Categoria: Scuola

  • Ripensare la scuola per salvare la salute mentale degli studenti

    Ripensare la scuola per salvare la salute mentale degli studenti

    Il maggio nero degli studenti

    A partire dalla seconda metà di aprile, fino alla fine di maggio, le aule scolastiche italiane si trasformano in veri e propri centri di pressione psicologica. È la fase delle “interrogazioni di recupero”, dei compiti a raffica, delle verifiche finali accumulate in nome della valutazione. Uno sforzo intensivo che rischia di vanificare mesi di apprendimento e di compromettere il benessere psico-fisico degli adolescenti.

    Secondo recenti studi dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre il 38% degli studenti tra i 13 e i 18 anni presenta sintomi riconducibili ad ansia scolastica, con picchi proprio nel periodo di maggio. Non sono rari gli episodi di attacchi di panico, insonnia, somatizzazioni e crolli emotivi.

    Il paradosso valutativo

    Questa corsa finale alla prestazione si fonda su un equivoco educativo: valutare equivale a “verificare” in modo intensivo, senza tener conto del carico cognitivo ed emotivo. Il paradosso è evidente: mentre il sistema scolastico predica il benessere psicologico e l’educazione socio-emotiva, nella prassi lo nega sistematicamente, sottoponendo gli studenti a vere maratone ansiogene.

    Un calendario scolastico da ripensare

    L’idea di concentrare tutte le valutazioni nelle ultime settimane dell’anno scolastico non è solo inefficace dal punto di vista didattico, ma anche dannosa. Una scuola più equa e inclusiva dovrebbe rivedere l’architettura temporale della valutazione, diluendo i momenti critici e valorizzando la valutazione formativa e continua, come suggerito da pedagogisti come Philippe Perrenoud e Maurizio Gentile.

    Intelligenze analogiche in un mondo digitale

    In un contesto dominato dalla rapidità e dalla prestazione digitale, è urgente recuperare le cosiddette intelligenze analogiche (Rivoltella, 2016): capacità di riflessione, pensiero lento, empatia, attenzione condivisa. Queste competenze vengono sistematicamente mortificate da una scuola che, a maggio, si fa giudice implacabile, dimenticando la propria missione formativa.

    Quali strategie per la scuola del futuro?

    Una scuola più sana e sostenibile per la mente deve:

    • Dilazionare le valutazioni nel corso dell’anno scolastico con micro-feedback costanti.
    • Ridurre il peso delle interrogazioni frontali e promuovere forme di valutazione autentica (portfolio, presentazioni, auto-valutazione).
    • Formare i docenti a riconoscere i segnali di disagio emotivo e a gestire le dinamiche di ansia prestazionale.
    • Introdurre sportelli di ascolto psicologico in ogni scuola, attivi soprattutto nel periodo conclusivo dell’anno.
    • Ripensare l’orario scolastico, prevedendo momenti di decompressione e attività metacognitive.

    Come affermava John Dewey, “l’educazione non è preparazione alla vita, è la vita stessa”. Non possiamo permetterci che il sistema scolastico diventi un fattore di rischio per la salute mentale dei ragazzi. È tempo di scegliere tra la scuola della prestazione e quella della formazione. Il cambiamento non è più procrastinabile: in gioco c’è il futuro delle nostre intelligenze più fragili, ma anche più umane.

  • Il pedagogista nella scuola: un professionista  troppo spesso invisibile

    Il pedagogista nella scuola: un professionista troppo spesso invisibile

    Un alleato strategico nella comunità educante

    Nella scuola italiana, si parla spesso di una figura di supporto come lo psicologo scolastico, necessaria a parer mio, ma troppo raramente si pensa a valorizzare il ruolo del pedagogista. Eppure questa figura professionale, definita dalla Legge 205/2017 in attesa dell’istituzione di un vero e proprio Albo professionale, è essenziale per la progettazione educativa, l’orientamento formativo e la prevenzione del disagio evolutivo e relazionale.

    Il pedagogista è colui che pensa la scuola prima ancora di abitarla, che osserva, media, forma e orienta. Non è un tecnico dell’istruzione, ma un architetto del clima educativo e relazionale, capace di leggere i bisogni latenti e trasformarli in prassi trasformative.

    Una funzione di sistema, non di sportello

    Non è un operatore da “emergenza”, ma un consulente strutturale. Interviene nella formazione permanente del corpo docente, nell’osservazione dei gruppi classe, nella definizione dei PEI e PDP, e nella gestione delle dinamiche conflittuali. Il suo sguardo è sistemico, non individualizzante.

    Secondo un’indagine ANPE (2023), oltre il 70% degli insegnanti si sente privo di strumenti per gestire il disagio emotivo e comportamentale. Eppure, soltanto in pochissime scuole italiane è presente stabilmente un pedagogista, nonostante la normativa lo consenta e la sua figura sia prevista in molte linee guida ministeriali, come quelle sull’inclusione e sul contrasto alla dispersione scolastica.

