Categoria: teologia

  • Perché Agostino è più attuale di Freud

    Perché Agostino è più attuale di Freud

    La confessione come atto di verità

    Nel tempo in cui l’“io” si moltiplica in selfie e diagnosi, dove la confessione ha perso la sua dimensione sacra per farsi narrazione social o seduta di terapia, riscoprire Agostino può non solo sorprendere, ma persino guarire.

    Il vescovo d’Ippona non si limita a raccontare sé stesso: egli interroga l’abisso dell’anima, cercando in ogni battito interiore il riflesso di un Altro. Nelle Confessiones non c’è solo autobiografia, ma una forma radicale di autocoscienza, un’apertura alla luce che scandaglia il cuore più di quanto non faccia l’interpretazione dei sogni.

    Agostino e Freud: due modelli di profondità

    Freud ha aperto le porte dell’inconscio, ma Agostino ha abitato le stanze della coscienza. Il primo cerca le cause nascoste, il secondo cerca il senso. Freud decifra, Agostino ascolta. Entrambi scavano, ma con utensili diversi: lo psicoanalista con la parola analitica, il teologo con il silenzio orante.

    Se Freud ha dato voce ai traumi, Agostino ha dato voce al desiderio che salva. Non è forse questo il nodo cruciale? Oggi la psicologia rischia di fermarsi all’origine del male, mentre Agostino osa chiedere: “Che cosa amo, quando amo il mio Dio?” (Confessioni X,6,8). Una domanda che oltrepassa il passato per orientare il futuro.

    Il cuore inquieto dell’uomo moderno

    Agostino sapeva che non si guarisce solo comprendendo, ma orientando. In un tempo in cui l’analisi spesso si chiude nell’autoreferenzialità dell’“io ferito”, egli offre una via ulteriore: la trascendenza.

    Scrive: “Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te” (Conf. I,1,1). Un’inquietudine che non cerca solo una spiegazione, ma una casa.

    Freud leggeva i simboli, Agostino li abitava. Il primo era medico dell’inconscio, il secondo pellegrino del cuore.

    Perché Agostino è più attuale

    Oggi abbiamo strumenti diagnostici, terapie brevi, app per la meditazione e per il respiro. Eppure la fame d’interiorità resta. Anzi, cresce. In questo scenario iperanalitico e spesso iperfragile, Agostino parla con forza nuova.

    Perché non offre tecniche, ma uno sguardo verticale.

    Perché non propone la “liberazione dai sintomi”, ma l’integrazione dell’essere.

    Perché non cerca semplicemente la causa del dolore, ma l’origine del senso.

    Agostino non è un’alternativa a Freud: è la sua profondità perduta. La sua introspezione teologica è ciò che manca a una psiche che ha dimenticato l’anima.

  • Giuda Iscariota: il traditore o l’uomo spezzato?

    Giuda Iscariota: il traditore o l’uomo spezzato?

    L’enigma dell’uomo più discusso della storia

    Chi era davvero Giuda Iscariota, l’apostolo che consegnò Gesù? Traditore, vittima, capro espiatorio? La sua figura continua ad affascinare psicologi, filosofi, artisti e teologi. Da Dante a Dostoevskij, fino a Borges, Giuda rimane il volto oscuro della storia cristiana, “il condannato dall’umanità”.

    Profilo psicologico di Giuda

    La psicologia moderna legge in Giuda una personalità lacerata da profonde tensioni. Da un lato l’idealismo politico e religioso, dall’altro la delusione per un Messia che non rispondeva alle attese.
    Il tradimento può essere interpretato come una forma estrema di dissonanza cognitiva: amare e odiare, seguire e distruggere, sperare e disperarsi.
    Alcuni clinici ipotizzano tratti borderline: incapacità di reggere la frustrazione, oscillazione tra idealizzazione e svalutazione, esplosioni impulsive.

    Dimensione psichiatrica: il peso della colpa

    Il suicidio di Giuda, narrato nei Vangeli e ripreso nel libro degli Atti con il riferimento al campo di sangue (Akeldamà), evidenzia un quadro di verosimile depressione maggiore con colpa persecutoria.
    Il gesto non libera: lo precipita nell’abisso dell’auto-condanna. In termini clinici, Giuda rappresenta l’archetipo dell’atto impulsivo irreversibile, dove alla rabbia subentra un dolore insopportabile, senza possibilità di rielaborazione.

