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  • Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Divieto di cellulare a scuola: coercizione o crescita educativa?

    Introduzione

    Secondo l’UNESCO (2023) oltre il 60% dei Paesi europei ha introdotto restrizioni all’uso del cellulare in classe. Anche in Italia, il dibattito si è acceso: il divieto è una misura educativa o un’imposizione coercitiva? Per gli adolescenti, lo smartphone non è un semplice strumento tecnologico, ma una vera estensione del sé, tanto che le neuroscienze parlano di “protesi cognitiva e identitaria”.

    Il divieto di cellulare nella mente dell’adolescente

    Per lo studente delle scuole secondarie, il cellulare rappresenta:

    • Connessione sociale: chat e social come spazi vitali di appartenenza.
    • Autonomia percepita: possibilità di scegliere, comunicare, affermarsi.
    • Rifugio emotivo: un modo per sedare ansia e noia.

    Quando interviene il divieto, scatta un conflitto: da un lato la necessità dell’adulto di creare un ambiente di concentrazione, dall’altro la percezione di una limitazione della libertà personale. Studi di Przybylski e Weinstein (2017) parlano di “fear of missing out” (FoMO), ossia la paura di essere esclusi dalle interazioni sociali digitali, che può aumentare l’ansia negli adolescenti.

    Utilità educativa: cosa dicono gli studi

    Il divieto non è solo una misura disciplinare: ha basi scientifiche.

    • Concentrazione: Rosen, Carrier e Cheever (2013) hanno dimostrato che anche brevi interruzioni dovute al cellulare riducono del 20% la capacità di memorizzazione.
    • Apprendimento profondo: un report dell’OECD (2015) evidenzia che un uso eccessivo dei dispositivi digitali in classe è correlato a peggiori risultati scolastici in matematica e lettura.
    • Benessere psicologico: lo studio di Twenge e Campbell (2018) mostra una correlazione tra uso intensivo dello smartphone e sintomi depressivi negli adolescenti, suggerendo l’importanza di momenti di disconnessione.

    Perché è percepito come coercizione

    • Assenza di dialogo: il divieto viene comunicato spesso come regola e non come progetto educativo condiviso.
    • Identità digitale: lo smartphone è parte integrante della costruzione di sé nell’adolescenza.
    • Relazione adulti–studenti: quando non c’è mediazione, la misura appare come un controllo autoritario.

    La chiave sta nella pedagogia del limite: spiegare che un confine non è una negazione, ma uno spazio che permette di crescere.

    Strategie educative alternative

    Il divieto ha senso se integrato in un percorso:

    • Educazione digitale: insegnare uso critico e consapevole dei social.
    • Zone e tempi di disconnessione: creare momenti dedicati all’apprendimento senza dispositivi.
    • Coinvolgimento degli studenti: costruire regole condivise aumenta l’adesione.
    • Supporto psicologico: aiutare gli studenti a gestire ansia e FoMO.

    Linee guida e buone pratiche

    In Europa, la Francia ha introdotto nel 2018 il divieto di cellulare nelle scuole primarie e secondarie, con risultati positivi sulla concentrazione. L’Italia segue una linea più flessibile, demandando alle scuole la regolamentazione interna. Le Linee guida del MIUR (2022) sottolineano l’importanza di un uso “didatticamente orientato” delle tecnologie, non la loro demonizzazione.

    Conclusione

    Il divieto di cellulare a scuola può essere letto come coercizione se resta solo una regola imposta. Ma se accompagnato da spiegazioni, attività educative e spazi di confronto, diventa occasione di crescita. La sfida non è eliminare la tecnologia, ma insegnare a usarla con consapevolezza. Come scriveva Umberto Eco, “le nuove tecnologie non sono buone né cattive, dipende dall’uso che se ne fa”.

  • Parole che agganciano la memoria

    Parole che agganciano la memoria

    Introduzione

    In un contesto scolastico sempre più sfidante, in cui l’overload informativo e la dispersione attentiva rendono difficile l’immagazzinamento stabile delle nozioni, le tecniche mnemoniche basate sull’ancoraggio semantico-visivo si rivelano strumenti preziosi. Particolarmente efficaci nei casi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), queste strategie potenziano la memoria di lavoro e facilitano l’accesso alle informazioni immagazzinate. Tra le più efficaci troviamo l’uso delle parole-piolo, delle parole-gancio e delle parole-chiave.