    Un presidio contro la dispersione e il burnout docente

    Il pedagogista non si sostituisce all’insegnante né allo psicologo. Collabora. Accompagna. Costruisce reti.

    La sua presenza è decisiva nella gestione della complessità scolastica contemporanea: multicultura, BES, famiglie fragili, cyberbullismo, disturbi specifici dell’apprendimento, autismo, ADHD.

    Inoltre, rappresenta un punto di riferimento anche per i docenti, spesso logorati da carichi emotivi, pressioni burocratiche e conflitti con le famiglie. Avere accanto un pedagogista significa avere uno spazio di confronto professionale che consente di rielaborare le fatiche e riattivare risorse interne.

    Un investimento culturale prima che economico

    Inserire pedagogisti a tempo pieno nelle scuole non è solo una questione di fondi. È una scelta politica e culturale. Significa scommettere su una scuola che non si limita alla trasmissione del sapere, ma che forma cittadini capaci di pensiero critico, affettività e responsabilità.

    Come ricordava Paulo Freire, “l’educazione non cambia il mondo, ma cambia le persone che cambieranno il mondo”. E il pedagogista è il professionista che guida questo processo trasformativo.

  • Il figlio nella madre: un legame tra scienza, cuore e psiche

    Il figlio nella madre: un legame tra scienza, cuore e psiche

    «Della madre non ci si libera mai del tutto, anche quando si è tagliato il cordone ombelicale» scrive la poetessa svedese Karin Boye. Questa affermazione, intensa e simbolica, trova oggi un’eco scientifica sorprendente: la scienza ha scoperto che le cellule del figlio possono persistere nel corpo materno per decenni, insinuandosi in organi vitali come il cuore, il fegato e persino il cervello. Questo fenomeno affascinante prende il nome di microchimerismo fetale.

    Un legame biologico che va oltre la nascita

    Durante la gravidanza, cellule del feto attraversano la barriera placentare e si integrano nei tessuti materni. Alcuni studi, come quello pubblicato sul Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS, 2012), hanno dimostrato che cellule fetali sono presenti nel cervello materno anche 18 anni dopo il parto, sollevando interrogativi su come queste cellule influenzino la neurobiologia e la psicologia materna.

    Cellule che curano, organi che ricordano

    La presenza di queste cellule non è puramente simbolica: esse intervengono nella rigenerazione dei tessuti, in particolare in caso di danno. Ricerche pubblicate su Nature Reviews Cardiology suggeriscono che cellule fetali possono differenziarsi in cardiomiociti, contribuendo alla riparazione del muscolo cardiaco dopo un infarto.

    Analogamente, uno studio del 2020 (pubblicato su Frontiers in Immunology) ha evidenziato il ruolo del microchimerismo fetale nel modulare la risposta immunitaria materna, con implicazioni sia protettive che patologiche, come in alcune malattie autoimmuni.

    Una memoria cellulare dell’amore

    Il microchimerismo non è un semplice residuo biologico: è una testimonianza viva della relazione madre-figlio. La scoperta di cellule fetali nel cervello apre la possibilità che queste influenzino comportamenti, emozioni e persino la resilienza psicologica della madre. In tal senso, la maternità diventa una scrittura cellulare incisa nel corpo, una memoria molecolare dell’amore.

    Un vincolo bidirezionale?

    Alcuni studi indicano anche un microchimerismo inverso, ovvero cellule materne nei tessuti fetali. Si delinea così una relazione biologica bidirezionale, un’eco molecolare dell’intimità della gravidanza, che sopravvive all’infanzia, all’adolescenza, e forse alla vita stessa.

    Conclusione

    Il microchimerismo fetale rappresenta una delle scoperte più poeticamente potenti della biologia moderna: il figlio, una volta formato nel grembo, non se ne va mai del tutto. Resta come traccia cellulare, come potenziale guarigione, come memoria vivente dell’unione originaria. È la materia stessa dell’amore materno, scritta nei tessuti e negli organi, forse anche nei pensieri.

    Come scrisse Emily Dickinson:

    «La madre è uno scrigno che custodisce ciò che il mondo non può vedere».

    Oggi la scienza ci dice che questo scrigno è fatto anche di cellule altrui: quelle dei figli.

  • Pedagogia innovativa: il sistema educativo finlandese

    Pedagogia innovativa: il sistema educativo finlandese

    Il sistema scolastico finlandese è considerato uno dei più avanzati e inclusivi al mondo, grazie a un approccio pedagogico che mette al centro il benessere degli studenti, l’equità e l’apprendimento personalizzato. La Finlandia ha rivoluzionato l’educazione tradizionale, spostando l’attenzione dai risultati accademici standardizzati al potenziamento delle capacità individuali e alla crescita olistica di ciascun alunno. Questo modello educativo, caratterizzato da un’elevata autonomia sia per gli insegnanti che per gli studenti, promuove la curiosità, il pensiero critico e la creatività. 

