Categoria: Scuola

  • Pedagogista e Psicologo: per una scuola che cura

    Pedagogista e Psicologo: per una scuola che cura

    Una complementarità necessaria

    Nel sistema scolastico contemporaneo, il pedagogista e lo psicologo scolastico rappresentano due figure professionali fondamentali e complementari. Se il primo opera sulla dimensione educativa, relazionale e metodologica dell’apprendimento, il secondo si concentra sul versante clinico, emotivo e psicologico del soggetto in età evolutiva.

    Insieme, pedagogia e psicologia costruiscono un ponte tra didattica e cura, tra progettazione educativa e ascolto dei disagi sommersi. In una scuola che vuole diventare davvero “ambiente di sviluppo integrale della persona”, l’alleanza tra questi due ruoli non è solo auspicabile: è urgente.

    Il ruolo del pedagogista

    Il pedagogista scolastico agisce su tre livelli:

    • Prevenzione delle difficoltà di apprendimento e di comportamento,
    • Progettazione di interventi educativi personalizzati (in sinergia con il docente),
    • Formazione del personale scolastico e dei genitori.

    Attraverso osservazioni sistematiche, analisi dei contesti e strumenti educativi, il pedagogista favorisce lo sviluppo di competenze trasversali, dalla motivazione alla regolazione emotiva, potenziando il contesto-classe nel suo complesso.

    Il ruolo dello psicologo scolastico

    Lo psicologo si occupa di:

    • Supporto psicologico individuale per studenti in difficoltà,
    • Valutazione di bisogni specifici, disturbi dell’apprendimento, disagi comportamentali e relazionali,
    • Sostegno alla genitorialità e al corpo docente.

    È inoltre figura chiave nei casi di bullismo, autolesionismo, ansia scolastica, disturbi dell’umore e da stress. La sua presenza costante (non occasionale) è indicata come fattore protettivo per il benessere dell’intera comunità scolastica (Fonte: CNOP, 2023).

    Progetti pilota e dati significativi

    📌 Progetto “Benessere a scuola” – Regione Emilia-Romagna

    • Figure coinvolte: psicologo e pedagogista, in sinergia con educatori e referenti BES.
    • Esiti: dopo 12 mesi, il 68% degli alunni seguiti ha mostrato miglioramenti nei comportamenti pro-sociali.
    • Riscontro docente: l’81% degli insegnanti ha dichiarato un miglior clima relazionale in classe.

    📌 “P.I.P.P.I.” – Programma di Intervento Per la Prevenzione dell’Istituzionalizzazione (Ministero del Lavoro e Università di Padova)

    • Coinvolge scuole, servizi sociali, famiglie e specialisti.
    • Il pedagogista lavora sull’empowerment familiare, mentre lo psicologo lavora sul benessere emotivo del minore.
    • Risultato: riduzione del rischio di allontanamento del minore in 3 casi su 4.

    📌 Progetto “Equità” – Città Metropolitana di Torino

    • Modello d’intervento integrato tra pedagogia e psicologia per contrastare la dispersione scolastica.
    • Dopo 2 anni: riduzione dell’abbandono scolastico del 24% nei plessi coinvolti.

    Quale scuola per il futuro?

    Numerosi piani ministeriali, tra cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), insistono sull’ampliamento delle equipe multiprofessionali a scuola. Il modello vincente è quello integrato, in cui pedagogisti, psicologi, educatori e assistenti sociali collaborano costantemente.

    Secondo l’ultimo report OCSE (2024), le scuole che adottano team interdisciplinari registrano:

    • un calo del 35% dei casi di drop-out,
    • un incremento del 48% nella partecipazione degli studenti ai progetti di cittadinanza attiva.

    Conclusione

    La presenza congiunta di pedagogisti e psicologi non rappresenta un lusso, ma una necessità. Solo attraverso un’azione sinergica, continuativa e professionale è possibile incidere davvero nel vissuto scolastico degli studenti e trasformare la scuola in uno spazio di cura, crescita e resilienza.

  • Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

    Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

    Riflessioni di un insegnante, psicologo, pedagogista e padre che da quasi 30 anni si occupa di integrazione, inclusione, neutodiversità…

    Questa è una lettera che nasce dove le parole spesso mancano: nel cuore ferito di un genitore che vede il proprio figlio non solo in difficoltà, ma escluso.

    Ci sono giorni in cui essere genitore di un bambino con disabilità intellettiva è come camminare su una fune tesa, senza rete di protezione. Non perché ci si vergogni, non perché si rinunci ad amarlo con tutto il cuore. Ma perché il dolore più profondo non nasce dalla diagnosi: nasce da ciò che succede dopo.


    Quando l’inclusione resta una parola

    C’è un momento esatto – e chi lo ha vissuto lo sa – in cui tuo figlio smette di essere “uno della classe” e diventa “un problema”.

