Tag: Ansia

  • Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Introduzione

    Secondo l’UNESCO (2023) oltre il 60% dei Paesi europei ha introdotto restrizioni all’uso del cellulare in classe. Anche in Italia, il dibattito si è acceso: il divieto è una misura educativa o un’imposizione coercitiva? Per gli adolescenti, lo smartphone non è un semplice strumento tecnologico, ma una vera estensione del sé, tanto che le neuroscienze parlano di “protesi cognitiva e identitaria”.

    Il divieto di cellulare nella mente dell’adolescente

    Per lo studente delle scuole secondarie, il cellulare rappresenta:

    • Connessione sociale: chat e social come spazi vitali di appartenenza.
    • Autonomia percepita: possibilità di scegliere, comunicare, affermarsi.
    • Rifugio emotivo: un modo per sedare ansia e noia.

    Quando interviene il divieto, scatta un conflitto: da un lato la necessità dell’adulto di creare un ambiente di concentrazione, dall’altro la percezione di una limitazione della libertà personale. Studi di Przybylski e Weinstein (2017) parlano di “fear of missing out” (FoMO), ossia la paura di essere esclusi dalle interazioni sociali digitali, che può aumentare l’ansia negli adolescenti.

    Utilità educativa: cosa dicono gli studi

    Il divieto non è solo una misura disciplinare: ha basi scientifiche.

    • Concentrazione: Rosen, Carrier e Cheever (2013) hanno dimostrato che anche brevi interruzioni dovute al cellulare riducono del 20% la capacità di memorizzazione.
    • Apprendimento profondo: un report dell’OECD (2015) evidenzia che un uso eccessivo dei dispositivi digitali in classe è correlato a peggiori risultati scolastici in matematica e lettura.
    • Benessere psicologico: lo studio di Twenge e Campbell (2018) mostra una correlazione tra uso intensivo dello smartphone e sintomi depressivi negli adolescenti, suggerendo l’importanza di momenti di disconnessione.

    Perché è percepito come coercizione

    • Assenza di dialogo: il divieto viene comunicato spesso come regola e non come progetto educativo condiviso.
    • Identità digitale: lo smartphone è parte integrante della costruzione di sé nell’adolescenza.
    • Relazione adulti–studenti: quando non c’è mediazione, la misura appare come un controllo autoritario.

    La chiave sta nella pedagogia del limite: spiegare che un confine non è una negazione, ma uno spazio che permette di crescere.

    Strategie educative alternative

    Il divieto ha senso se integrato in un percorso:

    • Educazione digitale: insegnare uso critico e consapevole dei social.
    • Zone e tempi di disconnessione: creare momenti dedicati all’apprendimento senza dispositivi.
    • Coinvolgimento degli studenti: costruire regole condivise aumenta l’adesione.
    • Supporto psicologico: aiutare gli studenti a gestire ansia e FoMO.

    Linee guida e buone pratiche

    In Europa, la Francia ha introdotto nel 2018 il divieto di cellulare nelle scuole primarie e secondarie, con risultati positivi sulla concentrazione. L’Italia segue una linea più flessibile, demandando alle scuole la regolamentazione interna. Le Linee guida del MIUR (2022) sottolineano l’importanza di un uso “didatticamente orientato” delle tecnologie, non la loro demonizzazione.

    Conclusione

    Il divieto di cellulare a scuola può essere letto come coercizione se resta solo una regola imposta. Ma se accompagnato da spiegazioni, attività educative e spazi di confronto, diventa occasione di crescita. La sfida non è eliminare la tecnologia, ma insegnare a usarla con consapevolezza. Come scriveva Umberto Eco, “le nuove tecnologie non sono buone né cattive, dipende dall’uso che se ne fa”.

  • Perché ci mangiamo le unghie? Il lato nascosto dell’onicofagia

    Perché ci mangiamo le unghie? Il lato nascosto dell’onicofagia

    Il morso invisibile dell’ansia: comprendere l’onicofagia

    L’onicofagia, ovvero l’abitudine di mangiarsi le unghie, è spesso liquidata come un gesto banale, un tic nervoso da correggere con smalti amari o ammonizioni. In realtà, essa costituisce un vero e proprio atto psicologico, simbolico e relazionale, che interroga la soggettività in modo profondo.

    Secondo il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5), l’onicofagia rientra tra i “comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo” (BFRB – Body-Focused Repetitive Behaviors), accanto a tricotillomania (tirarsi i capelli) e dermatillomania (grattarsi la pelle). Colpisce prevalentemente bambini e adolescenti, ma può protrarsi anche in età adulta.