    1. Parole-piolo (Peg words): strutturare la memoria associativa

    Le parole-piolo si basano sull’associazione tra numeri e parole concrete che rimandano a immagini visive forti. Ogni numero viene “agganciato” a una parola foneticamente simile (es. 1 = pane, 2 = navi, 3 = mela…) per creare una base stabile di supporto mnemonico.

    🔹 Esempio:

    Per ricordare l’ordine di cinque elementi (es. Paesi fondatori dell’UE):

    • 1 = pane → Italia (immagino un pane a forma di stivale)
    • 2 = nave → Francia (immagino una nave con bandiera francese)
    • 3 = mela → Germania (immagino una mela con la bandiera tedesca)
    • ecc.

    ✅ Nei DSA:

    Gli alunni con dislessia o disortografia trovano nelle parole-piolo un supporto visivo e narrativo che sostituisce l’astrazione verbale pura. Lo storytelling simbolico rafforza la memoria semantica e crea “ganci” resistenti all’interferenza.

    2. Parole-gancio (Hook words): ancoraggi semantici e emotivi

    Le parole-gancio sono termini-ponte che collegano l’informazione nuova a qualcosa di già noto o emotivamente coinvolgente. Si basano sul principio della memoria relazionale.

    🔹 Esempio:

    Per ricordare il significato di osmosi:

    • Gancio: “osmo” → “osso” → immagino un osso che si inzuppa d’acqua per richiamare il passaggio del solvente.

    ✅ Nei DSA:

    Le parole-gancio sono utili in caso di dislessia e disgrafia poiché legano l’apprendimento a concetti già acquisiti, creando mappe semantiche più solide. L’uso di metafore e analogie riduce lo sforzo cognitivo.

    3. Parole-chiave (Keyword method): ponti tra lingue e significati

    La parola-chiave è una tecnica largamente utilizzata nell’apprendimento linguistico e scientifico. Si tratta di associare un termine sconosciuto a una parola dal suono simile in lingua madre, seguita da un’immagine mentale che collega i significati.

    🔹 Esempio:

    Inglese: “chair” (sedia)
    → Chiave italiana: “ciare” (immagino qualcuno che “ciarla” seduto su una sedia).
    L’associazione visiva aiuta a fissare il termine.

    ✅ Nei DSA:

    Fondamentale per i soggetti con discalculia e dislessia, perché sfrutta l’intelligenza visuo-spaziale e verbale al servizio della transcodifica. È spesso usata nella metodologia Feuerstein e nei protocolli compensativi personalizzati.

    Le basi neuroscientifiche delle tecniche mnemoniche

    Studi in neuropsicologia cognitiva (Paivio, 1990; Mayer, 2009) confermano che l’associazione verbo-visiva attiva più circuiti cerebrali, migliorando l’immagazzinamento a lungo termine. In particolare:

    • Lobo temporale mediale: implicato nella formazione della memoria episodica
    • Corteccia prefrontale dorsolaterale: coinvolta nella manipolazione e nel recupero mnemonico
    • Ippocampo: consolidamento delle tracce mnestiche

    Nei soggetti con DSA, questi circuiti mostrano un’efficienza alterata, ma le tecniche descritte stimolano le aree compensative, aumentando l’accessibilità delle informazioni.

    Considerazioni pedagogiche e cliniche

    • L’uso multimodale di immagini, storie e fonemi consente un apprendimento accessibile anche in presenza di profili cognitivi atipici.
    • È cruciale integrare queste tecniche nei Piani Didattici Personalizzati (PDP), rendendo l’intervento non solo clinico ma anche educativo.
    • La ripetizione distribuita e l’auto-produzione di immagini mentali sono elementi che aumentano l’efficacia dell’apprendimento strategico,

    Conclusione

    Le parole-piolo, gancio e chiave non sono scorciatoie mnemoniche, ma strumenti di democrazia cognitiva: trasformano l’apprendimento in un’esperienza accessibile, creativa e duratura. Per i soggetti con DSA, rappresentano una via alternativa alla linearità tradizionale, valorizzando intelligenze laterali spesso inascoltate.

    “Non è la memoria a essere debole, ma la via d’accesso a essa a non essere ancora stata costruita.”
    D. L.


  • Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

    Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

    Riflessioni di un insegnante, psicologo, pedagogista e padre che da quasi 30 anni si occupa di integrazione, inclusione, neutodiversità…

    Questa è una lettera che nasce dove le parole spesso mancano: nel cuore ferito di un genitore che vede il proprio figlio non solo in difficoltà, ma escluso.

    Ci sono giorni in cui essere genitore di un bambino con disabilità intellettiva è come camminare su una fune tesa, senza rete di protezione. Non perché ci si vergogni, non perché si rinunci ad amarlo con tutto il cuore. Ma perché il dolore più profondo non nasce dalla diagnosi: nasce da ciò che succede dopo.


    Quando l’inclusione resta una parola

    C’è un momento esatto – e chi lo ha vissuto lo sa – in cui tuo figlio smette di essere “uno della classe” e diventa “un problema”.

    Quando la maestra – pur con la miglior buona volontà – ti fa capire che il gruppo classe “viene prima”.

    Quando gli altri bambini vengono incoraggiati a collaborare tra loro… mentre tuo figlio è accompagnato “a parte”, con pazienza, certo, ma anche con distanza.

    Quando l’inclusione viene nominata nei progetti e ignorata nelle dinamiche reali.

    E tu, genitore, torni a casa con la cartella piena di carte e il cuore vuoto. Perché tuo figlio non è un ostacolo alla crescita degli altri. È un bambino. E come ogni bambino, desidera appartenere.

    La solitudine dei genitori

    Si dice che serva un villaggio per crescere un bambino. Ma quando il bambino è fragile, spesso il villaggio si svuota.

    Restano i colloqui, i P.E.I., le buone intenzioni, ma manca lo sguardo profondo che riconosca nel bambino disabile una persona intera, non un frammento, non un “limite”.

    Essere genitore, in questi casi, è essere anche psicologo, terapista, segretario, avvocato del proprio figlio.

    Ma soprattutto, è essere testimone di un’esclusione che si consuma nel silenzio degli altri.

    Eppure l’aiuto è possibile

    L’aiuto vero non è pietà.

    Non è nemmeno la condiscendenza o l’applauso a fine recita.

    L’aiuto vero è lo sguardo educativo che non seleziona, ma si piega senza cedere, si adatta senza arrendersi.

    È la maestra che fa spazio non solo al programma, ma alla persona.

    È l’educatore che non vede un rallentamento ma una via diversa.

    È il compagno di classe che viene educato a riconoscere la diversità come ricchezza e non come ingombro.

    Unire la disperazione all’aiuto

    Come si tiene insieme la disperazione con la speranza di un aiuto effettivo?

    Con una sola parola: alleanza.

    L’alleanza tra scuola e famiglia non è un protocollo, ma un patto di fiducia.

    È dire: “Io vedo tuo figlio. Non come lo vorrei. Ma come è. E lo accolgo.”

    È smettere di difendersi e iniziare a costruire: insieme.

    Perché la disabilità non chiede compassione. Chiede relazioni vereattese pazientistrategie intelligenti.

    Conclusione

    A chi educa: non abbia paura di rallentare, di cambiare il ritmo della classe per accogliere chi ha bisogno.

    Non sarà tempo perso: sarà umanità guadagnata.

    Ai genitori, resti la forza di chiedere aiuto, senza cedere alla solitudine.

    Perché l’unica vera disabilità è un mondo che non vuole includere.

  • Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

    Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

    Il mito delle 5 ore: quanto apprendono davvero gli studenti?

    L’architettura oraria della scuola italiana — mediamente composta da cinque moduli da 60 minuti — risale a modelli educativi del primo Novecento. Oggi, le neuroscienze dimostrano che questo assetto è incompatibile con il funzionamento neurobiologico dell’attenzione umana, soprattutto in età evolutiva.

    Uno studio pubblicato su Teaching of Psychology (Wilson & Korn, 2007) ha evidenziato come il picco di attenzione si raggiunga nei primi 10-15 minuti di una lezione, per poi declinare drasticamente. Dopo 30 minuti, il cervello è già in fase di disimpegno. A 45 minuti, l’apprendimento è minimo, salvo nei casi in cui si introducano variazioni di stimolo, pause o metodi attivi.

    Quanto si trattiene dopo una giornata scolastica?

    Secondo la curva dell’oblio di Ebbinghaus, senza rinforzo:

    • Dopo 24 ore, si dimentica il 70% delle nozioni ricevute.
    • Dopo una settimana, resta meno del 10%.