    Quando la maestra – pur con la miglior buona volontà – ti fa capire che il gruppo classe “viene prima”.

    Quando gli altri bambini vengono incoraggiati a collaborare tra loro… mentre tuo figlio è accompagnato “a parte”, con pazienza, certo, ma anche con distanza.

    Quando l’inclusione viene nominata nei progetti e ignorata nelle dinamiche reali.

    E tu, genitore, torni a casa con la cartella piena di carte e il cuore vuoto. Perché tuo figlio non è un ostacolo alla crescita degli altri. È un bambino. E come ogni bambino, desidera appartenere.

    La solitudine dei genitori

    Si dice che serva un villaggio per crescere un bambino. Ma quando il bambino è fragile, spesso il villaggio si svuota.

    Restano i colloqui, i P.E.I., le buone intenzioni, ma manca lo sguardo profondo che riconosca nel bambino disabile una persona intera, non un frammento, non un “limite”.

    Essere genitore, in questi casi, è essere anche psicologo, terapista, segretario, avvocato del proprio figlio.

    Ma soprattutto, è essere testimone di un’esclusione che si consuma nel silenzio degli altri.

    Eppure l’aiuto è possibile

    L’aiuto vero non è pietà.

    Non è nemmeno la condiscendenza o l’applauso a fine recita.

    L’aiuto vero è lo sguardo educativo che non seleziona, ma si piega senza cedere, si adatta senza arrendersi.

    È la maestra che fa spazio non solo al programma, ma alla persona.

    È l’educatore che non vede un rallentamento ma una via diversa.

    È il compagno di classe che viene educato a riconoscere la diversità come ricchezza e non come ingombro.

    Unire la disperazione all’aiuto

    Come si tiene insieme la disperazione con la speranza di un aiuto effettivo?

    Con una sola parola: alleanza.

    L’alleanza tra scuola e famiglia non è un protocollo, ma un patto di fiducia.

    È dire: “Io vedo tuo figlio. Non come lo vorrei. Ma come è. E lo accolgo.”

    È smettere di difendersi e iniziare a costruire: insieme.

    Perché la disabilità non chiede compassione. Chiede relazioni vereattese pazientistrategie intelligenti.

    Conclusione

    A chi educa: non abbia paura di rallentare, di cambiare il ritmo della classe per accogliere chi ha bisogno.

    Non sarà tempo perso: sarà umanità guadagnata.

    Ai genitori, resti la forza di chiedere aiuto, senza cedere alla solitudine.

    Perché l’unica vera disabilità è un mondo che non vuole includere.

  • Studenti Muti all’Esame: Ribellione o Fallimento Educativo?

    Studenti Muti all’Esame: Ribellione o Fallimento Educativo?

    Quando il silenzio fa rumore: l’esame di maturità come teatro della crisi educativa

    Il recente fenomeno del “silenzio alla maturità”, messo in atto da alcuni studenti come forma di boicottaggio simbolico dell’Esame di Stato, rappresenta ben più di un atto di ribellione generazionale: è la spia evidente di un disagio sistemico, profondo, stratificato. Non siamo di fronte a semplici episodi isolati, ma a una forma estrema di disaffezione che, pur minoritaria, interpella la scuola e la società nel suo complesso.

    Un fallimento educativo travestito da protesta

    Quando uno studente decide di non rispondere, di non partecipare, di tacere per protesta, non sta solo criticando una prova d’esame. Sta denunciando un’intera architettura scolastica che, a suo dire, non lo ha ascoltato, né formato pienamente. È il sintomo di un fallimento educativo che ha smarrito l’orizzonte della motivazione, della relazione formativa, del significato del merito.

    Il vero problema non è il gesto eclatante, bensì ciò che lo precede: un’intera narrazione scolastica che, per molti, è percepita come alienante, impersonale, distante dalla realtà. La scuola valutativa, performativa, standardizzata, sembra perdere contatto con la sua vocazione originaria: educare alla responsabilità, al pensiero critico, alla cittadinanza.

    Il ministro Valditara e il giro di vite: una risposta necessaria?

    Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha annunciato una stretta disciplinare a partire dal prossimo anno, con l’introduzione della bocciatura automatica per chi si sottrae volontariamente all’Esame di Stato. Una misura forte, che trova giustificazione nel bisogno di ripristinare l’autorevolezza dell’istituzione scolastica e tutelare il valore del titolo di studio.

    Pur concordando con la necessità di difendere la dignità del sistema formativo, è fondamentale non confondere la fermezza con la rigidità. La repressione, da sola, non educa: deve essere accompagnata da una riflessione profonda sulle carenze pedagogiche che portano alcuni giovani a compiere simili gesti.

