Tag: danilolittarrupsicologocagliari

  • “Stefano Benni, la scomparsa e l’eredità di Margherita Dolcevita”.

    “Stefano Benni, la scomparsa e l’eredità di Margherita Dolcevita”.

    Ci sono romanzi che, con leggerezza apparente, affondano le mani nel cuore della contemporaneità, smascherandone le fragilità e i cortocircuiti. Margherita Dolcevita (Feltrinelli, 2005) di Stefano Benni è uno di questi: un libro ironico e struggente, che si legge come una favola nera capace di parlare tanto agli adulti quanto agli adolescenti.

    La protagonista è Margherita, detta “Dolcevita”: quattordici anni, cuore generoso, spirito ribelle e uno sguardo acuto che decifra i silenzi degli adulti meglio delle loro parole. Vive in una famiglia eccentrica, tratteggiata con la consueta vena caricaturale di Benni: il padre disilluso, la madre ossessiva, il fratello tecno-dipendente, il nonno visionario. Un microcosmo che riflette, in forma grottesca e poetica, la società italiana sospesa tra consumismo, perdita di valori e omologazione.

    Il romanzo si anima con l’arrivo dei “Del Bene”, misteriosi vicini che incarnano un capitalismo scintillante e predatorio. Case perfette, sorrisi di plastica, promesse di benessere assoluto: dietro la facciata, la voragine dell’alienazione. Margherita, con il suo occhio critico e la sua sensibilità ferita, diventa coscienza e resistenza: la sua adolescenza non è un’età spensierata, ma il luogo drammatico in cui si combatte la lotta per l’anima della società.

    Lo stile di Benni alterna lirismo e comicità, favola e satira sociale. La lingua, intrisa di invenzioni, calembour e iperboli, costruisce una narrazione che sa far ridere e, nello stesso tempo, inquietare. Il lettore avverte, sotto la risata, la malinconia di un mondo che rischia di spegnersi nella sua stessa iperconnessione e nei suoi falsi bisogni.

    Margherita Dolcevita è una metafora attualissima dell’adolescenza e del nostro tempo: ci ricorda che crescere significa difendere la propria capacità di sognare, senza cedere alle sirene del conformismo. È un libro che genitori, educatori e terapeuti dovrebbero leggere per comprendere lo sguardo ferito e insieme lucido delle nuove generazioni.

    Con la scomparsa di Stefano Benni, avvenuta oggi, 9 settembre 2025, a Bologna, si chiude un capitolo luminoso della letteratura italiana contemporanea. Aveva 78 anni e da tempo lottava contro una lunga e invalidante malattia.

    Addio, ad uno scrittore che non salì mai in cattedra, che amava sorprenderci con neologismi, iperboli, paradossi e invenzioni linguistiche — un autore che ha saputo rendere la satira culturale un atto d’amore per il mondo e per la parola. Che il suo lascito continui, in ogni frase letta ad alta voce, a farci ridere, a indurci a guardare il mondo con occhi più acuti, più solidali, più vivi.

    “Noi siamo quello che sembriamo ma non sempre sembriamo quello che pensiamo di sembrare.”

    Stefano Benni 12 Agosto 1947 – 9 Settembre 2025

  • Disturbo Oppositivo Provocatorio nei bambini e negli adolescenti.

    Disturbo Oppositivo Provocatorio nei bambini e negli adolescenti.

    Il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) è una delle sfide educative più complesse che i genitori possano affrontare. Non si tratta di semplici “capricci”, ma di un quadro clinico caratterizzato da comportamenti oppositivi, provocatori e polemici che logorano la vita familiare e scolastica. Molti genitori arrivano allo studio dello psicologo con la stessa domanda: “Come si spegne la polemica? Dobbiamo dire sempre sì, anche quando non dovremmo?”

    La risposta è no: dire sempre sì non aiuta, ma nemmeno lo scontro continuo è la strada. Serve un approccio educativo basato su fermezza calma, regole chiare e strategie comunicative efficaci.

    Disturbo Oppositivo Provocatorio in età infantile

    Nei bambini piccoli il DOP si manifesta con:

    • rifiuto di eseguire compiti semplici,
    • opposizione sistematica agli adulti,
    • scoppi d’ira frequenti,
    • sfida costante alle regole.

    In questa fase la gestione passa soprattutto dal contenimento emotivo e dall’insegnare gradualmente la tolleranza alla frustrazione.

    Disturbo Oppositivo Provocatorio in adolescenza

    Quando il DOP arriva all’adolescenza, la situazione si complica. L’oppositività si intreccia con la fisiologica ricerca di autonomia tipica di questa età.

    Caratteristiche principali in adolescenza:

    • Sfide più forti: i “no” diventano aperti atti di ribellione, spesso davanti ai pari o agli insegnanti.
    • Conflitti familiari accesi: ogni regola diventa terreno di scontro, con escalation che possono degenerare in rottura del dialogo.
    • Rischi maggiori: aumento della possibilità di comportamenti a rischio (uso di sostanze, bullismo, abbandono scolastico).
    • Autostima fragile: dietro la rabbia c’è spesso un senso di inadeguatezza non riconosciuto.