    Questi dati sono stati confermati da ricerche più recenti sull’apprendimento, come quelle condotte da John Dunlosky e Elizabeth Bjork: la ripetizione distribuita, il recupero attivo e il testing effect sono decisivi per il consolidamento in memoria a lungo termine.

    Dalla lezione trasmissiva alla didattica neurocompatibile

    L’inadeguatezza del modello lezione-spiegazione-interrogazione ha portato a una nuova pedagogia delle neuroscienze. La cosiddetta neurodidattica propone formati brevi, modulari e multisensoriali, con momenti di rielaborazione attiva.

    Tra le alternative già in sperimentazione:

    • Spaced Learning (UK, progetto dell’OECD): lezioni da 20 minuti, interrotte da 10 minuti di attività motorie o ludiche. Risultato: +17% di ritenzione a lungo termine.
    • Metodo CLIL e flipped classroom: lo studente è al centro del processo, attivo nella costruzione di significato. Il docente diventa mediatore e facilitatore cognitivo.
    • Metodo finlandese: lezioni da 45 minuti, con pause ogni 15, alto uso di outdoor education. Secondo PISA 2022, la Finlandia è tra i Paesi con migliori risultati in reading e problem-solving.
    • Scuole senza voti (Germania, Olanda): il focus si sposta su feedback qualitativi e sviluppo metacognitivo.

    Progetti pilota italiani

    In Italia, alcune esperienze pionieristiche stanno tracciando nuove vie:

    • Istituto Comprensivo di Trento 7, con il progetto “Tempo modulato”: lezioni da 30 minuti, alternate a momenti di scrittura cooperativa, coding, attività teatrali.
    • Scuole Senza Zaino: al centro la responsabilizzazione dello studente e la progettualità personale.
    • “Didattica del silenzio” di Franco Lorenzoni, Casa-laboratorio di Cenci: stimolazione dell’intelligenza emotiva, non solo cognitiva.

    Quale futuro per la didattica?

    Occorre ripensare radicalmente la scansione temporale dell’apprendimento:

    • Moduli di 20-25 minuti con frequenti pause attive
    • Integrazione di attività motorie e manipolative
    • Valutazioni formative e non solo sommative
    • Ambienti di apprendimento flessibili e neuroergonomici

    La scuola del futuro dovrà essere bio-compatibile, adattata al ritmo cerebrale e non viceversa.

  • Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Nell’era della scuola “neurocentrica”, dove ogni metodologia didattica ambisce a definirsi “evidence-based”, si annida un pericolo silenzioso e affascinante: il neuromito. Con questo termine si indicano quelle convinzioni errate sul funzionamento del cervello umano che, pur prive di fondamento scientifico, si diffondono capillarmente nella formazione docente, nella pratica educativa e persino nei colloqui con le famiglie.

    Molti di questi miti derivano da una semplificazione eccessiva o da una distorsione dei risultati delle neuroscienze. Il pericolo? Che, anziché promuovere un’educazione più efficace, si costruiscano prassi rigide, stigmatizzanti o inutili.

    Che cosa sono i neuromiti?

    Il termine “neuromito” è stato coniato nel 2002 da Paul A. Howard-Jones, docente dell’Università di Bristol, per descrivere false credenze sul cervello che trovano terreno fertile nella scuola e nella formazione. Uno dei suoi studi più citati (Howard-Jones, 2014) ha mostrato che oltre il 70% degli insegnanti europei crede in almeno un neuromito, nonostante il loro alto livello di istruzione.

    Esempi classici includono:

    • “Usiamo solo il 10% del nostro cervello”
    • “Gli stili di apprendimento (visivo, uditivo, cinestetico) vanno assecondati per ogni alunno”
    • “L’emisfero destro è creativo, il sinistro è logico”
    • “È meglio insegnare ai bambini solo nella loro finestra sensibile”
    • “Il cervello si sviluppa solo fino a una certa età”

    Una questione di (in)formazione

    Uno studio condotto su 242 insegnanti italiani (Ferrero, Garaizar, & Vadillo, 2016) ha evidenziato che l’89% crede nell’esistenza degli stili di apprendimento come criterio per adattare la didattica. Tuttavia, nessuna ricerca neuroscientifica ha mai dimostrato un miglioramento significativo nei risultati scolastici adottando tale classificazione.