    I precedenti pericolosi: legittimare l’antimerito?

    Un esame boicottato non è un semplice “no” al sistema: è un gesto che rischia di legittimare l’antimeritocrazia e l’irresponsabilità diffusa. Quando il merito è svilito, quando il percorso scolastico viene visto come qualcosa da aggirare anziché da affrontare, si mina la credibilità dell’intero sistema educativo.

    Educare significa anche chiedere conto, stimolare la consapevolezza del valore dello studio e della fatica formativa. La scuola non è un contenitore neutro: è un laboratorio etico, dove si sperimenta l’impegno, si affrontano le difficoltà, si costruisce l’identità adulta.

    Luci di speranza: un’educazione che deve (ri)cominciare

    Non tutto è perduto. Questa protesta, se letta con intelligenza pedagogica, può trasformarsi in un’occasione di autoriflessione collettiva. Gli studenti che scelgono il silenzio andrebbero interrogati, ascoltati, compresi. Ma anche accompagnati a riscoprire il valore dell’impegno, della parola, della costruzione del sapere.

    È necessario promuovere una riforma culturale prima ancora che normativa: valorizzare la relazione educativa, ridefinire la valutazione in termini formativi, creare ambienti scolastici che siano davvero “luoghi di senso”. Non serve un esame più facile, serve un percorso scolastico più giusto, più significativo, più umano.

    Conclusione: tra fermezza e ascolto, la scuola può ancora educare

    La maturità non può diventare un palcoscenico per proteste autoreferenziali, né un tribunale ideologico contro l’intero sistema scolastico. Ma può e deve essere un punto di ripartenza. Serve una scuola che non premi il silenzio, ma che insegni ad abitare la parola, anche quella critica, con coraggio e competenza. Perché educare non significa solo trasmettere nozioni, ma accendere coscienze.

  • Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

    Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

    Il mito delle 5 ore: quanto apprendono davvero gli studenti?

    L’architettura oraria della scuola italiana — mediamente composta da cinque moduli da 60 minuti — risale a modelli educativi del primo Novecento. Oggi, le neuroscienze dimostrano che questo assetto è incompatibile con il funzionamento neurobiologico dell’attenzione umana, soprattutto in età evolutiva.

    Uno studio pubblicato su Teaching of Psychology (Wilson & Korn, 2007) ha evidenziato come il picco di attenzione si raggiunga nei primi 10-15 minuti di una lezione, per poi declinare drasticamente. Dopo 30 minuti, il cervello è già in fase di disimpegno. A 45 minuti, l’apprendimento è minimo, salvo nei casi in cui si introducano variazioni di stimolo, pause o metodi attivi.

    Quanto si trattiene dopo una giornata scolastica?

    Secondo la curva dell’oblio di Ebbinghaus, senza rinforzo:

    • Dopo 24 ore, si dimentica il 70% delle nozioni ricevute.
    • Dopo una settimana, resta meno del 10%.

    Questi dati sono stati confermati da ricerche più recenti sull’apprendimento, come quelle condotte da John Dunlosky e Elizabeth Bjork: la ripetizione distribuita, il recupero attivo e il testing effect sono decisivi per il consolidamento in memoria a lungo termine.

    Dalla lezione trasmissiva alla didattica neurocompatibile

    L’inadeguatezza del modello lezione-spiegazione-interrogazione ha portato a una nuova pedagogia delle neuroscienze. La cosiddetta neurodidattica propone formati brevi, modulari e multisensoriali, con momenti di rielaborazione attiva.

    Tra le alternative già in sperimentazione:

    • Spaced Learning (UK, progetto dell’OECD): lezioni da 20 minuti, interrotte da 10 minuti di attività motorie o ludiche. Risultato: +17% di ritenzione a lungo termine.
    • Metodo CLIL e flipped classroom: lo studente è al centro del processo, attivo nella costruzione di significato. Il docente diventa mediatore e facilitatore cognitivo.
    • Metodo finlandese: lezioni da 45 minuti, con pause ogni 15, alto uso di outdoor education. Secondo PISA 2022, la Finlandia è tra i Paesi con migliori risultati in reading e problem-solving.
    • Scuole senza voti (Germania, Olanda): il focus si sposta su feedback qualitativi e sviluppo metacognitivo.

    Progetti pilota italiani

    In Italia, alcune esperienze pionieristiche stanno tracciando nuove vie:

    • Istituto Comprensivo di Trento 7, con il progetto “Tempo modulato”: lezioni da 30 minuti, alternate a momenti di scrittura cooperativa, coding, attività teatrali.
    • Scuole Senza Zaino: al centro la responsabilizzazione dello studente e la progettualità personale.
    • “Didattica del silenzio” di Franco Lorenzoni, Casa-laboratorio di Cenci: stimolazione dell’intelligenza emotiva, non solo cognitiva.

