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  • La notte a Manresa…

    La notte a Manresa…

    🌑 Una riflessione esistenziale ispirata alla crisi spirituale di Ignazio di Loyola, che trasformò la vanità in ascolto e silenzio, e il vuoto in luce.

    C’è un punto, nella vita di ogni uomo, in cui l’eco delle vanità comincia a stonare. È quel momento in cui il fragore delle conquiste mondane si fa silenzio assordante, e le medaglie conquistate con affanno si rivelano fatte di carta. È in quell’ora — spesso notturna, spesso solitaria — che l’anima comincia a desiderare qualcosa che non passa.

    Ignazio di Loyola, il cavaliere altero innamorato dell’onore e dell’apparenza, si ritrovò a Manresa, senza armature, senza titoli, senza specchi. Ciò che aveva definito la sua identità – il potere, il fascino, la bellezza fisica, la prodezza – era stato ridotto in polvere. E fu lì, nel vuoto scavato dalla rinuncia, che cominciò a vedere.

    La grotta di Manresa non è solo un luogo fisico. È simbolo di quel tratto d’ombra che tutti attraversiamo quando crolla il superfluo. Quando ci si accorge che si può vivere senza molti orpelli, ma non senza senso. Quando si intuisce che l’ansia di emergere è solo sete d’amore travestita.

    Ignazio, seduto nella sua notte, cominciò a distinguere le cose vane da quelle che restano. Scoprì che l’ego è un tiranno e che la pace non si conquista, si riceve. Che Dio si trova, sì, ma non nell’oro delle corti o nel plauso delle folle: si lascia incontrare nel cuore spogliato, nell’umiltà che riconosce di essere mendicante.

    La sua notte fu lunga, ma feconda. Una notte abitata da domande, lacrime, sfinimenti interiori. Ma anche da una luce nascosta: la consapevolezza che la verità dell’uomo si svela solo quando smette di recitare.

    Chi oggi è affaticato dalla rincorsa al superfluo, dalle aspettative degli altri, dai confronti che umiliano e dalla prestazione continua, può trovare rifugio e specchio in quella grotta. Manresa ci ricorda che c’è un tempo per perdere tutto, e che quel tempo può diventare un inizio.

    Perché è solo quando si lascia andare ciò che pesa che si riesce ad affacciarsi — con tremore ma con sincerità — alle cose che davvero restano: la presenza, la comunione, la verità, l’amore gratuito, Dio, come scriverà poi negli Esercizi Spirituali (n. 2)

    Non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente.”

  • Bambini plusdotati: come riconoscerli e favorire il loro talento.

    Bambini plusdotati: come riconoscerli e favorire il loro talento.

    La plusdotazione, detta anche giftedness, è un’abilità nella quale un soggetto possiede capacità intellettive, creative o artistiche nettamente superiori al livello medio. Secondo le “Linee Guida per la Valutazione della Plusdotazione in Età Evolutiva” del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi (CNOP), questa qualità si riscontra in una forbice tra il 2 e il 4% dei bambini ed adolescenti.

    I bambini più dotati spesso mostrano caratteristiche distintive come un’inaspettata curiosità, un’agilità nel processo d’acquisizione delle informazioni ed un pensiero diversivo ed originale. Inoltre, possono manifestare un’inaspettata sensibilità ed essere introversi. Si deve notare che, pur mostrando capacità cognitive alte, tali bambini possono vivere un’inaspettata dissincronia nello sviluppo emotivo e relazionale.

    La definizione di plusdotazione prende forma in base al quoziente di intelligenza (QI) che deve essere di 130 o superiore, e ad aspetti multifattoriali che prendono in considerazione un’ampia varietà di doti, come le competenza linguistiche, matematiche, spaziali e visive, musicali e interpersonali. I bambini dotati differiscono dai loro coetanei in modi diversi dalla sola abilità intellettuale.

    Nonostante le loro straordinarie capacità, i bambini plusdotati possono incontrare difficoltà nell’ambiente scolastico tradizionale. La mancanza di stimoli adeguati può provocare noia e disinteresse, aumentando il rischio di underachievement, ovvero prestazioni inferiori alle loro reali potenzialità. Per questo motivo, è fondamentale che le scuole adottino strategie educative personalizzate. Come sottolineato dall’Istituto Psicoterapie, la plusdotazione non è un disturbo, ma un modo diverso di esprimere l’intelligenza, che richiede un approccio educativo su misura. In Italia, il Ministero dell’Istruzione ha riconosciuto gli studenti plusdotati tra quelli con Bisogni Educativi Speciali (BES), evidenziando la necessità di una didattica personalizzata per favorire il loro pieno sviluppo.

    La plusdotazione è un aspetto complesso che richiede un approccio educativo speciale ed esige un’adeguata comprensione. Riconoscerli e aiutarli in modo appropriato è fondamentale per offrire loro un’esperienza di crescita equilibrata e appagante, consentendo di valorizzare al meglio le loro potenzialità.

  • Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Giovanni Stanghellini, filosofo e psichiatra di fama internazionale, è noto per la sua capacità di intrecciare psicopatologia, fenomenologia e antropologia in una riflessione profonda sulla condizione umana. Nel suo libro Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, pubblicato nel 2017, l’autore esplora le dinamiche dell’identità e della percezione del sé in una società dominata dall’immagine e dalla rappresentazione virtuale. Il tema del selfie, inteso non solo come pratica tecnologica ma come fenomeno esistenziale, diventa il punto di partenza per un’indagine sulla costruzione dell’io attraverso lo sguardo altrui.