    Allo stesso modo, credere che il cervello abbia “un lato creativo e un lato logico” è una sovrainterpretazione di ricerche sulla specializzazione emisferica, ma le neuroscienze moderne mostrano che le funzioni cognitive complesse richiedono l’integrazione di entrambi gli emisferi (Gazzaniga, 2009).

    Perché sono dannosi?

    I neuromiti non sono semplici errori concettuali: influenzano direttamente il modo in cui gli educatori insegnano e valutano. Possono portare a etichettature precoci (“questo bambino non è portato per la matematica”), a strategie didattiche inefficaci e a spreco di risorse. In ambito clinico, possono addirittura ritardare diagnosi corrette in bambini con difficoltà specifiche dell’apprendimento.

    Una ricerca dell’OCSE (2019) ha sottolineato che la presenza di neuromiti nei sistemi scolastici rallenta l’innovazione educativa basata su dati scientifici e aumenta la dipendenza da mode pedagogiche.

    Come difendersi?

    1. Formazione scientificamente fondata

    Occorre inserire nei percorsi di aggiornamento per docenti e pedagogisti moduli di neuroeducazione, fondati su evidenze, per distinguere tra ciò che è “neuro-realistico” e ciò che è solo una “neuro-mod(a)”.

    2. Pensiero critico e interdisciplinarità

    È fondamentale promuovere il dialogo tra scienze cognitive, psicologia dell’educazione e didattica. Le neuroscienze non dettano il “come si insegna”, ma offrono vincoli e possibilità da tradurre con intelligenza pedagogica.

    3. Ricerca condivisa scuola-università

    Istituire progetti pilota in cui le scuole collaborano con centri di ricerca per monitorare gli effetti reali degli approcci didattici è una strada promettente.

    Esempio concreto: “Programmi per potenziare il cervello”

    Molte scuole hanno acquistato negli ultimi anni costosi software “per l’allenamento cerebrale” o “per lo sviluppo delle intelligenze multiple”, attratte da pubblicità che promettono miracoli cognitivi. Tuttavia, la letteratura scientifica (Simons et al., 2016) mostra che gli effetti di questi training sono spesso limitati e non trasferibili alla vita scolastica reale.

    Conclusione

    La fascinazione per il cervello è comprensibile: ogni educatore vorrebbe una chiave per liberare il potenziale degli alunni. Tuttavia, una chiave sbagliata apre porte sbagliate.
    Conoscere e smascherare i neuromiti è un dovere etico e professionale per ogni docente e pedagogista, perché solo su basi scientifiche possiamo costruire una scuola realmente inclusiva, efficace e umana.

  • Tipi di memoria funzioni e potenziamento nei DSA

    Tipi di memoria funzioni e potenziamento nei DSA

    La memoria non è un archivio statico, ma un atto creativo del cervello: ricorda ricostruendo, non conservando.” D.L.

    I diversi tipi di memoria: classificazione e funzioni

    Memoria di lavoro (working memory)

    È il fulcro della nostra capacità di mantenere e manipolare informazioni per brevi periodi.
    Esempio pratico: un bambino che ascolta una consegna e contemporaneamente deve trascrivere ciò che ha sentito.
    Funzione: essenziale per la comprensione del testo, la risoluzione di problemi matematici e la pianificazione.

    Memoria a breve termine

    Immagazzina le informazioni per pochi secondi o minuti.
    Esempio pratico: ricordare un numero di telefono per il tempo necessario a comporlo.
    Funzione: sostiene l’apprendimento immediato, ma senza manipolazione attiva dei dati.

     Memoria a lungo termine

    Comprende le informazioni conservate per lunghi periodi. Si divide in:

    • Memoria dichiarativa (esplicita): riguarda fatti (memoria semantica) e esperienze personali (memoria episodica).
    • Memoria procedurale (implicita): concerne abilità automatiche, come andare in bicicletta o scrivere.

    Funzione: immagazzina conoscenze, automatizza competenze, costruisce la narrazione autobiografica.