    Quale futuro per la didattica?

    Occorre ripensare radicalmente la scansione temporale dell’apprendimento:

    • Moduli di 20-25 minuti con frequenti pause attive
    • Integrazione di attività motorie e manipolative
    • Valutazioni formative e non solo sommative
    • Ambienti di apprendimento flessibili e neuroergonomici

    La scuola del futuro dovrà essere bio-compatibile, adattata al ritmo cerebrale e non viceversa.

  • Adolescenti senza riposo: la nuova epidemia del sonno interrotto

    Adolescenti senza riposo: la nuova epidemia del sonno interrotto

    Il sonno degli adolescenti: un problema sottodimensionato

    Dormire male o troppo poco non è più un’eccezione tra i giovani, ma una condizione diffusa che mina salute, apprendimento e sviluppo psico-affettivo. Oggi, i disturbi del sonno in adolescenza rappresentano una vera emergenza clinico-educativa. L’alterazione dei ritmi circadiani, l’abuso di dispositivi digitali e una società sempre più performativa stanno trasformando il sonno in un lusso biologico.

    Qualità del sonno in declino: cosa accade nel cervello

    La riduzione delle ore di sonno e l’alterazione del ritmo circadiano influiscono direttamente sulla regolazione di importanti neurotrasmettitori, tra cui serotonina, dopamina e melatonina. Studi condotti dal National Sleep Foundation e pubblicati su Sleep Health (2021) evidenziano che il ritardo della fase del sonno (DSPD – Delayed Sleep Phase Disorder) è sempre più comune: gli adolescenti tendono ad addormentarsi dopo mezzanotte e a svegliarsi con fatica, in una dissincronia biologica con gli orari scolastici.

    Inoltre, la fase REM – cruciale per la consolidazione mnemonica ed emotiva – risulta frammentata e insufficiente. L’eccessiva esposizione alla luce blu dei dispositivi elettronici inibisce la secrezione di melatonina, l’ormone che regola l’addormentamento. Ciò comporta un aumento significativo di irritabilità, calo dell’attenzione, disturbi del comportamento e sintomatologie ansioso-depressive.

    Conseguenze cliniche e scolastiche

    Uno studio dell’Università di Bologna (2023), condotto su un campione di oltre 3.000 adolescenti italiani, ha evidenziato che il 61% riferisce stanchezza cronica, il 39% disturbi dell’umore e il 22% un peggioramento del rendimento scolastico. I disturbi del sonno sono stati correlati anche all’aumento del rischio suicidario, secondo un’indagine longitudinale del CDC Youth Risk Behavior Survey (2020-2023).

    Gli adolescenti insonni tendono a sviluppare più frequentemente condotte a rischio (uso di sostanze, guida pericolosa, autolesionismo), in una spirale che autoalimenta l’instabilità emotiva.

    Scenari futuri e modelli di intervento

    Alla luce di questi dati, le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità invitano a una revisione dei tempi scolastici, suggerendo l’inizio delle lezioni non prima delle 9:00. Alcuni paesi come Finlandia e Canada hanno già sperimentato con successo tali modifiche, riportando miglioramenti nel benessere e nell’apprendimento.

    In ambito clinico, si stanno sperimentando nuovi approcci:

    • Terapie cronobiologiche: utilizzo di luce naturale artificiale per rieducare il ritmo circadiano.
    • Interventi psicoterapeutici cognitivo-comportamentali specifici per l’insonnia (CBT-I).
    • Supplementazioni di melatonina a basso dosaggio, sotto stretto controllo medico.
    • Educazione al sonno come parte del curriculum scolastico, con progetti pilota già attivi in Emilia-Romagna e Trentino-Alto Adige.

    Centri specializzati e servizi attivi

    In Italia esistono alcuni poli d’eccellenza per la diagnosi e il trattamento dei disturbi del sonno in età evolutiva:

    • Centro di Medicina del Sonno dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (Roma): valutazioni polisomnografiche e ambulatorio per disturbi del sonno in età evolutiva.
    • IRCCS Eugenio Medea (Bosisio Parini – LC): interventi multidisciplinari su bambini e adolescenti con insonnia primaria e secondaria.
    • Centro Regionale per i Disturbi del Sonno dell’Ospedale Maggiore di Bologna: orientato anche all’età adolescenziale.
    • Clinica del Sonno di Milano (Fondazione Mondino): eccellenza in diagnosi del ritardo di fase e disturbi associati a patologie neurologiche.
    • Servizi di Neuropsichiatria Infantile territoriali, oggi in fase di potenziamento grazie al PNRR e alle nuove linee guida regionali.