    Tra i principi fondamentali vi è la convinzione che l’istruzione non debba essere competitiva, ma inclusiva, favorendo la collaborazione e il rispetto reciproco. Le scuole finlandesi offrono ambienti di apprendimento accoglienti, con orari flessibili e ampie pause, per ridurre lo stress e garantire un equilibrio tra studio e vita personale. Grazie all’insegnamento interdisciplinare e alla formazione eccellente degli insegnanti, il sistema finlandese ha raggiunto risultati straordinari, diventando un esempio globale di pedagogia innovativa e sostenibile.

    Caratteristiche della pedagogia finlandese

    1. Apprendimento personalizzato
      Gli insegnanti finlandesi adottano un approccio individualizzato, adattando i metodi educativi alle esigenze specifiche di ogni studente. Viene data grande importanza alla diversità, con l’obiettivo di garantire pari opportunità a tutti, indipendentemente dalle capacità o dal background socio-economico.
    2. Flessibilità e autonomia
      Gli studenti sono incoraggiati a sviluppare un pensiero critico e a prendere decisioni autonome. Le lezioni integrano attività pratiche e interdisciplinari, spesso legate alla vita reale, per stimolare curiosità e creatività.
    3. Focus sul benessere
      Il sistema educativo finlandese considera il benessere emotivo e psicologico una priorità. Le scuole offrono ambienti accoglienti, con orari meno stressanti e pause frequenti per favorire la concentrazione e ridurre l’ansia.
    4. Qualità degli insegnanti
      Gli insegnanti sono altamente qualificati: è richiesta una laurea magistrale, e solo il 10% dei candidati viene ammesso ai corsi universitari di formazione. Gli educatori ricevono grande rispetto sociale, al pari di medici e avvocati.
    5. Valutazione non competitiva
      La Finlandia riduce al minimo l’uso di test standardizzati. Le valutazioni si concentrano sul progresso individuale piuttosto che sul confronto tra studenti, favorendo una competizione sana e costruttiva.
    6. Inclusione delle famiglie
      I genitori sono considerati partner attivi nel processo educativo. La comunicazione scuola-famiglia è costante e orientata al supporto reciproco.
    7. Apprendimento interdisciplinare
      Dal 2016, la Finlandia ha introdotto l’“insegnamento basato sui fenomeni” (phenomenon-based learning), che sostituisce in parte le materie tradizionali con progetti interdisciplinari che trattano temi complessi come l’ambiente, la tecnologia o la società.

    Risultati concreti

    • Secondo i risultati PISA, la Finlandia eccelle in lettura, matematica e scienze.
    • Gli studenti finlandesi riportano alti livelli di soddisfazione e bassi tassi di stress.
    • L’abbandono scolastico è tra i più bassi d’Europa, mentre il livello di alfabetizzazione è tra i più alti al mondo.

    Un modello per altre nazioni?

    Nonostante il successo del sistema finlandese, trasferirlo in altri contesti richiede considerazioni culturali e strutturali. Ad esempio, l’alto livello di fiducia sociale e il benessere economico della Finlandia facilitano l’implementazione di questo modello. Tuttavia, principi come la personalizzazione, l’importanza del benessere e il focus sulle competenze trasversali possono essere adattati con successo in molte scuole del mondo.

  • AUSCHWITZ E LA MEMORIA: un viaggio nel cuore della storia

    AUSCHWITZ E LA MEMORIA: un viaggio nel cuore della storia

    Era un’estate torrida quando varcai i cancelli di Auschwitz per la prima volta. Ricordo il calore soffocante e il cielo limpido, ma anche una sensazione di inquietudine che cresceva a ogni passo. La scritta “Arbeit macht frei” campeggiava sopra l’ingresso come un’ombra oscura. Non era solo un viaggio, ma un confronto diretto con il passato più buio dell’umanità. Mi tornò in mente il racconto di un caro amico, sopravvissuto ai campi, che una volta mi disse: “Non è il freddo o la fame che ricordi, ma il silenzio che ti avvolge e ti toglie ogni speranza.” Quel silenzio lo avrei percepito anch’io durante la mia visita.
    Camminando sul ciottolato del campo, circondato da pietre luttuose che delimitavano gli spazi, percepii un silenzio tombale.

    Quel silenzio, interrotto solo dal lieve scricchiolio dei passi sul terreno, sembrava amplificare un’eco di dolore mai sopito. Le mura scure delle baracche, i fili spinati che tagliavano il cielo, e il vento che soffiava tra le strutture come un sospiro lontano contribuivano a creare un’atmosfera surreale, quasi irreale. Ogni angolo sembrava parlare, sussurrando storie di sofferenza e resistenza che si intrecciavano nel silenzio opprimente. Era un silenzio che non solo accompagnava i passi dei visitatori, ma sembrava amplificare un grido di dolore che ancora echeggiava. Il tempo sembrava essersi fermato, rallentato per contemplare l’eco di sofferenze indicibili. Ogni angolo del campo trasudava dolore: un dolore che si percepiva nei poster con i volti smunti dei prigionieri, nelle baracche sovraffollate, nei letti a castello che ospitavano fino a 14 persone, nei passi di chi, in un’altra epoca, aveva marciato verso la morte senza una piena consapevolezza di quanto stesse accadendo.