    Antropologia del tradimento: il capro espiatorio

    Per l’antropologia Giuda diventa il capro espiatorio universale. René Girard ricorda che “la violenza si placa quando trova una vittima”. L’umanità ha bisogno di incarnare il male in un volto riconoscibile, e Giuda diventa quel volto.
    Eppure, dietro il “traditore” c’è un uomo che ha viaggiato accanto a Cristo, ascoltato le parabole, condiviso il pane. Un uomo che ha baciato il Maestro con un gesto che ancora scuote la storia.

    Giuda nell’arte e nella letteratura

    La figura di Giuda ha attraversato secoli di interpretazioni.

    • Dante Alighieri lo colloca nell’Inferno, nel cuore ghiacciato della Giudecca, dilaniato da Lucifero stesso.
    • Fëdor Dostoevskij lo vede come simbolo della libertà tragica, capace di scegliere anche contro il bene.
    • Jorge Luis Borges scrive che “nessuno è tanto straniero a noi quanto colui che crediamo irrimediabilmente perduto”, aprendo alla possibilità di vedere Giuda come specchio della nostra stessa fragilità.

    Il condannato dall’umanità

    Giuda Iscariota è il volto ambiguo dell’uomo spezzato, che incarna insieme il peccato e la disperazione. Non è solo “il traditore”, ma l’archetipo della nostra capacità di cedere al male pur amando il bene.
    Guardarlo non significa giustificarlo, ma riconoscere che ogni essere umano porta in sé il rischio del proprio Akeldamà.

  • La notte a Manresa…

    La notte a Manresa…

    🌑 Una riflessione esistenziale ispirata alla crisi spirituale di Ignazio di Loyola, che trasformò la vanità in ascolto e silenzio, e il vuoto in luce.

    C’è un punto, nella vita di ogni uomo, in cui l’eco delle vanità comincia a stonare. È quel momento in cui il fragore delle conquiste mondane si fa silenzio assordante, e le medaglie conquistate con affanno si rivelano fatte di carta. È in quell’ora — spesso notturna, spesso solitaria — che l’anima comincia a desiderare qualcosa che non passa.

    Ignazio di Loyola, il cavaliere altero innamorato dell’onore e dell’apparenza, si ritrovò a Manresa, senza armature, senza titoli, senza specchi. Ciò che aveva definito la sua identità – il potere, il fascino, la bellezza fisica, la prodezza – era stato ridotto in polvere. E fu lì, nel vuoto scavato dalla rinuncia, che cominciò a vedere.

    La grotta di Manresa non è solo un luogo fisico. È simbolo di quel tratto d’ombra che tutti attraversiamo quando crolla il superfluo. Quando ci si accorge che si può vivere senza molti orpelli, ma non senza senso. Quando si intuisce che l’ansia di emergere è solo sete d’amore travestita.

    Ignazio, seduto nella sua notte, cominciò a distinguere le cose vane da quelle che restano. Scoprì che l’ego è un tiranno e che la pace non si conquista, si riceve. Che Dio si trova, sì, ma non nell’oro delle corti o nel plauso delle folle: si lascia incontrare nel cuore spogliato, nell’umiltà che riconosce di essere mendicante.

    La sua notte fu lunga, ma feconda. Una notte abitata da domande, lacrime, sfinimenti interiori. Ma anche da una luce nascosta: la consapevolezza che la verità dell’uomo si svela solo quando smette di recitare.

    Chi oggi è affaticato dalla rincorsa al superfluo, dalle aspettative degli altri, dai confronti che umiliano e dalla prestazione continua, può trovare rifugio e specchio in quella grotta. Manresa ci ricorda che c’è un tempo per perdere tutto, e che quel tempo può diventare un inizio.

    Perché è solo quando si lascia andare ciò che pesa che si riesce ad affacciarsi — con tremore ma con sincerità — alle cose che davvero restano: la presenza, la comunione, la verità, l’amore gratuito, Dio, come scriverà poi negli Esercizi Spirituali (n. 2)

    Non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente.”

  • “Servire senza perdersi”

    “Servire senza perdersi”

    Santa Marta: l’affanno dell’agire e il silenzio del cuore

    Santa Marta, sorella di Maria e di Lazzaro, non occupa i vertici iconici della cristianità. Non è l’estatica, né la martire, né la mistica rapita in visioni. Eppure, il suo nome brilla come una nota sommessa nella sinfonia evangelica, perché porta con sé il mistero di chi ama servendo, ma si smarrisce nell’eccesso del fare.

    Nel Vangelo di Luca (10,38-42), Marta accoglie Gesù nella sua casa e subito si affanna nei molti servizi. La scena è domestica, quasi banale: piatti, stoviglie, gesti quotidiani. Eppure, è lì che si consuma una delle più sottili parabole dell’interiorità. Marta è l’archetipo di chi si perde nelle urgenze, di chi sacrifica la contemplazione sull’altare dell’efficienza. Ella lavora, si agita, si irrita. E, in quella fretta ansiosa, chiede perfino a Gesù di rimproverare Maria, che invece è seduta, in ascolto. Ma il Maestro la guarda con dolce fermezza:
    “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose… ma una sola è necessaria.”