    Conclusione

    Il sonno degli adolescenti non può più essere un dettaglio secondario. È una necessità biologica, un indicatore di salute mentale, e un prerequisito per l’apprendimento e lo sviluppo.

    L’insonnia adolescenziale non va confusa con la pigrizia. È un campanello d’allarme neurobiologico. Riconoscerla e trattarla significa sostenere lo sviluppo cognitivo, prevenire possibili disagi psicologici.

  • “Esame di Stato: è tempo di cambiare”

    “Esame di Stato: è tempo di cambiare”

    Quando un percorso si gioca in ore: un sistema da ripensare

    La prova finale della scuola superiore italiana – l’Esame di Stato – è spesso vissuta dagli studenti più come un giudizio sommario che come una celebrazione di un percorso formativo. Dopo cinque anni di studio, crescita, ostacoli superati, difficoltà familiari o personali, la valutazione viene compressa in una manciata di ore, in un contesto altamente ansiogeno, dove il rischio di inciampare è reale.

    Secondo i dati dell’ISTAT 2023, oltre il 71% degli studenti lamenta un senso di sproporzione tra l’impegno profuso durante l’intero ciclo scolastico e la modalità con cui si chiude il percorso. Il problema non è solo psicologico, ma pedagogico e valutativo.

    Una passerella, non un tribunale: cambiare prospettiva

    Si fa sempre più largo la proposta di ripensare l’Esame di Stato come una “passerella formativa”, un momento non di selezione, ma di valorizzazione del percorso compiuto. Un colloquio che tenga conto non solo delle conoscenze, ma anche delle competenze trasversali: emotive, relazionali, progettuali.

    Molti pedagogisti parlano di valutazione narrativo-riflessiva, dove lo studente racconta la propria evoluzione cognitiva ed emotiva, e non è giudicato su uno scritto che spesso ripropone modelli scolastici vetusti, anacronistici, decontestualizzati.

    Quesiti troppo distanti: il problema della distanza scuola-realtà

    Molte delle tracce proposte nelle prove scritte sono percepite come lontane dalla vita degli studenti, talvolta forzatamente retoriche o culturalmente decontestualizzate. Si dimentica che la scuola è lo specchio della società, e un esame dovrebbe essere il luogo in cui si misurano anche capacità di analisi, empatia, senso critico.

    Nel 2024, un’indagine del Censis ha evidenziato come il 62% dei maturandi ritenga “poco utili” o “non aderenti alla realtà” i temi proposti alla prima prova.

    Come si fa maturità altrove: uno sguardo europeo

    PaeseNome dell’EsameModalità
    FranciaBaccalauréatEsami orali e scritti, valutazione del percorso e delle soft skills dal 2021
    GermaniaAbiturProve scritte e orali, rilevanza del voto dell’ultimo anno scolastico
    Regno UnitoA-LevelsEsami centrati su tre materie scelte, forte peso alla valutazione continua
    FinlandiaYlioppilastutkintoEsami scritti digitali, molta flessibilità, focus su competenze personali
    SpagnaEvaluación de BachilleratoEsami centralizzati, parte dei voti viene dal rendimento scolastico

    Nota: I modelli più avanzati (Francia, Finlandia) stanno spostando il focus su colloqui individualizzati, dossier esperienziali, e prove che integrano competenze trasversali e digitali.

    Progetti pilota: c’è chi ci prova già in Italia

    • Scuola-Campus (Trento): alcune scuole sperimentano da anni una tesi finale discussa in modalità colloquiale, integrata da video e project work.
    • Liceo delle Scienze Umane “G. Bruno” (Roma): ha avviato un progetto di maturità riflessiva, con rubriche valutative che includono intelligenza emotiva, cooperazione e resilienza.
    • Progetto #CompetenzeChiave (MIUR): ha tracciato linee guida per una valutazione orientata a competenze europee chiave per l’apprendimento permanente.

    Conclusione: la maturità deve diventare un’opportunità educativa, non un trauma

    Un esame dovrebbe riconoscere la complessità di ogni studente e misurare ciò che davvero conta: capacità di apprendere, di riflettere, di relazionarsi con il mondo. Serve coraggio politico, visione pedagogica e una scuola che si emancipi dal culto della prestazione per abbracciare quello della formazione integrale.

  • Look per l’Esame di Maturità

    Look per l’Esame di Maturità

    L’identità passa anche attraverso la stoffa che scegliamo di indossare.” D.L.

    Un rito di passaggio, non una passerella

    L’esame di maturità non è solo una prova scolastica. È il primo vero rito di passaggio sociale e psicologico che traghetta lo studente dall’adolescenza alla giovane età adulta. In questo momento di esposizione pubblica — dove si affronta un’interrogazione di fronte a una commissione — l’abito non fa il monaco, ma certamente comunica chi sei e come ti poni nel mondo.