    Quell’illusione di un destino meno crudele, alimentata da promesse vuote, fu il più grande tradimento. Le camere a gas, tra cui una ancora intatta, rivelavano l’atrocità di un inganno mortale. Il gas Zyklon B penetrava dall’alto, mietendo vite in un’agonia di sofferenza. L’odore acre e il gelo spirituale di quei luoghi sembravano riempire l’aria, ricordando che in quei forni crematori non furono bruciati solo corpi, ma anche speranze, sogni e l’umanità stessa.

    Una domanda senza risposta
    Mentre lasciavo Auschwitz, un’unica domanda continuava a risuonare nella mia mente: Perché. Come è stato possibile che il mondo intero sia rimasto a guardare mentre milioni di vite venivano spezzate? In quegli anni, le tensioni geopolitiche e il silenzio di molti governi contribuirono a lasciare campo libero all’orrore. La conferenza di Evian del 1938, ad esempio, dimostrò l’indifferenza internazionale verso i rifugiati ebrei, un segnale inquietante della mancanza di interventi concreti. Questo silenzio pesa ancora come un macigno sulla coscienza collettiva. Come è stato possibile permettere che accadesse tutto questo? Perché nessuno fermò questa tragedia prima che fosse troppo tardi? Domande che restano sospese nel tempo e nello spazio, a cui ogni generazione è chiamata a rispondere attraverso la memoria e la testimonianza.

    Primo Levi e il dovere della memoria
    Primo Levi, con le sue parole, ci ha ammonito: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Auschwitz non è solo un luogo fisico, ma un simbolo della malvagità a cui l’essere umano può arrivare se dimentica i valori di rispetto e dignità. Questo monito resta attuale davanti alle crisi umanitarie contemporanee, come i conflitti armati che vedono civili innocenti privati dei loro diritti fondamentali, o l’odio che si manifesta attraverso il razzismo e l’intolleranza ancora oggi presente in molte società. La memoria è l’unico antidoto contro il rischio che simili atrocità possano ripetersi.

    Ogni visita ad Auschwitz è un invito a riflettere. Vi invito a visitare questo luogo di memoria o a documentarsi di più sulla Shoah. Solo comprendendo l’orrore di quanto è accaduto possiamo impegnarci a costruire una società basata sul rispetto, sulla dignità e sulla pace. Il passato ci parla: ascoltiamolo. Non possiamo cancellarlo ma possiamo imparare da esso per costruire un futuro migliore. Ricordare è un dovere morale: è il modo in cui possiamo rendere giustizia a chi ha sofferto e garantire che la storia non si ripeta. Auschwitz non è un parco a tema: è un monito eterno, un grido di dolore che ci impone di non dimenticare mai.

  • Burnout scolastico: il peso invisibile del lavoro dietro le quinte

    Burnout scolastico: il peso invisibile del lavoro dietro le quinte

    Scuola e Burnout: sfide nascoste e soluzioni per il benessere di docenti e personale

    La scuola italiana è un microcosmo pulsante, un intreccio di storie professionali fatte di impegno, responsabilità e carichi stressogeni che spesso passano inosservati agli occhi esterni. I luoghi comuni spesso diventano lenti distorte per interpretare una realtà ben più complessa. L’immagine idealizzata del “dolce far niente” non collima con un contesto in cui il lavoro quotidiano si estende ben oltre le mura scolastiche e gli orari ufficiali. Una prova evidente di ciò è stata l’esperienza pandemica, durante la quale il personale docente e amministrativo ha dimostrato una straordinaria capacità di adattamento, gestendo la transizione alla didattica a distanza e rispondendo a un aumento esponenziale delle richieste di supporto tecnico e organizzativo da parte di studenti e famiglie.

    Questo scenario ha messo in luce l’importanza di un coordinamento efficace e la resilienza di chi opera quotidianamente nel mondo scolastico. Lontano dal mito delle lunghe ferie e dei privilegi, insegnanti e personale amministrativo affrontano un carico lavorativo che spesso non conosce orari. La ricerca scientifica conferma che il burnout scolastico è un fenomeno in crescita. Secondo un sondaggio del 2023 condotto dall’Associazione Italiana di Psicologia, il 62% degli insegnanti italiani si dichiara sopraffatto dalla pressione lavorativa.