    Quando la memoria non funziona bene: segnali e conseguenze

    Nei bambini con DSA (in particolare dislessia, disortografia e discalculia), la memoria può presentare fragilità specifiche:

    • Difficoltà nella memoria fonologica: ostacola la decodifica dei suoni e la corretta ortografia delle parole.
    • Compromissione della memoria di lavoro: limita l’autonomia nei compiti complessi e rallenta l’elaborazione cognitiva.
    • Deficit della memoria procedurale: rende difficoltosa l’automatizzazione delle abilità scolastiche, costringendo il bambino a “ripensare” ogni volta come si legge, scrive o calcola.

    Queste difficoltà non vanno confuse con scarso impegno o svogliatezza: sono segni di un funzionamento neuropsicologico differente, che richiede un approccio mirato.

    Strategie e strumenti per il potenziamento

    Interventi mirati

    • Training specifici sulla memoria di lavoro, come gli esercizi a carico cognitivo crescente (dual tasks, n-back).
    • Mappe concettuali e visive, per alleggerire la memoria a breve termine e sostenere quella semantica.
    • Routinizzazione, ovvero ripetizione e automatizzazione progressiva per rinforzare la memoria procedurale.

    Tecnologie compensative

    • Sintesi vocale, audiolibri e software per la gestione delle informazioni, particolarmente utili nei casi di dislessia.

    Didattica metacognitiva

    Aiuta il bambino a diventare consapevole dei propri processi mentali, utilizzando strategie come l’autoverbalizzazione (“Cosa sto facendo?”, “Qual è il prossimo passo?”).

    Conclusione

    In ambito educativo e clinico, la memoria non va intesa come un contenitore più o meno capiente, ma come una rete dinamica di processi interdipendenti. Quando uno di questi nodi è fragile, tutto l’assetto dell’apprendimento può risentirne. Ma la plasticità cerebrale, unita a un intervento precoce e competente, consente di sviluppare strategie adattive che rafforzano le risorse residue e valorizzano le intelligenze alternative. Comprendere i diversi tipi di memoria significa, dunque, aprire una finestra sul modo unico in cui ogni bambino impara, pensa e costruisce il proprio futuro.

  • Migliorare l’attenzione degli studenti a scuola è una priorità

    Migliorare l’attenzione degli studenti a scuola è una priorità

    • primi 5 minuti sono quelli di massimo focus;

      L’attenzione a scuola: una risorsa in declino?

      In un mondo saturo di stimoli digitali, l’attenzione in classe è diventata una risorsa sempre più fragile. Studi recenti mostrano come il tempo medio di concentrazione nei bambini e negli adolescenti si sia ridotto drasticamente negli ultimi vent’anni. Secondo un’analisi pubblicata su Nature Reviews Neuroscience (2023), l’esposizione prolungata a contenuti digitali rapidi e frammentati altera il funzionamento della corteccia prefrontale, sede del controllo esecutivo e dell’attenzione sostenuta.

      Cosa dice la ricerca: attenzione, multitasking e apprendimento

      Uno studio dell’Università di Stanford (2024) ha dimostrato che il multitasking digitale abbassa la qualità dell’apprendimento fino al 40%, interferendo con la memoria di lavoro e il consolidamento delle informazioni. L’effetto è ancora più marcato in soggetti con difficoltà di attenzione o DSA, che già partono con un carico cognitivo maggiore.

      Strategie didattiche basate sulle neuroscienze

      Oggi si parla sempre più di neurodidattica: un approccio che integra i risultati delle neuroscienze cognitive nella progettazione educativa. Alcuni esempi efficaci:

      • Attività brevi e cicliche: le ricerche della McGill University (2023) confermano che suddividere le lezioni in segmenti di 10-15 minuti con pause attive aumenta l’attenzione sostenuta e riduce la fatica mentale.
      • Didattica multisensoriale: coinvolgere diversi canali sensoriali (visivo, uditivo, cinestesico) facilita la codifica e il recupero delle informazioni, soprattutto nei bambini con disturbi dell’attenzione.
      • Tecniche metacognitive: insegnare agli studenti come funziona la propria attenzione e come gestirla attraverso strumenti di self-regulation migliora significativamente i risultati. Studi dell’Università di Harvard (2023) lo confermano con dati longitudinali su oltre 3.000 studenti tra 8 e 14 anni.
      • Esempi concreti e progetti pilota
      • Nel 2024, il MIM ha promosso un progetto sperimentale in 50 scuole italiane, introducendo “pause neurocognitive” ogni 40 minuti di lezione. I risultati preliminari evidenziano un incremento del 25% nella capacità di attenzione degli studenti e una riduzione del 30% nei comportamenti oppositivo-provocatori in classe.
      • Inoltre, l’uso di ambienti scolastici “low stimuli” (riduzione del rumore, luci naturali, arredi funzionali) ha portato a un miglioramento significativo nel comportamento attentivo in bambini neurodivergenti, come dimostrato in un recente studio condotto all’Università di Padova (2023).
      • Conclusioni
      • Migliorare l’attenzione degli studenti è possibile, ma richiede un cambio di paradigma: serve una scuola più ritmata sul cervello degli studenti, meno votata alla performance e più attenta alla qualità dell’ambiente e delle interazioni. Le neuroscienze ci indicano la via, ora sta a noi percorrerla.
    1. Oltre la media matematica nella scuola di oggi