    Vestirsi in modo adeguato significa sapersi contestualizzare, comprendere che l’abbigliamento è parte del linguaggio non verbale che accompagna e rinforza il nostro messaggio.

    Non troppo eleganti, né trasandati: la via della sobrietà

    Gli studi di psicologia sociale (Argyle, 1988) dimostrano che l’abbigliamento influenza la percezione della credibilità, competenza e sicurezza di sé. Presentarsi in modo trasandato, o al contrario eccessivamente formale, può comunicare disorientamento, esibizionismo o insicurezza.

    La chiave è la sobrietà intelligente:

    • per i ragazzi, pantaloni lunghi (non strappati), camicia o polo, scarpe chiuse (no ciabatte o infradito);
    • per le ragazze, evitare eccessi (scollature, minigonne, trucco marcato), preferendo abiti freschi ma sobri.

    Vestirsi bene non significa rinunciare alla propria personalità, ma saperla incanalare in un contesto pubblico che richiede rispetto.

    Il corpo come messaggio: postura e presenza

    Oltre all’abbigliamento, il modo di stare seduti, lo sguardo e la postura parlano della maturità raggiunta. Un corpo che si presenta composto, ordinato, con uno sguardo presente e non sfuggente, comunica sicurezza e rispetto. Questo vale anche per la voce: tono, ritmo, chiarezza.

    Educare al “sapersi porre”: un compito anche per la scuola e la famiglia

    Nessuno nasce “imparato”. Sapersi porre in un contesto pubblico è una competenza educativa che si apprende, ed è responsabilità congiunta di scuola e famiglia. Troppo spesso, l’abito viene lasciato al caso o visto come un fatto privato. Ma l’abito è anche un fatto culturale: un esercizio di decentramento, di lettura dell’altro e del contesto.

    In sintesi

    • Vestirsi per l’esame significa mostrare rispetto per l’occasione.
    • È un esercizio di empatia situazionale, non un’imposizione.
    • È un primo passo per abitare con consapevolezza gli spazi sociali dell’età adulta.

    L’importanza psicologica del vestirsi bene

    Vestirsi in modo ordinato e rispettoso non serve solo a “fare buona impressione”, ma aiuta anche a consolidare un atteggiamento mentale di serietà, ordine e padronanza. Secondo uno studio condotto dall’Università del Wisconsin(2015), studenti che vestivano in modo più formale durante test orali mostravano un maggiore controllo cognitivo e minore ansia percepita.

    Inoltre, vestirsi bene per un’occasione formale rafforza l’identità adulta, promuovendo quel senso di autoefficacia di cui parla Albert Bandura nella sua teoria sull’apprendimento sociale.

    Conclusione: educare alla decenza, non al giudizio

    Educare al vestiario non è giudicare, ma allenare lo sguardo al contesto, affinché il corpo non sia mai fuori luogo rispetto al compito. In un tempo che tende a sfumare le differenze tra occasioni, è un atto pedagogico insegnare che ogni tempo ha un suo linguaggio, anche visivo.

  • Legge 104: inclusione scolastica: diritti, PEI e figure storiche

    Legge 104: inclusione scolastica: diritti, PEI e figure storiche

    La legge 104/92: fondamento giuridico dell’inclusione scolastica

    La Legge n. 104 del 5 febbraio 1992 rappresenta la pietra angolare del sistema italiano di tutela e valorizzazione delle persone con disabilità, in particolare in ambito scolastico. Essa riconosce il diritto all’educazione e all’istruzione nella scuola pubblica per tutti gli alunni con disabilità, promuovendo un modello di inclusione attiva e non meramente assistenziale.

    Tale normativa ha profondamente trasformato l’approccio della scuola, sostituendo la logica dell’esclusione e della differenziazione (tipica delle classi speciali o differenziali) con quella dell’inclusione, intesa come progettazione personalizzata e corresponsabilità educativa.

    Il PEI: cuore dell’intervento educativo personalizzato

    Il Piano Educativo Individualizzato (PEI) è il documento cardine attraverso cui si attua l’inclusione. Introdotto ufficialmente dalla Legge 104, ma concettualmente anticipato da normative precedenti (DPR 416/74, Legge 517/77), il PEI rappresenta la progettazione integrata e dinamica degli interventi didattici, educativi e riabilitativi.

    Il PEI è redatto annualmente dal Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione (GLO), che coinvolge docenti curricolari, docente di sostegno, famiglia, specialisti sanitari, educatori e rappresentanti dell’ente locale. Dal 2020 (D.Lgs. 66/2017 e i suoi decreti attuativi), il PEI è stato ulteriormente normato e digitalizzato, con nuovi modelli nazionali.