    Negli ultimi decenni, il lavoro scolastico è cambiato profondamente. Le riunioni di dipartimento, i collegi dei docenti, i consigli di classe, i colloqui con i genitori, la preparazione delle lezioni e la correzione dei compiti occupano una parte significativa del tempo lavorativo, spesso ben oltre l’orario scolastico. Secondo un rapporto del MIUR del 2022, gli insegnanti italiani dedicano in media 15 ore settimanali ad attività extracurricolari, oltre alle lezioni in aula. A questi impegni si aggiungono le continue notifiche provenienti dal registro elettronico, che richiedono risposte tempestive anche nei giorni festivi. Tuttavia, normative come il Decreto Legislativo 66/2003, che recepisce la Direttiva 2003/88/CE sul diritto al riposo e al silenzio, sottolineano l’importanza di garantire periodi di pausa adeguati per tutelare il benessere dei lavoratori.

    L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce il burnout come una sindrome derivante da stress cronico sul luogo di lavoro che non è stato gestito con successo. Tra i sintomi principali si riscontrano esaurimento emotivo, ridotta efficacia professionale e atteggiamenti negativi o distaccati verso il lavoro. Studi di psicologia del lavoro, come quello di Maslach e Leiter, evidenziano che il burnout nasce spesso da un disallineamento tra le richieste lavorative e le risorse disponibili. Nel contesto scolastico, ciò si traduce in una crescente pressione per raggiungere risultati accademici, spesso senza adeguati supporti organizzativi. Secondo un rapporto dell’European Agency for Safety and Health at Work del 2022, circa il 40% degli insegnanti europei manifesta segni di burnout, con un picco tra coloro che operano nella scuola secondaria. Uno studio italiano condotto da Benevene et al. ha inoltre sottolineato come la percezione di scarso riconoscimento professionale sia uno dei principali fattori scatenanti.

    Nonostante le difficoltà, il lavoro dell’insegnante rimane fondamentale per la società. Ogni giorno, questi professionisti si confrontano con sfide educative e relazionali, cercando di costruire un ponte tra il sapere e le esigenze degli studenti. Tuttavia, è necessario sfatare alcuni miti: le ferie estive, spesso additate come un privilegio, sono rigidamente vincolate al calendario scolastico e comprendono attività di recupero e potenziamento per gli studenti. Dietro le quinte, il personale amministrativo svolge un ruolo cruciale per il funzionamento delle scuole. Durante la transizione alla digitalizzazione dei registri scolastici, molte segreterie hanno affrontato sfide come la formazione del personale e la gestione di sistemi informatici non sempre intuitivi, gestendo al contempo pratiche relative ai progetti, ai percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento e al supporto alla didattica. Questi professionisti rappresentano il motore invisibile che mantiene la scuola operativa. Tuttavia, anche per loro, il carico di lavoro e la pressione sono in aumento, con un incremento del 25% nelle pratiche gestite annualmente rispetto al 2015, secondo dati MIUR. Normative come il Decreto Legislativo 81/2008, che regola la sicurezza e la salute sul lavoro, offrono spunti per migliorare le condizioni lavorative, ma la loro applicazione pratica resta una sfida.

    Per affrontare il problema del burnout scolastico, è necessario adottare strategie mirate. Investire in programmi di formazione per insegnanti e personale amministrativo, con un focus sulla gestione dello stress e sul benessere psicologico, può fare la differenza. Ad esempio, il programma “Teacher Stress Reduction” implementato in Norvegia ha mostrato una diminuzione del 30% nei livelli di stress tra i partecipanti. Allo stesso modo, il progetto italiano “Mindfulness a scuola”, avviato nel 2020, ha riscontrato un aumento del 25% nella soddisfazione lavorativa tra i docenti coinvolti. Anche i workshop di intelligenza emotiva promossi dall’European School Network hanno avuto un impatto positivo, riducendo il burnout e migliorando l’efficacia professionale. Studi come quello di Jennings e Greenberg hanno dimostrato che interventi basati sulla mindfulness possono ridurre significativamente i livelli di stress degli insegnanti. La digitalizzazione efficiente, volta a semplificare i processi burocratici attraverso strumenti intuitivi, può rappresentare un elemento chiave per alleggerire il carico di lavoro. Creare sportelli di ascolto e supporto all’interno delle scuole è un’altra iniziativa cruciale: uno studio di Skaalvik e Skaalvik evidenzia come il supporto sociale sia un fattore protettivo contro il burnout. Inoltre, la redistribuzione dei carichi di lavoro e la consapevolezza del diritto al riposo, come stabilito dal Decreto Legislativo 66/2003, sono passi essenziali per garantire il benessere psicofisico dei lavoratori scolastici.

