria, interpella la scuola e la società nel suo complesso.

      Un fallimento educativo travestito da protesta

      Quando uno studente decide di non rispondere, di non partecipare, di tacere per protesta, non sta solo criticando una prova d’esame. Sta denunciando un’intera architettura scolastica che, a suo dire, non lo ha ascoltato, né formato pienamente. È il sintomo di un fallimento educativo che ha smarrito l’orizzonte della motivazione, della relazione formativa, del significato del merito.

      Il vero problema non è il gesto eclatante, bensì ciò che lo precede: un’intera narrazione scolastica che, per molti, è percepita come alienante, impersonale, distante dalla realtà. La scuola valutativa, performativa, standardizzata, sembra perdere contatto con la sua vocazione originaria: educare alla responsabilità, al pensiero critico, alla cittadinanza.

      Il ministro Valditara e il giro di vite: una risposta necessaria?

      Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha annunciato una stretta disciplinare a partire dal prossimo anno, con l’introduzione della bocciatura automatica per chi si sottrae volontariamente all’Esame di Stato. Una misura forte, che trova giustificazione nel bisogno di ripristinare l’autorevolezza dell’istituzione scolastica e tutelare il valore del titolo di studio.

      Pur concordando con la necessità di difendere la dignità del sistema formativo, è fondamentale non confondere la fermezza con la rigidità. La repressione, da sola, non educa: deve essere accompagnata da una riflessione profonda sulle carenze pedagogiche che portano alcuni giovani a compiere simili gesti.

      I precedenti pericolosi: legittimare l’antimerito?

      Un esame boicottato non è un semplice “no” al sistema: è un gesto che rischia di legittimare l’antimeritocrazia e l’irresponsabilità diffusa. Quando il merito è svilito, quando il percorso scolastico viene visto come qualcosa da aggirare anziché da affrontare, si mina la credibilità dell’intero sistema educativo.

      Educare significa anche chiedere conto, stimolare la consapevolezza del valore dello studio e della fatica formativa. La scuola non è un contenitore neutro: è un laboratorio etico, dove si sperimenta l’impegno, si affrontano le difficoltà, si costruisce l’identità adulta.

      Luci di speranza: un’educazione che deve (ri)cominciare

      Non tutto è perduto. Questa protesta, se letta con intelligenza pedagogica, può trasformarsi in un’occasione di autoriflessione collettiva. Gli studenti che scelgono il silenzio andrebbero interrogati, ascoltati, compresi. Ma anche accompagnati a riscoprire il valore dell’impegno, della parola, della costruzione del sapere.

      È necessario promuovere una riforma culturale prima ancora che normativa: valorizzare la relazione educativa, ridefinire la valutazione in termini formativi, creare ambienti scolastici che siano davvero “luoghi di senso”. Non serve un esame più facile, serve un percorso scolastico più giusto, più significativo, più umano.

      Conclusione: tra fermezza e ascolto, la scuola può ancora educare

      La maturità non può diventare un palcoscenico per proteste autoreferenziali, né un tribunale ideologico contro l’intero sistema scolastico. Ma può e deve essere un punto di ripartenza. Serve una scuola che non premi il silenzio, ma che insegni ad abitare la parola, anche quella critica, con coraggio e competenza. Perché educare non significa solo trasmettere nozioni, ma accendere coscienze.

    4. Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

      Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

      Il mito delle 5 ore: quanto apprendono davvero gli studenti?

      L’architettura oraria della scuola italiana — mediamente composta da cinque moduli da 60 minuti — risale a modelli educativi del primo Novecento. Oggi, le neuroscienze dimostrano che questo assetto è incompatibile con il funzionamento neurobiologico dell’attenzione umana, soprattutto in età evolutiva.

      Uno studio pubblicato su Teaching of Psychology (Wilson & Korn, 2007) ha evidenziato come il picco di attenzione si raggiunga nei primi 10-15 minuti di una lezione, per poi declinare drasticamente. Dopo 30 minuti, il cervello è già in fase di disimpegno. A 45 minuti, l’apprendimento è minimo, salvo nei casi in cui si introducano variazioni di stimolo, pause o metodi attivi.

      Quanto si trattiene dopo una giornata scolastica?

      Secondo la curva dell’oblio di Ebbinghaus, senza rinforzo:

      • Dopo 24 ore, si dimentica il 70% delle nozioni ricevute.
      • Dopo una settimana, resta meno del 10%.

      Questi dati sono stati confermati da ricerche più recenti sull’apprendimento, come quelle condotte da John Dunlosky e Elizabeth Bjork: la ripetizione distribuita, il recupero attivo e il testing effect sono decisivi per il consolidamento in memoria a lungo termine.

      Dalla lezione trasmissiva alla didattica neurocompatibile

      L’inadeguatezza del modello lezione-spiegazione-interrogazione ha portato a una nuova pedagogia delle neuroscienze. La cosiddetta neurodidattica propone formati brevi, modulari e multisensoriali, con momenti di rielaborazione attiva.

      Tra le alternative già in sperimentazione:

      • Spaced Learning (UK, progetto dell’OECD): lezioni da 20 minuti, interrotte da 10 minuti di attività motorie o ludiche. Risultato: +17% di ritenzione a lungo termine.
      • Metodo CLIL e flipped classroom: lo studente è al centro del processo, attivo nella costruzione di significato. Il docente diventa mediatore e facilitatore cognitivo.
      • Metodo finlandese: lezioni da 45 minuti, con pause ogni 15, alto uso di outdoor education. Secondo PISA 2022, la Finlandia è tra i Paesi con migliori risultati in reading e problem-solving.
      • Scuole senza voti (Germania, Olanda): il focus si sposta su feedback qualitativi e sviluppo metacognitivo.