    Psicologia dell’affanno: quando il fare nasconde il vuoto

    Marta non è una colpevole, ma una sorella nostra. La psicologia contemporanea riconosce in lei il volto di molti — forse di tutti — che si consumano nel quotidiano senza lasciare spazio all’essenziale. L’iperattivismo, oggi spesso celebrato come virtù, cela in sé una trappola sottile: quella di riempire ogni vuoto per non incontrare il silenzio, per non sostare davanti a ciò che davvero brucia dentro.

    L’affaccendarsi compulsivo può diventare una sofisticata forma di evitamento emotivo. Ogni gesto, ogni lista da spuntare, ogni mansione portata a termine può servire, inconsciamente, a tacitare una domanda radicale:
    “Chi sono, quando non sto facendo nulla? Che cosa desidero, al di là del dovere e dell’approvazione?”

    La casa di Marta è la nostra mente quando non sa fermarsi. È la coscienza che, incapace di affrontare l’interiorità, cerca sollievo nei pavimenti puliti, nelle mail risposte in tempo, nelle lavatrici avviate. Ma nessun ordine esteriore può colmare il disordine di un’anima disabitata.

    La fatica che consuma e non nutre

    Chi lavora senza misura, anche se mosso da amore sincero, può diventare prigioniero del proprio zelo. Esistono madri che si esauriscono nel curare tutti tranne sé stesse, insegnanti che danno tutto ma non sanno ricevere, educatori, sacerdoti, psicologi, infermieri… anime generose e stanche, che sanno prendersi cura ma non sanno lasciarsi curare.

    La stanchezza cronica, il burnout emotivo, il senso di vuoto che sopraggiunge anche dopo mille gesti generosi… sono sintomi silenziosi di un’esistenza disancorata dall’ascolto. Marta ci ricorda che anche l’amore ha bisogno di misura, e che il cuore, come la terra, ha bisogno di riposo per dare frutto.

    La sapienza del grembiule

    Il grembiule di Marta non va disprezzato. Non c’è biasimo nel rimprovero di Gesù, ma un invito a trasfigurare l’agitazione in offerta silenziosa. Il servizio non è meno nobile della contemplazione, ma dev’essere linfa che sgorga da un centro abitato, e non compensazione per una mancanza.

    Ogni gesto quotidiano — lavare un piatto, portare un bicchiere, cucire un vestito, servire un malato — può diventare sacramento, se è compiuto da un cuore che sa restare presente. Marta non è da rigettare: è da consolare, da comprendere, da redimere.

    Un invito a sedersi

    Maria ha scelto la parte migliore, dice Gesù. Ma Marta è colei che ha aperto la porta. Forse il cammino spirituale inizia proprio lì: accogliendo, anche se non si è ancora pronti a fermarsi. Forse, dopo quel giorno, anche Marta ha imparato a sedersi. Forse ha continuato a cucinare, ma in silenzio. Forse ha ascoltato le parole del Maestro risuonare nella casa e nel cuore.

    Nel mondo di oggi, che idolatra l’efficienza e premia solo chi produce, abbiamo bisogno di riscoprire Marta. Non come modello da imitare, ma come sorella da guarire. Perché anche chi serve ha diritto a fermarsi. E perché, talvolta, la cosa più urgente è lasciarsi amare.

  • Dove sono i Samaritani?

    Dove sono i Samaritani?

    La Chiesa alla prova della fraternità spezzata

    Ci si affanna nelle cattedrali e nelle parrocchie. Si prega, si canta, si marcia dietro stendardi e reliquie. Ma quando il fratello cade — e magari è proprio un sacerdote, uno che ha spezzato il pane e la Parola accanto a noi — allora spesso resta solo, gettato ai margini della strada, come l’uomo della parabola. E i primi a passare oltre, oggi come ieri, sono proprio coloro che conoscono le Scritture e officiano i culti.

    Il sacerdote malato, isolato, dimenticato, è una ferita viva nel corpo della Chiesa. E ciò che brucia di più non è solo la malattia o il dolore, ma l’abbandono da parte dei confratelli, dei cosiddetti “fratelli nel ministero”. Tutti troppo occupati, troppo assorbiti, troppo inseriti. Come se il Vangelo fosse una serie di impegni e non un’esistenza da condividere.