    Il mondo della scuola è molto più complesso di quanto possa sembrare. Insegnanti e personale amministrativo lavorano con dedizione, affrontando sfide che spesso rimangono invisibili agli occhi esterni. Riconoscere queste difficoltà e intervenire con soluzioni concrete è essenziale per garantire un sistema scolastico sostenibile e una società che valorizzi il ruolo cruciale dell’educazione. Il recupero della dignità sociale di una professione nobile passa anche attraverso una remunerazione adeguata ai tempi e alle esigenze di una scuola che richiede un continuo aggiornamento. Gli stipendi degli insegnanti italiani risultano significativamente inferiori rispetto a quelli dei colleghi europei. Secondo il rapporto OCSE “Education at a Glance 2024“, il salario medio degli insegnanti italiani nel 2019 era di circa 31.950 euro annui, mentre in Germania si attestava intorno ai 47.250 euro e la media OCSE era di 42.300 euro. Questa disparità si accentua con l’avanzare della carriera. A fine servizio, un docente italiano della scuola secondaria di secondo grado percepisce in media poco più di 40.000 euro annui, contro i 48.876 euro della Spagna, i 55.497 euro del Portogallo e i 60.947 euro dell’Austria. Inoltre, l’Italia è tra i pochi Paesi europei in cui gli stipendi degli insegnanti sono diminuiti negli ultimi anni, registrando una riduzione dell’8% per tutti i livelli di istruzione. 

    Investire nella scuola e valorizzare chi vi lavora è essenziale, perché, come affermava John F. Kennedy, il nostro progresso come nazione dipende dal modo in cui valorizziamo l’educazione e coloro che la rendono possibile.

  • Intelligenza artificiale e scuola: opportunità o minaccia per i docenti?

    Intelligenza artificiale e scuola: opportunità o minaccia per i docenti?

    L’alone di diffidenza che aleggia sulla scuola è oggi più che mai fitto. Ormai da decenni dibattiti, confronti, manifestazioni di protesta, scioperi, indicano una sofferenza congenita della scuola italiana accusata di non essere più al passo con i tempi, e ritenuta da più parti come un’agenzia incapace di educare, prima ancora di istruire. Non si ricorda un ministro che, subentrato a quello precedente, non abbia portato modifiche o novità, provvedendo ad elaborare e varare la propria ipotesi di “riforma” istituzionale, ad una visione propria, non agevolando un’azione educativa e ristrutturattiva del sistema capace di progettualità rinnovata e condivisa.

    Appare indispensabile trovare nuove strategie educative, per far riacquisire quel ruolo fondamentale che la scuola ha da sempre ricoperto, far riscoprire l’importanza dell’insegnante, restituendoli quel ruolo professionale e sociale, offeso da banali e diffusi luoghi comuni, sovente screditanti, che provocano una distorsione delle reali difficoltà.  Ammesso che le difficoltà si intersecano su vari fronti, (dall’architettura scolastica che andrebbe rivista, alla messa in sicurezza degli edifici, al curriculo formativo, alle retribuzioni dei docenti) occorre ripartire da una formazione e da una selezione più attenta di chi ha una responsabilità e un ruolo così decisivo nella crescita di bambini e ragazzi.

    Forse, parlare di formazione ed educazione dei formatori, può sembrare retrogrado, se ci mettiamo a confronto con realtà diverse dalle nostre. In Nuova Zelanda, da circa un anno, in una scuola elementare, tiene banco il Prof. Will, non un docente in carne ed ossa ma un avatar, un software di Intelligenza Artificiale. (Questa iniziativa fa parte del programma “Be Sustainable with Energy“, promosso dall’azienda energetica Vector in collaborazione con la società di intelligenza artificiale Soul Machines. Gli studenti interagiscono con Will tramite computer, tablet o smartphone, partecipando a lezioni e verifiche interattive).

     La sua funzione, è quella di umanizzare l’intelligenza artificiale per migliorare l’umanità. L’apporto di ricercatori, neuroscienziati, psicologi e pensatori innovativi, è finalizzato a ripensare al rapporto-connessione con le macchine, creando umani artificiali incredibilmente realistici, emotivamente sensibili con personalità e carattere che consentono alle macchine di interagire. Secondo lo storico contemporaneo e vice-rettore dell’Università di Buckingham, Sir Anthony Seldon, che si occupa di educazione, gli avatar saranno destinati a breve a scalzare i docenti umani tra meno di 10 anni. Anche la scuola, verrebbe dunque macinata dal fenomeno della robotizzazione del lavoro, aprendo scenari nuovi e fino a qualche decennio fà impensabili e a mio parere inquietanti.

    Al di là dei punti di forza dell’informatizzazione dei sistemi lavorativi, la domanda che dobbiamo porci è relativa a quale uomo del futuro stiamo costruendo o vogliamo costruire. È bene rimarcare che non esiste tecnologia che possa dotare una macchina “intelligente” di autocoscienza e di emozioni, in grado di superare e schiacciare l’uomo. Nel futuro prossimo si investiranno ingenti risorse per migliorare e perfezionare l’intelligenza artificiale e robotica ma è necessario e doveroso, circoscrivere un quadro etico-antropologico e giuridico che tuteli fortemente l’uomo, e nella fattispecie, non ci si dimentichi, in nome di un progresso arrogante, dell’apporto dato dal sapere umanistico e da quel linguaggio sequenziale e analitico, che è stato alla base del pensiero occidentale per circa duemila centocinquanta anni di storia.