    Gli alunni “H”: un termine oggi superato

    La sigla “H” indicava in passato gli alunni con “handicap”, ma oggi è considerata obsoleta e poco rispettosa. Si preferisce parlare di alunni con disabilità, sottolineando un cambiamento semantico e culturale che mette la persona al centro, non la sua menomazione.

    Le radici storiche: da Basaglia a Casale

    La conquista dell’inclusione scolastica in Italia è frutto di una lunga battaglia culturale e giuridica. Tra le figure chiave:

    • Franco Basaglia, psichiatra e riformatore, fu il promotore della Legge 180/1978 che sancì la chiusura dei manicomi. Il suo pensiero ha ispirato una visione della disabilità come diversità, non come devianza.
    • Mirella Antonione Casale, pedagogista e ispettrice ministeriale, è la mente pedagogica dietro la transizione dalle classi differenziali all’integrazione. A lei si deve la stesura delle prime Linee Guida per l’integrazione scolastica e la diffusione del concetto di “didattica inclusiva”.
    • Loris Malaguzzi, fondatore dell’esperienza di Reggio Children, ha dato impulso a una visione antropologica e democratica dell’educazione, in cui ogni bambino ha cento linguaggi, anche quelli che la disabilità non riesce a spegnere.

    Un cammino di civiltà

    Il processo legislativo e pedagogico che ha portato alla Legge 104 è stato lento, ma inarrestabile. Prima della 104, la Legge 517/1977 aveva già abolito le classi speciali, introducendo il concetto di integrazione. Con la 104, questo concetto si trasforma in inclusione, ovvero nella volontà di adattare il contesto educativo alle necessità dell’alunno, e non viceversa.

    Conclusione: tra diritto e progetto di vita

    L’inclusione non è una concessione, ma un diritto costituzionale. È lo Stato che si fa carico di garantire pari opportunità formative attraverso strumenti normativi, progettualità didattica e presenza di figure specialistiche.

  • Mirella Antonione Casale: la rivoluzione gentile dell’inclusione

    Mirella Antonione Casale: la rivoluzione gentile dell’inclusione

    L’inizio: un tempo d’ombra

    C’è stato un tempo in cui la scuola italiana somigliava troppo a un’istituzione disciplinare: chi non rientrava nei canoni prestabiliti della “normalità” veniva isolato, allontanato, espulso — pur restando, formalmente, “accolto”. Le cosiddette classi differenziali, istituite ufficialmente nel 1928 e attive fino alla fine degli anni Settanta, non erano altro che una forma legittimata di ghettizzazione.

    Non erano rare le diagnosi affrettate, i giudizi lapidari, le esclusioni mascherate da “forme speciali di attenzione”. Si trattava, in realtà, di un’esclusione sistemica, istituzionalizzata, che legittimava l’idea che alcuni corpi e alcune menti non fossero degne di partecipare al dialogo educativo.

    In quel panorama rigidamente normativo e clinico, la scuola diventava spesso lo specchio del manicomio: una struttura che seleziona, separa, stigmatizza. Era l’eco, nell’ambito dell’istruzione, dello stesso sistema psichiatrico contro cui Franco Basaglia stava già conducendo la sua battaglia etica e politica. Come il manicomio, anche la scuola separava per “curare”, ma in realtà creava stigmi indelebili. In questa struttura chiusa, l’alunno con disabilità o difficoltà specifiche non era considerato soggetto di diritto, ma oggetto da custodire. In una parola: da neutralizzare.

    La svolta: Casale e la voce degli esclusi

    In questo scenario si staglia, con discrezione e forza, la figura di Mirella Antonione Casale: pedagogista, studiosa, e soprattutto visionaria dell’inclusione. Attiva negli anni in cui Basaglia apriva le porte dei manicomi, Casale intuì che la “cura” per l’esclusione non poteva consistere in adattamenti esterni, ma doveva passare da una rivoluzione interna al sistema educativo.

    Fu tra le prime a sostenere l’importanza della piena integrazione scolastica degli alunni con disabilità, non come concessione caritatevole, ma come diritto inalienabile. A lei si devono le prime riflessioni organiche sul superamento delle classi differenziali, sulle “barriere didattiche” e sulla necessità di misure compensative e dispensative per garantire pari dignità e accesso al sapere.

    Casale, con il rigore della pedagogista e la sensibilità dell’educatrice, fu una delle voci più autorevoli nella stesura della Legge 517 del 1977, pietra miliare della scuola italiana che decretava la chiusura delle classi speciali e l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi comuni. Un atto epocale, figlio di un tempo che cominciava a parlare, finalmente, la lingua dei diritti.