    Tra ansia, perfezionismo e regressione orale

    Le cause dell’onicofagia non sono univoche. Il gesto è spesso legato a tensioni emotivefrustrazionenoiaansia da prestazione, ma anche a forme inconsce di autocontrollo o punizione.

    In ambito psicoanalitico, il gesto viene talvolta letto come regressione a una fase orale dello sviluppo psicosessuale, in cui il soggetto tenta di lenire una tensione interna attraverso l’autostimolazione orale. Un modo primitivo, ma potente, per autorassicurarsi.

    Altri approcci, come quello cognitivo-comportamentale, vedono nell’onicofagia un comportamento appreso e rinforzato, che agisce come valvola di sfogo in situazioni stressanti. Spesso diventa un automatismo legato alla distrazione o all’ipercontrollo.

    Un gesto silenzioso ma eloquente

    Chi si mangia le unghie difficilmente se ne accorge nel momento in cui lo fa. Si tratta di un comportamento semi-inconscio, che si manifesta durante attività passive (come guardare la TV o studiare), ma anche in momenti di tensione sociale.

    Da un punto di vista simbolico, l’onicofagia rappresenta una lotta interna tra impulso e contenimento. Mordere se stessi è un modo per scaricare aggressività, colpa o ansia che non trovano altra forma di espressione.

    Un disturbo che cresce con l’età

    Uno studio pubblicato su Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry (Williams et al., 2006) ha mostrato che circa il 45% degli adolescenti manifesta forme di onicofagia più o meno marcate, con una riduzione significativa dopo i 30 anni. Tuttavia, nei casi più gravi, essa può evolvere in una condotta compulsiva con danni fisici (infezioni, deformazioni ungueali) e psicologici (vergogna, bassa autostima).

    Trattamento e approcci terapeutici

    L’intervento psicologico varia a seconda della gravità e della funzione che il gesto assolve. Nei casi più lievi, è utile l’automonitoraggio, la consapevolezza del gesto e l’introduzione di comportamenti alternativi.

    Nei casi più profondi o cronicizzati, il percorso psicoterapeutico – in particolare a orientamento cognitivo-comportamentale o psicodinamico – può aiutare a decifrare il significato sottostante e a rielaborare i vissuti emotivicorrelati.

    Nel lavoro clinico con bambini e adolescenti, è importante coinvolgere la famiglia, lavorare su strategie di regolazione emotiva, e comprendere eventuali traumi, pressioni o disagi scolastici e relazionali.

    Conclusione

    L’onicofagia è molto più di un vizio da estirpare: è una spia psicosomatica, un linguaggio del corpo che chiede ascolto. Interrogare questo gesto, piuttosto che punirlo, può aprire la strada a una maggiore consapevolezza di sé e al recupero di un dialogo interiore più sano.

  • Chi non si è mai perduto non sa cosa significhi ritrovarsi

    Chi non si è mai perduto non sa cosa significhi ritrovarsi

    di Danilo Littarru

    Chiara era lì, poggiata su uno sgabello in plastica. Mi aveva chiesto di uscire dall’aula e io avevo tentennato un po’ perché la ricreazione si era appena conclusa. I minuti passavano e lei non si palesava. Avvisato un collaboratore, sono uscito dall’aula e l’ho trovata tremante. Era pallida come un anemone del Negev, la voce rotta da un movimento mandibolare accelerato, i piedi picchiavano per terra in un ritmo incessante, la fame d’aria si faceva sempre più intensa, quasi a diventare angosciante.

    Ho toccato con mano il suo disagio, la sua sofferenza, la vergogna che occhi curiosi potessero vederla in tutta la sua fragilità. Dopo diversi interminabili minuti il picco di ansia è andato scemando per lasciare spazio alla spossatezza più totale. Chiara era avvolta in un manto di sofferenza che aveva voluto condividere con me. La sua fiducia mi onorava e al contempo suscitava in me una forte preoccupazione per la sua vita, per il suo futuro, per i suoi progetti. Chiara è una delle tante alunne/i che soffrono di ansia scolastica spesso accompagnata da attacchi di panico, un nuovo male che colpisce bambini, fanciulli e adolescenti con numeri crescenti che non lasciano spazio ad oasi di tranquillità.