    La virtute e canoscenza, che Dante cita nel XXVI canto dell’inferno, richiama all’essere virtuosi nelle totalità delle dimensioni della personalità per riappropriarsi dell’incalcolabile sapere accumulato dagli uomini nel corso dei millenni. Forse la scuola del futuro dovrebbe ripartire da qui, ri-attivando e rafforzando quel dinamismo dell’ex-ducere che richiede di tirar fuori il meglio dai ragazzi con la testimonianza e l’esempio di insegnanti-educatori equilibrati e consapevoli, per favorire la ricerca, il discernimento, la scoperta finalizzata a tessere e costruire virtù e saperi. La missione della scuola, non è allora giudicare, scrutinare, ma istituire processi di formazione “sartoriali”, dare forma generativa all’esistenza giovane, oggi appiattita da modelli stereotipati ed uniformanti dove le specificità tendono ad appiattirsi. Ripartendo dalla condivisione di obiettivi, di metodi, di strategie, forse si può intavolare un discorso che sappia ribaltare le logiche puntiformi del qui e ora e possa aprirsi ad orizzonti ricchi di valore e di senso.  I giovani, come amava ricordare Joseph Joubert hanno più bisogno di esempi che di critiche.

  • Analfabetismo etico nei giovani: cause, conseguenze e soluzioni educative

    Analfabetismo etico nei giovani: cause, conseguenze e soluzioni educative

    Oggi si parla frequentemente di emergenza educativa, urgenza e sfida educativa. Al di là delle dispute etimologiche, è fondamentale riconoscere che il problema esiste e coinvolge l’intero sistema educativo. I numerosi fatti di cronaca rappresentano la cartina al tornasole di uno svuotamento etico che desta preoccupazioni e solleva interrogativi, soprattutto in relazione all’analfabetismo etico manifestato dai giovani, in particolare dagli adolescenti, considerati la fascia più a rischio.  

    Come sottolinea Howard Gardner, psicologo e teorico delle intelligenze multiple, “L’educazione etica è essenziale per costruire una società capace di affrontare le sfide future“. Questo bisogno di valori ritorna con urgenza, richiesto da famiglie spesso lasciate sole e prive di risorse, da scuole che affrontano un quotidiano degrado, e dalla società intera, che vede messi in discussione i fondamenti del vivere comune.  

    Ripensare un’alfabetizzazione etica nei giovani significa promuovere una “cultura della vita” e della buona vita, come affermato nel report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che evidenzia come “l’educazione etica e la formazione alla cittadinanza siano strumenti essenziali per combattere fenomeni come dipendenze e disuguaglianze sociali”. Questo processo deve garantire una formazione permanente della coscienza, necessaria per sviluppare il senso civico e rendere i giovani cittadini consapevoli.  

    Alla base dell’emergenza educativa vi è una questione antropologica: è essenziale comprendere quale modello di uomo si voglia educare e cosa si intenda per educazione. Come sottolinea il pedagogista Paulo Freire, “Non c’è educazione neutrale; ogni azione educativa implica un orientamento etico e politico“.  

    Finché l’educazione sarà considerata come una serie di eventi spersonalizzati e privi di responsabilità, i fallimenti saranno inevitabili. Questo rischio è amplificato dalla mancanza di un dialogo sinergico tra le agenzie educative e dall’assenza di intenti condivisi, che porta ciascun ente a percorrere la propria strada in solitudine, senza entrare in relazione con gli altri.  

    Un esempio emblematico è il rapporto tra scuola e famiglia, spesso caratterizzato da conflitti e accuse reciproche. Le due istituzioni, invece di collaborare, tendono a incolparsi delle carenze educative, dimenticando di operare nello stesso ambito, seppur con ruoli differenti.  

    Oltre all’aspetto etico, l’educazione influisce anche sulla salute dei giovani. Studi dell’American Psychological Association (APA) confermano che “l’alfabetizzazione etica, unita a una solida educazione emotiva, riduce significativamente i comportamenti a rischio negli adolescenti“.  

    In un’epoca segnata da un aumento preoccupante di tossicodipendenze, alcolismo, malattie sessualmente trasmissibili e tecnodipendenze, diventa fondamentale ripensare il significato profondo dell’educazione. Secondo un recente studio pubblicato su The Lancet Public Health, “La mancanza di valori condivisi e di un’educazione etica strutturata è correlata a un incremento del 25% nei comportamenti a rischio tra i giovani”.  

    Per affrontare l’emergenza educativa, è necessario valorizzare una categoria pedagogica fondamentale: la cura educativa. Come sostiene il pedagogista Raffaele Mantegazza, “La cura è il presupposto imprescindibile dell’educazione; senza cura, non vi è formazione autentica“.  