      Progetti pilota italiani

      In Italia, alcune esperienze pionieristiche stanno tracciando nuove vie:

      • Istituto Comprensivo di Trento 7, con il progetto “Tempo modulato”: lezioni da 30 minuti, alternate a momenti di scrittura cooperativa, coding, attività teatrali.
      • Scuole Senza Zaino: al centro la responsabilizzazione dello studente e la progettualità personale.
      • “Didattica del silenzio” di Franco Lorenzoni, Casa-laboratorio di Cenci: stimolazione dell’intelligenza emotiva, non solo cognitiva.

      Quale futuro per la didattica?

      Occorre ripensare radicalmente la scansione temporale dell’apprendimento:

      • Moduli di 20-25 minuti con frequenti pause attive
      • Integrazione di attività motorie e manipolative
      • Valutazioni formative e non solo sommative
      • Ambienti di apprendimento flessibili e neuroergonomici

      La scuola del futuro dovrà essere bio-compatibile, adattata al ritmo cerebrale e non viceversa.

    5. Adolescenti senza riposo: la nuova epidemia del sonno interrotto

      Adolescenti senza riposo: la nuova epidemia del sonno interrotto

      Il sonno degli adolescenti: un problema sottodimensionato

      Dormire male o troppo poco non è più un’eccezione tra i giovani, ma una condizione diffusa che mina salute, apprendimento e sviluppo psico-affettivo. Oggi, i disturbi del sonno in adolescenza rappresentano una vera emergenza clinico-educativa. L’alterazione dei ritmi circadiani, l’abuso di dispositivi digitali e una società sempre più performativa stanno trasformando il sonno in un lusso biologico.

      Qualità del sonno in declino: cosa accade nel cervello

      La riduzione delle ore di sonno e l’alterazione del ritmo circadiano influiscono direttamente sulla regolazione di importanti neurotrasmettitori, tra cui serotonina, dopamina e melatonina. Studi condotti dal National Sleep Foundation e pubblicati su Sleep Health (2021) evidenziano che il ritardo della fase del sonno (DSPD – Delayed Sleep Phase Disorder) è sempre più comune: gli adolescenti tendono ad addormentarsi dopo mezzanotte e a svegliarsi con fatica, in una dissincronia biologica con gli orari scolastici.

      Inoltre, la fase REM – cruciale per la consolidazione mnemonica ed emotiva – risulta frammentata e insufficiente. L’eccessiva esposizione alla luce blu dei dispositivi elettronici inibisce la secrezione di melatonina, l’ormone che regola l’addormentamento. Ciò comporta un aumento significativo di irritabilità, calo dell’attenzione, disturbi del comportamento e sintomatologie ansioso-depressive.

      Conseguenze cliniche e scolastiche

      Uno studio dell’Università di Bologna (2023), condotto su un campione di oltre 3.000 adolescenti italiani, ha evidenziato che il 61% riferisce stanchezza cronica, il 39% disturbi dell’umore e il 22% un peggioramento del rendimento scolastico. I disturbi del sonno sono stati correlati anche all’aumento del rischio suicidario, secondo un’indagine longitudinale del CDC Youth Risk Behavior Survey (2020-2023).

      Gli adolescenti insonni tendono a sviluppare più frequentemente condotte a rischio (uso di sostanze, guida pericolosa, autolesionismo), in una spirale che autoalimenta l’instabilità emotiva.

      Scenari futuri e modelli di intervento

      Alla luce di questi dati, le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità invitano a una revisione dei tempi scolastici, suggerendo l’inizio delle lezioni non prima delle 9:00. Alcuni paesi come Finlandia e Canada hanno già sperimentato con successo tali modifiche, riportando miglioramenti nel benessere e nell’apprendimento.

      In ambito clinico, si stanno sperimentando nuovi approcci:

      • Terapie cronobiologiche: utilizzo di luce naturale artificiale per rieducare il ritmo circadiano.
      • Interventi psicoterapeutici cognitivo-comportamentali specifici per l’insonnia (CBT-I).
      • Supplementazioni di melatonina a basso dosaggio, sotto stretto controllo medico.
      • Educazione al sonno come parte del curriculum scolastico, con progetti pilota già attivi in Emilia-Romagna e Trentino-Alto Adige.

      Centri specializzati e servizi attivi

      In Italia esistono alcuni poli d’eccellenza per la diagnosi e il trattamento dei disturbi del sonno in età evolutiva:

      • Centro di Medicina del Sonno dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (Roma): valutazioni polisomnografiche e ambulatorio per disturbi del sonno in età evolutiva.
      • IRCCS Eugenio Medea (Bosisio Parini – LC): interventi multidisciplinari su bambini e adolescenti con insonnia primaria e secondaria.
      • Centro Regionale per i Disturbi del Sonno dell’Ospedale Maggiore di Bologna: orientato anche all’età adolescenziale.
      • Clinica del Sonno di Milano (Fondazione Mondino): eccellenza in diagnosi del ritardo di fase e disturbi associati a patologie neurologiche.
      • Servizi di Neuropsichiatria Infantile territoriali, oggi in fase di potenziamento grazie al PNRR e alle nuove linee guida regionali.

      Conclusione

      Il sonno degli adolescenti non può più essere un dettaglio secondario. È una necessità biologica, un indicatore di salute mentale, e un prerequisito per l’apprendimento e lo sviluppo.

      L’insonnia adolescenziale non va confusa con la pigrizia. È un campanello d’allarme neurobiologico. Riconoscerla e trattarla significa sostenere lo sviluppo cognitivo, prevenire possibili disagi psicologici.