    È una forma di ansia che seppure non rientra nella letteratura medica ufficiale, (non trova infatti specifica citazione nel DSM5-TR o nel ICD-11) è ampiamente riconosciuta come una sofferenza psicologica che ha ricadute specifiche: scarsa frequenza scolastica, assenteismo reiterato spesso accompagnato da comportamenti a rischio, come autolesionismo, disturbi alimentari e dipendenze varie. Ne soffre una percentuale tra il 5 e il 28% di bambini e adolescenti e di solito si manifesta durante i passaggi chiave dei diversi cicli scolastici. È strettamente legata alle prestazioni scolastiche e alla paura di non riuscire a raggiungere gli obiettivi preposti o/e di non riuscire ad integrarsi nel gruppo dei pari. Un meccanismo capace di scatenare un pericoloso effetto domino.

    I voti insufficienti accentuano il conflitto con i genitori, minano un’autostima già difettosa, implementano un auto-giudizio fortemente critico e distruttivo capace di distorcere una lettura oggettiva sul proprio valore. Una lettura incapace di leggere aspetti positivi che ciascuno di noi possiede, a prescindere dalla riuscita delle proprie prestazioni, conduce ad una deriva esistenziale che anestetizza relazioni e inclina gli orizzonti di senso.Porre l’accento sulla prestazione produce quel senso di inadeguatezza e quel non sentirsi mai abbastanza nei confronti della famiglia, degli insegnanti, dei compagni li circonda che porta inevitabilmente alla fuga. Su questi scenari che oramai sono delineati che si deve imporre una riflessione costruttiva che coinvolga tutti gli attori implicati nel processo educativo, prendendo le dovute distanze dalla dinamica del rimpallo che porta ad un continuo addossarsi responsabilità e fallimenti reciproci: da una parte si rimarca l’assenza della famiglia o il narcisismo di una diffusa tipologia di genitori, dall’altro le mancanze e i disastri di insegnanti e del sistema scolastico in generale.

    Occorre rendersi conto che la crescita e la maturazione passa anche attraverso risultati non sempre brillanti. L’insuccesso vive il paradosso del suo rovescio, infatti in una lettura costruttiva esso è una salubre zoppia dell’efficienza della prestazione, e in questo senso, anche gli insegnanti dovrebbero ricordarsi che la giovinezza è il tempo e il luogo dove l’insuccesso dovrebbe essere consentito, capito, accettato e convertito. La via autentica della formazione può essere anche la via del fallimento. La formazione stessa è quel tempo che esige il tempo del fallimento, dell’errore, della sconfitta, del dubbio. Chi non si è mai perduto non sa cosa significhi ritrovarsi, e se è vero che i giovani sanno smarrirsi facilmente, è altrettanto vero che hanno una forte capacità di sapersi ritrovare se hanno accanto figure adulte capaci e carismatiche.

    Purtroppo nella scuola si è radicata la logica della prestazione, di una competitività esasperata ed esasperante, dove chi ha meno gambe per correre viene tagliato fuori dalla gara. Ci si è intestarditi a mutuare ed importare dall’economia, la logica di produttività, si pensi al linguaggio tecnico di crediti, debiti, allontanandosi dal suo linguaggio umanistico originario. Gramsci lo definiva cretinismo dell’economica: oggi nella scuola ciò che vale sono cifre, valutazioni, numeri. Si sta rinunciando a formare l’uomo, a dargli un alfabeto emotivo, una scala sentimentale da cui attingere. La cultura della prestazione uccide il piacere di imparare e questo spiega perché tre studenti su quattro soffrono di ansia scolastica. Riaccendere il desiderio che spinge ad un interesse e ad un coinvolgimento totalizzante della persona è la via che può aiutare a contenere l’evitamento e la conseguente fuga che porta all’abbandono scolastico.

    Freud parlava dell’importanza del desiderio, Wunsch, che richiama ad una vocazione e a quel deside­rio-vocazione è ciò che dà senso alla vita e che accende il fuoco della conoscenza. Il desiderio così concepito diventa una forza travolgente che apre e allarga l’orizzonte di senso della nostra vita. La scuola di oggi non solo spegne questo desiderio ma ha la capacità di consumare anche gli insegnanti migliori, avvolgendoli in un grigiore che spegne desiderio e curiosità. La scuola deve riscoprire la vocazione formativa in uno sguardo di insieme che produce quella sinergia educativa che mette al centro del la crescita del ragazzo, che resta l’attore principale della scena capendo così in quanto modi ci parla l’umano.