di Danilo Littarru
Chiara era lì, poggiata su uno sgabello in plastica. Mi aveva chiesto di uscire dall’aula e io avevo tentennato un po’ perché la ricreazione si era appena conclusa. I minuti passavano e lei non si palesava. Avvisato un collaboratore, sono uscito dall’aula e l’ho trovata tremante. Era pallida come un anemone del Negev, la voce rotta da un movimento mandibolare accelerato, i piedi picchiavano per terra in un ritmo incessante, la fame d’aria si faceva sempre più intensa, quasi a diventare angosciante.
Ho toccato con mano il suo disagio, la sua sofferenza, la vergogna che occhi curiosi potessero vederla in tutta la sua fragilità. Dopo diversi interminabili minuti il picco di ansia è andato scemando per lasciare spazio alla spossatezza più totale. Chiara era avvolta in un manto di sofferenza che aveva voluto condividere con me. La sua fiducia mi onorava e al contempo suscitava in me una forte preoccupazione per la sua vita, per il suo futuro, per i suoi progetti. Chiara è una delle tante alunne/i che soffrono di ansia scolastica spesso accompagnata da attacchi di panico, un nuovo male che colpisce bambini, fanciulli e adolescenti con numeri crescenti che non lasciano spazio ad oasi di tranquillità.
È una forma di ansia che seppure non rientra nella letteratura medica ufficiale, (non trova infatti specifica citazione nel DSM5-TR o nel ICD-11) è ampiamente riconosciuta come una sofferenza psicologica che ha ricadute specifiche: scarsa frequenza scolastica, assenteismo reiterato spesso accompagnato da comportamenti a rischio, come autolesionismo, disturbi alimentari e dipendenze varie. Ne soffre una percentuale tra il 5 e il 28% di bambini e adolescenti e di solito si manifesta durante i passaggi chiave dei diversi cicli scolastici. È strettamente legata alle prestazioni scolastiche e alla paura di non riuscire a raggiungere gli obiettivi preposti o/e di non riuscire ad integrarsi nel gruppo dei pari. Un meccanismo capace di scatenare un pericoloso effetto domino.
I voti insufficienti accentuano il conflitto con i genitori, minano un’autostima già difettosa, implementano un auto-giudizio fortemente critico e distruttivo capace di distorcere una lettura oggettiva sul proprio valore. Una lettura incapace di leggere aspetti positivi che ciascuno di noi possiede, a prescindere dalla riuscita delle proprie prestazioni, conduce ad una deriva esistenziale che anestetizza relazioni e inclina gli orizzonti di senso.Porre l’accento sulla prestazione produce quel senso di inadeguatezza e quel non sentirsi mai abbastanza nei confronti della famiglia, degli insegnanti, dei compagni li circonda che porta inevitabilmente alla fuga. Su questi scenari che oramai sono delineati che si deve imporre una riflessione costruttiva che coinvolga tutti gli attori implicati nel processo educativo, prendendo le dovute distanze dalla dinamica del rimpallo che porta ad un continuo addossarsi responsabilità e fallimenti reciproci: da una parte si rimarca l’assenza della famiglia o il narcisismo di una diffusa tipologia di genitori, dall’altro le mancanze e i disastri di insegnanti e del sistema scolastico in generale.
Occorre rendersi conto che la crescita e la maturazione passa anche attraverso risultati non sempre brillanti. L’insuccesso vive il paradosso del suo rovescio, infatti in una lettura costruttiva esso è una salubre zoppia dell’efficienza della prestazione, e in questo senso, anche gli insegnanti dovrebbero ricordarsi che la giovinezza è il tempo e il luogo dove l’insuccesso dovrebbe essere consentito, capito, accettato e convertito. La via autentica della formazione può essere anche la via del fallimento. La formazione stessa è quel tempo che esige il tempo del fallimento, dell’errore, della sconfitta, del dubbio. Chi non si è mai perduto non sa cosa significhi ritrovarsi, e se è vero che i giovani sanno smarrirsi facilmente, è altrettanto vero che hanno una forte capacità di sapersi ritrovare se hanno accanto figure adulte capaci e carismatiche.
Purtroppo nella scuola si è radicata la logica della prestazione, di una competitività esasperata ed esasperante, dove chi ha meno gambe per correre viene tagliato fuori dalla gara. Ci si è intestarditi a mutuare ed importare dall’economia, la logica di produttività, si pensi al linguaggio tecnico di crediti, debiti, allontanandosi dal suo linguaggio umanistico originario. Gramsci lo definiva cretinismo dell’economica: oggi nella scuola ciò che vale sono cifre, valutazioni, numeri. Si sta rinunciando a formare l’uomo, a dargli un alfabeto emotivo, una scala sentimentale da cui attingere. La cultura della prestazione uccide il piacere di imparare e questo spiega perché tre studenti su quattro soffrono di ansia scolastica. Riaccendere il desiderio che spinge ad un interesse e ad un coinvolgimento totalizzante della persona è la via che può aiutare a contenere l’evitamento e la conseguente fuga che porta all’abbandono scolastico.
Freud parlava dell’importanza del desiderio, Wunsch, che richiama ad una vocazione e a quel desiderio-vocazione è ciò che dà senso alla vita e che accende il fuoco della conoscenza. Il desiderio così concepito diventa una forza travolgente che apre e allarga l’orizzonte di senso della nostra vita. La scuola di oggi non solo spegne questo desiderio ma ha la capacità di consumare anche gli insegnanti migliori, avvolgendoli in un grigiore che spegne desiderio e curiosità. La scuola deve riscoprire la vocazione formativa in uno sguardo di insieme che produce quella sinergia educativa che mette al centro del la crescita del ragazzo, che resta l’attore principale della scena capendo così in quanto modi ci parla l’umano.