    L’opera si configura come un saggio di straordinaria attualità, in cui Stanghellini analizza la necessità dell’essere umano di essere visto e riconosciuto dagli altri, una condizione fondamentale per la formazione della propria identità. Il selfie, in questa prospettiva, non è un mero atto di narcisismo ma il sintomo di un bisogno profondo di conferma e legittimazione. Il libro affronta il tema con un linguaggio che fonde rigore accademico e accessibilità, rendendolo un’opera adatta sia agli studiosi di psicologia e filosofia sia a un pubblico più ampio, interessato a comprendere il peso dello sguardo sociale nella costruzione del sé.

    Il selfie come fenomeno esistenziale: narcisismo o bisogno di riconoscimento?

    Il selfie non è semplicemente un atto estetico o un’esibizione narcisistica, ma un fenomeno esistenziale profondo, strettamente legato alla costruzione dell’identità e al bisogno di riconoscimento. Giovanni Stanghellini analizza il ruolo dello sguardo altrui nella definizione del sé, mostrando come l’immagine che proiettiamo sia parte di un processo di autoaffermazione e di legittimazione sociale.

    L’essere umano è, per sua natura, un animale relazionale, la cui identità si forma attraverso l’interazione con gli altri. La fenomenologia e la psicopatologia ci insegnano che l’identità individuale non è un’entità chiusa e statica, ma una costruzione che avviene nel rapporto con il mondo e con gli altri. Il selfie, in questo contesto, rappresenta un dispositivo attraverso cui cerchiamo di rispondere alla domanda esistenziale “Chi sono io per gli altri?”.

    Il selfie come manifestazione della dialettica tra essere e apparire

    Il problema centrale del selfie risiede nella tensione tra autenticità e rappresentazione. Nell’epoca digitale, il volto non è più solo un riflesso dell’identità, ma un mezzo attraverso cui l’individuo si narra, si ricostruisce e si adatta alle aspettative altrui. Il selfie non è mai un’immagine neutra: ogni scatto è frutto di una selezione, di una posa studiata, di una precisa scelta comunicativa che ha come fine ultimo la validazione sociale.

    Stanghellini evidenzia come, dietro questa pratica, si nasconda un bisogno primordiale di essere visti. Il selfie non è solo un atto individuale, ma un fenomeno collettivo: scattare una foto di sé ha senso solo se esiste uno sguardo altro che la riconosca, la interpreti e la validi. In tal senso, la società digitale amplifica un meccanismo che, seppur presente da sempre nell’essere umano, assume oggi una nuova centralità.

    L’eccessiva ricerca di conferma può però condurre a una dissonanza tra l’immagine rappresentata e l’essenza autentica dell’individuo. La costruzione di un sé socialmente accettabile può diventare un limite, spingendo l’individuo a identificarsi con un’immagine artificiale piuttosto che con la propria interiorità. Questo scollamento tra essere e apparire può generare un profondo senso di vuoto esistenziale, creando dipendenza dalla continua approvazione esterna.

    La fragilità dell’Io nello specchio del selfie

    Dal punto di vista psicologico, il selfie diventa dunque un mezzo di gestione dell’insicurezza esistenziale. L’immagine condivisa diventa una sorta di scudo contro il timore di non essere abbastanza, un tentativo di plasmare la percezione di sé in base al feedback degli altri. In questo senso, il selfie può essere interpretato come una strategia di controllo identitario: attraverso la selezione delle immagini migliori, si costruisce una versione potenziata del sé, con lo scopo di rafforzare la propria autostima e ridurre l’ansia sociale.

    Tuttavia, questa ricerca di validazione esterna può facilmente trasformarsi in un circolo vizioso. Il bisogno costante di like, commenti e conferme diventa una misura del proprio valore, e il rischio è quello di legare la propria autostima a un riscontro effimero e instabile. Qui si inserisce la riflessione di Stanghellini sul selfie come paradosso: se da un lato è un tentativo di autoaffermazione, dall’altro può trasformarsi in una gabbia in cui l’individuo è costretto a reiterare la propria immagine ideale, con il timore costante di non essere all’altezza delle aspettative.

    Conclusione: il selfie come metafora della condizione umana

    Il selfie, nella lettura di Stanghellini, non è soltanto un’icona della società digitale, ma una vera e propria metafora della condizione umana. Esso riflette il desiderio innato di essere riconosciuti, la tensione tra autenticità e costruzione dell’immagine, la necessità di trovare un equilibrio tra il sé interiore e la sua rappresentazione esterna.

    L’opera di Stanghellini ci invita a riflettere sulla natura del nostro rapporto con l’immagine e con l’altro. La nostra identità è sempre il frutto di un’interazione, di uno scambio, di uno sguardo che ci restituisce chi siamo. Tuttavia, in un’epoca in cui la visibilità sembra essere diventata sinonimo di esistenza, è fondamentale interrogarsi su quanto di noi stessi stiamo sacrificando sull’altare della rappresentazione.

    Il selfie può essere uno strumento di espressione, ma anche una trappola. La sfida, allora, è imparare a usarlo senza smarrire la propria autenticità, a cercare il riconoscimento senza perdere il senso di sé, a guardarsi nello specchio digitale senza dimenticare che la vera essenza di un individuo non può mai ridursi a un’immagine.