    Hans Urs von Balthasar scriveva:

    “Chi pretende di comprendere Cristo senza lasciarsi trafiggere da Lui, inganna sé stesso.”

    Ecco: la nostra Chiesa è diventata talvolta esperta nell’amministrare Cristo, ma lenta nel lasciarsi trafiggere dal dolore dell’altro. Abbiamo ridotto la koinonía a una parola di verbale pastorale. Eppure, senza fraternità reale, incarnata, non c’è comunità cristiana.

    Una spiritualità senza grembiule

    Don Tonino Bello ce lo ha insegnato con forza:

    “Il grembiule viene prima della stola.”

    Eppure, quante volte indossiamo la stola nei momenti pubblici, nei riti solenni, e poi ci dimentichiamo il grembiule della carità nel quotidiano? È proprio lì, nella corsia d’ospedale, nella casa silenziosa del prete anziano, nel dolore taciuto di un confratello ferito, che si misura l’autenticità della nostra fede.

    Abbiamo edificato una Chiesa che teme la vulnerabilità, che copre le ferite, che fugge dal pianto. Ma la Chiesa del Cristo crocifisso non può non essere anche la Chiesa del fratello sofferente. Dove sono i samaritani?

    Il grembiule oltre la stola: la profezia di don Tonino

    Don Tonino Bello non fu solo un vescovo della prossimità: fu un poeta del Vangelo incarnato. Tra le sue immagini più potenti c’è quella del grembiule, che egli opponeva alla stola non in termini di contrapposizione, ma di gerarchia evangelica. La stola è il segno del ministero, della sacralità liturgica; ma il grembiule — simbolo del servizio umile, dell’amore che si china — è l’indumento che Cristo indossa nel cenacolo, prima di ogni altra cosa.

    Scriveva:

    “Il grembiule non è un accessorio. È il paramento liturgico per eccellenza, quello senza il quale la stola rischia di diventare un ornamento vuoto, un segno sterile.”

    Nella visione di don Tonino, la stola riceve senso solo se attraversata dall’amore operoso del grembiule. È un grido contro ogni clericalismo, contro ogni ministero vissuto come potere o prestigio. E questa prospettiva è quanto mai urgente oggi, in una Chiesa che rischia di moltiplicare liturgie e appesantirsi di parole, ma impoverirsi di gesti reali.

    Il grembiule ci ricorda che non basta “fare” il prete, occorre essere fratelli. E la fraternità non si celebra a parole: si esercita chinandosi.

    Il paradosso della liturgia senza carità

    Ogni giorno celebriamo la memoria del Dio che si è fatto servo, che ha lavato i piedi ai suoi discepoli, che si è lasciato ferire per amore. Ma poi, nella pratica, il culto diventa più importante del cuore. Corriamo al tempio, ma evitiamo chi giace per terra.

    Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer parlava di “grazia a buon mercato”, e forse anche noi, nella Chiesa cattolica, abbiamo cominciato a distribuire “fraternità a buon mercato”: fatta di parole, di sorrisi istituzionali, di comitati. Ma quando il confratello crolla — perché è depresso, perché è stanco, perché è in crisi — allora il vuoto si fa silenzio assordante.

    Un esame di coscienza ecclesiale

    Che cosa sbaglia la Chiesa? Sbaglia quando dimentica che l’essenza del Vangelo non è la correttezza dottrinale né l’efficienza organizzativa, ma la prossimità. Cristo non ha lasciato un’agenda, ma una vita donata. La Chiesa sbaglia quando confonde la missione con l’ansia di visibilità, quando preferisce l’evento al volto.

    E noi? Noi cattolici sbagliamo quando ci accontentiamo di un cristianesimo da calendario liturgico, e non di una fede che scende per strada, che si ferma, che fascia le ferite.

    Il Buon Samaritano è l’icona eversiva di una Chiesa che non fugge. E Cristo — che nel Vangelo ci appare sempre accanto ai piccoli, ai poveri, ai feriti — ci interroga: dove siamo noi, davvero?

    Spiragli di speranza

    Eppure, non tutto è perduto. Ogni volta che un sacerdote si prende cura di un altro sacerdote, che un fedele va a trovare un parroco dimenticato, che una comunità si fa carico del dolore dell’altro, lì si ricrea la Chiesa delle origini, la koinoníadello Spirito.

    Occorre una conversione pastorale che non sia solo programmatica ma spirituale, fraterna, empatica.
    Occorre tornare a lavare i piedi.

    Perché “da questo sapranno che siete miei discepoli: se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13,35).