      Oltre la media matematica nella scuola di oggi

      Per decenni, la scuola italiana ha fatto della media matematica dei voti la bussola della valutazione, considerandola un criterio oggettivo e facilmente quantificabile. Tuttavia, gli sviluppi recenti nel campo della docimologia — la scienza della valutazione scolastica — mettono in discussione la sua efficacia, mostrando come tale approccio possa risultare riduttivo e, in alcuni casi, dannoso per la crescita psicologica e formativa dell’allievo.

      Perché la media matematica non basta più

      L’uso esclusivo della media aritmetica per valutare gli studenti tende a:

      • Uniformare realtà diverse, ignorando progressi individuali;
      • Penalizzare chi parte in svantaggio, favorendo chi ha già prerequisiti solidi;
      • Indurre ansia da prestazione, con effetti negativi sull’autostima (cfr. Hattie, 2009).

      Uno studio pubblicato su The Journal of Educational Measurement (2021) evidenzia come la valutazione basata unicamente su numeri porti a una sovraesposizione al giudizio e a una cristallizzazione dell’identità scolastica, specialmente in età adolescenziale.

      Valutazione progressiva ed educativa: modelli alternativi

      Negli ultimi anni, sempre più istituti scolastici stanno adottando una valutazione progressiva, centrata su:

      • Osservazione dei progressi nel tempo, anche in termini qualitativi;
      • Feedback narrativo e orientato allo sviluppo;
      • Autovalutazione e metacognizione, per rafforzare l’autoefficacia dello studente.

      Questo approccio si ispira ai lavori di Carol Dweck sul growth mindset, secondo cui il voto dovrebbe essere un indicatore di percorso, non un’etichetta definitiva.

      Progetti pilota e sperimentazioni

      Italia: “Valutare per apprendere”

      Nel 2023 il MIUR ha avviato, in alcune scuole secondarie di primo grado, il progetto “Valutare per apprendere”, con l’obiettivo di superare la tradizionale griglia numerica. I risultati preliminari indicano:

      • una diminuzione del tasso di abbandono scolastico del 12%;
      • un incremento dell’autoefficacia percepita da parte degli studenti (misurata attraverso lo Self-Efficacy Questionnaire for Children).

      Finlandia e Norvegia: esempi nordici di eccellenza

      In Finlandia, da anni, la valutazione non numerica è la norma fino ai 14 anni. Il focus è su descrittori formativi che guidano lo studente nel riconoscere le proprie aree di miglioramento. Analogamente, in Norvegia, il sistema educativo punta sulla valutazione formativa, collegata a obiettivi individualizzati e piani di sviluppo personali.

      Un cambiamento culturale prima ancora che metodologico

      Il passaggio da una valutazione sommativa a una educativa richiede un cambio di paradigma per docenti, studenti e famiglie. Non si tratta di “essere buoni”, ma di responsabilizzare l’apprendimento e rendere la valutazione uno strumento evolutivo.

      Come ricorda Edgar Morin:

      “La testa ben fatta vale più di una testa ben piena”.