    Basaglia e Casale: due fronti dello stesso orizzonte

    È in questo clima che Franco Basaglia comincia la sua rivoluzione. Con la chiusura dei manicomi e l’approvazione della Legge 180 del 1978, egli non libera soltanto i reclusi della psichiatria, ma ridefinisce il concetto stesso di persona: nessuno può essere ridotto alla sua diagnosi. Il suo pensiero — che la libertà non è un premio da meritare, ma una condizione originaria — si espande oltre l’ospedale psichiatrico.

     Mirella Antonione Casale, con minore visibilità ma pari intensità etica, porta avanti una riforma pedagogica che guarda alla persona prima del suo “deficit”, e si oppone radicalmente alla medicalizzazione dell’educazione. Dove il sistema vedeva devianza o ritardo, Casale scorgeva potenzialità da liberare, differenze da valorizzare.

    Da qui l’abolizione delle classi speciali, la valorizzazione della didattica individualizzata, l’introduzione dei docenti di sostegno, prima ancora che si parlasse di “inclusione” come parola chiave.

    L’eredità invisibile ma decisiva

    Oggi chi entra in un’aula con un PDP o un PEI, chi affronta un esame universitario con il tempo aggiuntivo, chi riceve materiali personalizzati, sta camminando lungo il sentiero aperto da Mirella Antonione Casale.

    La sua pedagogia dell’inclusione ha saputo ricucire le lacerazioni della scuola selettiva, restituendo alla didattica il suo compito più alto: accogliere, comprendere, valorizzare. E in un’epoca che ancora fatica a coniugare giustizia ed equità, la sua figura andrebbe riscoperta, studiata, onorata. Non solo nei testi, ma nella pratica quotidiana di ogni aula.

    In un tempo in cui si rischia di dimenticare la radice delle conquiste civili, è doveroso ricordare che dietro ogni diritto c’è un pensiero, una lotta, una visione.

  • Oltre la media matematica nella scuola di oggi

    Oltre la media matematica nella scuola di oggi

    Per decenni, la scuola italiana ha fatto della media matematica dei voti la bussola della valutazione, considerandola un criterio oggettivo e facilmente quantificabile. Tuttavia, gli sviluppi recenti nel campo della docimologia — la scienza della valutazione scolastica — mettono in discussione la sua efficacia, mostrando come tale approccio possa risultare riduttivo e, in alcuni casi, dannoso per la crescita psicologica e formativa dell’allievo.

    Perché la media matematica non basta più

    L’uso esclusivo della media aritmetica per valutare gli studenti tende a:

    • Uniformare realtà diverse, ignorando progressi individuali;
    • Penalizzare chi parte in svantaggio, favorendo chi ha già prerequisiti solidi;
    • Indurre ansia da prestazione, con effetti negativi sull’autostima (cfr. Hattie, 2009).

    Uno studio pubblicato su The Journal of Educational Measurement (2021) evidenzia come la valutazione basata unicamente su numeri porti a una sovraesposizione al giudizio e a una cristallizzazione dell’identità scolastica, specialmente in età adolescenziale.

    Valutazione progressiva ed educativa: modelli alternativi

    Negli ultimi anni, sempre più istituti scolastici stanno adottando una valutazione progressiva, centrata su:

    • Osservazione dei progressi nel tempo, anche in termini qualitativi;
    • Feedback narrativo e orientato allo sviluppo;
    • Autovalutazione e metacognizione, per rafforzare l’autoefficacia dello studente.

    Questo approccio si ispira ai lavori di Carol Dweck sul growth mindset, secondo cui il voto dovrebbe essere un indicatore di percorso, non un’etichetta definitiva.

    Progetti pilota e sperimentazioni

    Italia: “Valutare per apprendere”

    Nel 2023 il MIUR ha avviato, in alcune scuole secondarie di primo grado, il progetto “Valutare per apprendere”, con l’obiettivo di superare la tradizionale griglia numerica. I risultati preliminari indicano:

    • una diminuzione del tasso di abbandono scolastico del 12%;
    • un incremento dell’autoefficacia percepita da parte degli studenti (misurata attraverso lo Self-Efficacy Questionnaire for Children).

    Finlandia e Norvegia: esempi nordici di eccellenza

    In Finlandia, da anni, la valutazione non numerica è la norma fino ai 14 anni. Il focus è su descrittori formativi che guidano lo studente nel riconoscere le proprie aree di miglioramento. Analogamente, in Norvegia, il sistema educativo punta sulla valutazione formativa, collegata a obiettivi individualizzati e piani di sviluppo personali.

    Un cambiamento culturale prima ancora che metodologico

    Il passaggio da una valutazione sommativa a una educativa richiede un cambio di paradigma per docenti, studenti e famiglie. Non si tratta di “essere buoni”, ma di responsabilizzare l’apprendimento e rendere la valutazione uno strumento evolutivo.

    Come ricorda Edgar Morin:

    “La testa ben fatta vale più di una testa ben piena”.