  • La Speranza Cristiana: Fondamento di una Vita di Fede e Coraggio

    La Speranza Cristiana: Fondamento di una Vita di Fede e Coraggio

    Le virtù teologali, come insegna la dottrina sono infuse direttamente da Dio nell’anima dell’uomo e lo orientano verso la partecipazione alla sua natura divina. Sono chiamate teologali perché provengono direttamente da Dio: fede, speranza e carità. Mentre la fede e la carità sono virtù che si possono concretamente verificare nell’azione umana, la speranza può risultare più difficile da comprendere, specialmente in un contesto in cui la nostra vita quotidiana è permeata da preoccupazioni materialistiche e transitorie.

    Nel nostro tempo, la speranza è talvolta ridotta a un concetto superficiale, confusa con un generico ottimismo o con la speranza legata ai beni materiali. In questo senso, spesso si connota come un desiderio di ricchezza, potere o soddisfazione immediata. Tuttavia, la speranza cristiana è qualcosa di ben più profondo e ha radici salde nella fede. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che “la speranza è la virtù teologale che ci permette di desiderare il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, mettendo la nostra fiducia non nelle forze umane, ma nelle promesse di Dio” (CCC, 1817). La speranza cristiana, quindi, non è legata a illusioni o vuoti desideri, ma è ancorata saldamente alla fede in Dio e nelle sue promesse.

    Come scrive Papa Benedetto XVI in Spe Salvi (35), “la speranza cristiana non è una fuga dalla realtà, ma una forza che ci permette di affrontarla con coraggio”. Questa speranza si distingue nettamente dall’ottimismo terreno, che non è in grado di affrontare le difficoltà concrete e le tribolazioni della vita. La speranza cristiana, invece, non è una speranza che si rivolge ai beni materiali, ma si fonda sulla certezza che la vita terrena è solo un cammino verso la vita eterna, verso il Regno di Dio.

    Francesco Alberoni, noto psicologo, distingue la speranza cristiana dal semplice ottimismo: la speranza cristiana “è una speranza che nasce da un’etica radicata nella fede in Dio e che si concretizza nell’agire quotidiano” (La speranza e la fede, 2003). Questo tipo di speranza non è una speranza illusoria o passiva, ma una virtù che implica una costante fiducia in Dio, una fiducia che ci aiuta a vivere con serietà e responsabilità.

    Il Catechismo della Chiesa Cattolica, infatti, al numero 1818, ci ricorda che “la speranza è la virtù teologale che ci spinge a desiderare il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, mettendo la nostra fiducia non nelle nostre forze, ma nelle promesse di Cristo”. E questo è fondamentale: la speranza cristiana si fonda sulla fiducia nelle promesse di Dio, una fiducia che non delude, come ci ricorda San Paolo nella lettera ai Romani: “la speranza non delude” (Rm 5,5).

    La speranza cristiana non è separata dalla fede, ma intrinsecamente legata ad essa. La fede stessa è dotata della speranza, poiché poggia sulla promessa di Cristo. Egli, infatti, è la fonte della nostra speranza, come afferma Papa Francesco: “La speranza cristiana è una speranza che nasce dall’incontro con Cristo, che ci rende certi che il nostro cammino ha una meta definitiva” (Evangelii Gaudium, 275). La speranza cristiana, dunque, è una speranza che sostiene l’uomo nelle difficoltà della vita, che lo aiuta a non disperare anche nei momenti più oscuri.

    La speranza cristiana ci solleva dalle afflizioni quotidiane e ci dà la forza di affrontare le difficoltà con coraggio e fiducia. Essa ci permette di vivere anche le sofferenze con una certa serenità, poiché sappiamo che la nostra vita è orientata verso un fine eterno e che ogni difficoltà vissuta nella fede non è mai vana.

    In un contesto globale caratterizzato da incertezze e dalla precarietà, è fondamentale educare i giovani alla speranza. Non una speranza vuota o materialistica, ma quella speranza che nasce dalla fede in Cristo e che ci aiuta a vedere la nostra vita come un cammino verso l’eternità. Il Papa, nella Gaudium et Spes (n. 22), ci ricorda che “la speranza è un’ancora che non permette alla barca della nostra vita di affondare nelle tempeste del mondo”. Educare i giovani alla speranza cristiana significa aiutarli a vivere con fiducia e coraggio, anche nelle difficoltà.

    Il presente, per quanto faticoso, può essere vissuto e accettato se è orientato verso una meta certa e sicura, capace di generare fiducia e giustificare anche le difficoltà più ardue. La speranza cristiana, infatti, ci proietta verso un futuro che non è solo un futuro terrestre, ma un futuro che ci unisce al cuore stesso di Dio, come ci insegna Giovanni nel suo Vangelo: “Non sia turbato il vostro cuore; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv 14,1).