    La cura educativa non deve essere vista come un elemento accessorio, ma come il cuore del rapporto educativo, capace di conferire ricchezza concettuale ed etica. L’educazione non può essere considerata una mera trasmissione di conoscenze, ma deve essere vista come un processo continuo di sviluppo delle potenzialità dell’essere umano.  

    In sintesi, per affrontare l’emergenza educativa e l’analfabetismo etico nei giovani, è necessario ripartire da un’antropologia educativa che metta al centro l’uomo e il suo sviluppo integrale. Come affermato da Edgar Morin, “L’educazione deve insegnare non solo a conoscere, ma a vivere, comprendere e costruire relazioni umane autentiche“.  

    Con un approccio condiviso e sinergico tra famiglia, scuola e società, è possibile offrire ai giovani strumenti concreti per diventare cittadini responsabili, capaci di affrontare le sfide del futuro con una solida base etica.  

  • EDUCARE ALLE EMOZIONI: L’IMPORTANZA DEL QUOZIENTE EMOTIVO

    EDUCARE ALLE EMOZIONI: L’IMPORTANZA DEL QUOZIENTE EMOTIVO

    In psicologia, le emozioni vengono descritte come stati complessi di sentimenti che scatenano reazioni psicofisiche, influenzando i pensieri e i comportamenti. Come sottolineato dal Dr. Paul Ekman, psicologo e ricercatore noto per i suoi studi sulle emozioni universali, “le emozioni sono reazioni psicologiche di adattamento agli stimoli esterni” e sono essenziali per la sopravvivenza e per l’interazione sociale. Esse si manifestano attraverso risposte fisiologiche (come la variazione della frequenza cardiaca e respiratoria), risposte tonico-posturali (tensione o rilassamento del corpo), comportamentali e espressive (ad esempio attraverso il linguaggio e le espressioni facciali).

    Fino a qualche decennio fa, si attribuiva una grande importanza al quoziente intellettivo (QI) come indicatore di successo. Tuttavia, l’approccio educativo è cambiato radicalmente. Negli ultimi anni, l’attenzione si è spostata verso un concetto più ampio di intelligenza, quello dell’intelligenza emotiva, evidenziando come la capacità di riconoscere, comprendere e gestire le emozioni sia altrettanto cruciale per il successo e il benessere. Come dimostrato da numerosi studi, tra cui quelli di Daniel Goleman, esperto di intelligenza emotiva, l’intelligenza emotiva (EQ) è predittiva di successo nella vita sociale e professionale, poiché influisce sul modo in cui affrontiamo le sfide, gestiamo i conflitti e ci relazioniamo con gli altri.

    Nel 1983, Howard Gardner, psicologo della Harvard University, ha rivoluzionato la concezione tradizionale di intelligenza, proponendo la teoria delle intelligenze multiple. Secondo Gardner, ogni individuo possiede una varietà di intelligenze che si sviluppano nel corso della vita, tra cui l’intelligenza linguistica, matematica, interpersonale e intrapersonale. Quest’ultima, che riguarda la comprensione e gestione delle proprie emozioni, è strettamente legata all’intelligenza emotiva e gioca un ruolo cruciale nell’educazione.

    Un altro autore fondamentale nella comprensione dell’intelligenza emotiva è Daniel Goleman, il cui libro Intelligenza Emotiva ha dato impulso alla diffusione di questa teoria. Goleman sostiene che le emozioni non sono semplicemente reazioni passivi, ma possiedono una funzione adattiva che aiuta a prendere decisioni più consapevoli e a rispondere meglio alle sfide della vita quotidiana. La sua ricerca, inoltre, ha evidenziato che il quoziente emozionale può essere migliorato attraverso pratiche educative mirate, come l’apprendimento della consapevolezza emotiva e la gestione dei conflitti, competenze che sono essenziali per una crescita equilibrata.

    Le neuroscienze, inoltre, confermano che i sistemi cognitivi ed emotivi sono strettamente connessi. Studi recenti hanno dimostrato che il cervello elabora simultaneamente informazioni emotive e razionali, suggerendo che un’educazione che trascuri la dimensione emotiva rischia di limitare il potenziale di sviluppo di un individuo. Come affermato dal neuroscienziato Antonio Damasio, “le emozioni sono essenziali per la ragione”, indicando che senza una comprensione profonda delle proprie emozioni, le decisioni razionali risultano compromesse.

    Educare i giovani all’intelligenza emotiva è fondamentale per prevenire problematiche psicologiche come attacchi di rabbia, ansia, disturbi alimentari e dipendenze da sostanze psicoattive. Inoltre, un basso quoziente emotivo è stato associato a difficoltà nell’interazione sociale e a comportamenti devianti. Come sottolinea la Società Italiana di Psicologia (SIP), un’educazione che integra competenze emotive è cruciale per un benessere psicologico duraturo.

    .