Dalla vittimizzazione all’odio agito: cosa accade nella mente di chi non ha mai potuto raccontare il proprio trauma.
“Il dolore taciuto diventa rabbia accumulata, e la rabbia compressa, in adolescenza, può esplodere in forme di aggressione riflessa.” D.L.
Il ciclo del dolore: quando la vittima diventa carnefice
Esiste un paradosso spesso ignorato ma ben documentato dalla letteratura scientifica: molti bulli sono stati, in passato, vittime di bullismo. La psicologia evolutiva e le neuroscienze stanno contribuendo a spiegare questo passaggio inquietante da vittima a persecutore, tracciando i circuiti neurofisiologici della vendetta e dell’aggressività reattiva.
Trauma precoce e plasticità sinaptica
Secondo numerosi studi, le esperienze traumatiche precoci, come l’essere bullizzati, modificano profondamente l’architettura cerebrale. L’esposizione reiterata a minacce o umiliazioni attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA)in maniera cronica, con ipersecrezione di cortisolo e modifiche nei circuiti dell’amigdala, dell’ippocampo e della corteccia prefrontale.
Uno studio pionieristico di Teicher et al. (2003) ha evidenziato che i bambini vittime di abusi o esclusione sociale presentano una riduzione del volume dell’ippocampo e un’iperattivazione dell’amigdala, associata a ipervigilanza e iperreattività agli stimoli sociali percepiti come minaccia.
Il ruolo dell’amigdala e del sistema limbico
L’amigdala, nucleo chiave nella gestione della paura e dell’aggressività, nei soggetti bullizzati tende a reagire in modo eccessivo a stimoli sociali ambigui, sviluppando una forma di “bias dell’intenzione ostile” (Hostile Attribution Bias), secondo cui anche situazioni neutre vengono interpretate come potenzialmente minacciose (Dodge et al., 1990).
La corteccia prefrontale mediale, deputata all’inibizione comportamentale e al controllo emotivo, risulta meno efficiente nel modulare queste risposte limbiche, specialmente in soggetti che non hanno avuto esperienze relazionali correttive e contenitive.
Neurobiologia della vendetta
Un esperimento condotto da de Quervain et al. (2004) con risonanza magnetica funzionale ha dimostrato che l’atto di vendicarsi attiva il nucleo caudato e il putamen, regioni coinvolte nel circuito della ricompensa dopaminergica. In altre parole, la vendetta può generare piacere neurochimico, come una sorta di compensazione biologica al dolore patito.

Perché diventano bulli?
La sofferenza emotiva interiorizzata senza possibilità di elaborazione può convertirsi in aggressività reattiva o proattiva, come forma di regolazione disfunzionale del Sé. I bambini che subiscono bullismo e non ricevono supporto psicologico adeguato sviluppano spesso modelli relazionali basati sul dominio o sulla sottomissione, come descritto dalla teoria dell’attaccamento disorganizzato (Lyons-Ruth, 1999).
Vendetta come strategia del Sé ferito
Quando la vittima non viene ascoltata, non trova simbolizzazione del dolore, non riceve protezione né strumenti per elaborare, l’unica via percepita come riscatto può diventare l’agito violento. Non si tratta di “follia improvvisa”, ma della cristallizzazione di un Sé frantumato che restituisce al mondo la propria sofferenza sotto forma di distruzione.
Questo processo è noto anche in ambito clinico come disforia post-traumatica, e include:
- depersonalizzazione,
- distacco affettivo,
- cinismo difensivo,
- costruzione di un’identità vendicativa.
Un caso di cronaca: la vendetta post-traumatica
Un caso emblematico è quello di Will Cornick, adolescente inglese che nel 2014 uccise la propria insegnante con 7 coltellate. L’analisi forense rivelò una storia di bullismo scolastico prolungato, con conseguente ritiro sociale, ossessione per la vendetta e progressiva disconnessione empatica. La CTU (Criminal Trial Unit) parlò di “aggressività vendicativa con componenti narcisistiche”, alimentata da sentimenti di impotenza e desiderio di riscatto sociale.
In generale, i casi di cronaca ci mostrano come l’odio, quando incubato nell’infanzia, può diventare una “memoria emotiva tossica” che il cervello conserva come ferita aperta. Se non curata, può diventare agita. Le neuroscienze oggi ci danno gli strumenti per prevedere e prevenire. Spetta a noi usarli.