    2. La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

      La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

      Gent.mo Professore, ho insegnato per 40 anni in un liceo. Negli ultimi anni ho riscontrato negli alunni la difficoltà di memorizzazione delle nozioni. A distanza di 50 anni ricordo ancora le poesie insegnatemi nelle elementari. Esiste una causa e degli strumenti che possano compensare questa difficoltà? Marcello

      Parto da una premessa. Lei mi parla dei tempi andati, percepisco una certa nostalgia e struggenza, come è giusto che sia, però dobbiamo prendere atto che i tempi attuali sono terribilmente differenti e terribilmente difficili. Il cambio generazionale è violento, da un biennio all’altro ci troviamo dinanzi a ragazzi che arrivano con scarse basi di scolarizzazione, con problemi comportamentali, con certificazioni che attestano disturbi dell’apprendimento e bisogni educativi speciali,

      Quasi ogni giorno siamo costretti a chiamare le ambulanze per un pronto intervento per attacchi di ansia e panico. I tempi che furono non possono essere un metro di paragone con la generazione attuale. Troppe cose son cambiate nel frattempo, in primis la famiglia, la visione della scuola e dell’insegnante, e soprattutto non siamo ancora preparati a contenere e ad educare ad uso corretto delle tecnologie informatiche. Proprio su quest’ultimo aspetto, recenti studi sottolineano che oramai ci siamo abituati a vivere con la certezza che le risposte che ci servono sono a portata di un clic, concependo il web come una memoria esterna alternativa. Quando ci manca una informazione o non ricordiamo qualcosa, ci viene in aiuto Mister Google. Siamo cresciuti nel trovare la strada che ci porta a trovare l’informazione a noi utile, ma rispetto a qualche decennio fa, memorizziamo molto meno alcune informazioni. Secondo una ricerca dell’Università di Fairfield, è un fenomeno che sembra estendersi anche alle immagini: persino fare fotografie può ridurre i ricordi delle immagini viste. La memoria, se non viene allenata, al pari della muscolatura, tende ad inflaccidirsi, per questo resta fondamentale un training continuo. Oggi, come sottolinea A. Keen, in ‘The Internet is Not the Answer‘, (Internet non è la risposta) allenamento e rigore mentale sono andati perduti.

      Spesso capita di trovare un numero consistente di allievi che nonostante si applichino nello studio non riescano a ricordare, né ad esprimerle compiutamente ciò che hanno studiato. Dopo la fatica, i risultati non sempre sono commisurati allo sforzo e producono risultati scadenti, creando scoraggiamento e sconforto. Neuroscienze e neuropsicologia, che da anni studiano il fenomeno, danno delle risposte in merito, soprattutto sullo studio della memoria nelle sue varie manifestazioni, ma come spesso succede le conoscenze che emergono, rimangono confinate nel ristretto ambito clinico-riabilitativo, per pochi eletti, e non giungono alla destinazione interessata e coinvolta per prima: la scuola.  

      André Rey, nel 1958 ha strutturato una prova che consente di misurare esattamente l’abilità chiamata prova di apprendimento verbale. Al soggetto è presentata una lista di 15 parole che deve cercare di ricordare al termine di ogni presentazione, per 5 volte registrando quanti elementi vengono ricordati. Successivamente il soggetto viene distratto con attività spaziali e dopo 15 minuti gli viene chiesto di ripetere la lista.La curva di apprendimento, in genere, mostra un rapido incremento nel numero di parole ricordate dopo la seconda somministrazione. Il numero di parole cresce fino ad avvicinarsi a 15 al quarto tentativo e spesso tutte le parole vengono ricordate all’ultima ripetizione. Dopo 15 minuti la maggior parte delle persone ricorda l’intera lista senza difficoltà. Ecco dunque un aspetto interessante che deve farci riflettere: nonostante la fase di apprendimento della lista di parole, il recupero a distanza delle informazioni apprese può essere inefficiente: l’immagazzinamento funziona, ma il ricordo no. Siffatta prova conferma quello che a volte si verifica nell’apprendimento scolastico, ovvero, informazioni che al termine del pomeriggio di studio sembravano immagazzinate, dopo qualche ora non sono più recuperabili. Può esistere apprendimento senza ricordo?  Le neuroscienze ci aiutano indicandoci che l’aspetto importante è capire se il soggetto non ricorda o non immagazzina. Sovente si immagazzina ma non si ricorda, e questa è una situazione che trova un trend più frequente nelle nuove generazioni.

      Il problema è risolvibile, con strumenti compensativi, che sovente restano sconosciuti agli stessi insegnanti. Ad uno studente che ha davvero problemi a ricordare una formula o una regola, basta dargli il magazzino delle formule e delle regole a disposizione e lui supererà le sue difficoltà. Gli strumenti ci sono, occorre un utilizzo corretto senza preconcetti di sorta.