    Strategie educative per genitori di adolescenti con DOP

    1. Regole poche ma chiare – un adolescente con DOP non tollera il controllo costante, ma ha bisogno di confini stabili.
    2. Dialogo senza prediche – comunicare in modo diretto, evitando sermoni infiniti che innescano la sfida.
    3. Responsabilità condivisa – coinvolgere l’adolescente nella definizione delle regole aumenta la percezione di controllo.
    4. Gestione della rabbia – insegnare tecniche di autoregolazione emotiva (respirazione, sport, musica, attività creative).
    5. Alleanza con la scuola – fondamentale un fronte educativo comune tra docenti e genitori.

    Consigli pratici per spegnere la polemica

    • Evitare di reagire alle provocazioni con urla.
    • Usare il sì condizionato (“Sì, puoi uscire… quando hai finito lo studio”).
    • Rinforzare i comportamenti positivi anche se minimi.
    • Restare calmi e non alimentare la spirale di sfida.
    • Cercare un supporto psicologico specializzato quando il conflitto supera la gestione familiare.

    Conclusione

    Il Disturbo Oppositivo Provocatorio, sia nei bambini sia negli adolescenti, non si affronta con il “sì” a tutti i costi, ma con no coerenti, regole chiare e capacità di mantenere la calma. Nell’adolescenza la sfida è più complessa, ma anche più decisiva: gestire la ribellione senza spegnere la personalità significa trasformare il conflitto in un percorso di crescita.

  • Diario di un curato di campagna.

    Diario di un curato di campagna.

    La grazia che abita la fragilità

    In un mondo che idolatra la forza e il successo, Georges Bernanos ci consegna un romanzo che è un inno alla debolezza come luogo in cui la Grazia si rivela. Diario di un curato di campagna (1936) non è soltanto la storia di un giovane prete malato e incompreso, ma un pellegrinaggio interiore che tocca le corde più profonde della psiche e dello spirito.

    Il protagonista, fragile nel corpo e incerto nel ministero, sembra soccombere di fronte alle ostilità della sua comunità e all’opacità del proprio cuore. Eppure, proprio in questo crepuscolo interiore, si apre una luce che non abbaglia, ma consola: la Grazia di Dio che si insinua nelle crepe dell’umano. La sua ultima confessione, “Tutto è grazia”, non è resa, ma suprema vittoria.

    Perché leggerlo oggi

    • È un testo di psicologia esistenziale: il diario diventa specchio delle nostre inquietudini, dei sensi di colpa e della ricerca di autenticità.
    • È una lezione pedagogica: mostra come la vera educazione e cura delle anime non sia predicazione trionfale, ma accompagnamento discreto, spesso silenzioso.
    • È un romanzo terapeutico: la sofferenza del curato parla a chi vive depressioni, solitudini, e li trasforma in luoghi di significato.

    Bernanos non ci offre un eroe, ma un uomo ferito che diventa testimone di una verità universale: la fragilità non è ostacolo, ma via verso l’Assoluto.

  • Taser e solitudine dello stato: chi protegge chi ci protegge?

    In una giornata come tante, due membri delle forze dell’ordine fermano un uomo che rifiuta le regole. Tentano di contenerlo, il Taser entra in azione: lo strumento “non letale” diventa letale. L’uomo muore, e con lui crolla anche la certezza di chi indossa la divisa.

    Il paradosso è chiaro: chi serve lo Stato viene lasciato solo dallo Stato. Da garanti della sicurezza a imputati per omicidio colposo. Con le spese legali a carico e la percezione che la divisa, in fondo, sia un’armatura bucata.

    ✦ Ma qui va detto con chiarezza: non sono ammessi eccessi di forza, squilibri e arroganze che talvolta la divisa porta con sé quando viene indossata da chi fraintende il proprio ruolo. L’abuso di potere, l’uso sproporzionato della forza, l’arroganza istituzionale vanno condannati senza ambiguità. La società deve distinguere tra chi agisce per necessità e chi invece sfrutta l’uniforme come strumento di sopraffazione.

    E allora la domanda resta: come possiamo chiedere sicurezza se non siamo disposti ad assumerci collettivamente le conseguenze di chi rischia la vita per garantirla? Celebriamo le forze dell’ordine come eroi, ma le abbandoniamo al primo errore. Condanniamo con forza ogni abuso, ma proteggiamo chi agisce correttamente, anche quando l’esito è tragico.

    ⟡ O lo Stato garantisce davvero protezione ai suoi uomini, oppure continueremo a recitare una farsa: la sicurezza “senza macchia” che non esiste.
    Dietro ogni uniforme c’è una persona.
    E prima di puntare il dito, dovremmo chiederci: chi protegge chi ci protegge?

  • Giuda Iscariota: il traditore o l’uomo spezzato?

    Giuda Iscariota: il traditore o l’uomo spezzato?

    L’enigma dell’uomo più discusso della storia

    Chi era davvero Giuda Iscariota, l’apostolo che consegnò Gesù? Traditore, vittima, capro espiatorio? La sua figura continua ad affascinare psicologi, filosofi, artisti e teologi. Da Dante a Dostoevskij, fino a Borges, Giuda rimane il volto oscuro della storia cristiana, “il condannato dall’umanità”.

    Profilo psicologico di Giuda

    La psicologia moderna legge in Giuda una personalità lacerata da profonde tensioni. Da un lato l’idealismo politico e religioso, dall’altro la delusione per un Messia che non rispondeva alle attese.
    Il tradimento può essere interpretato come una forma estrema di dissonanza cognitiva: amare e odiare, seguire e distruggere, sperare e disperarsi.
    Alcuni clinici ipotizzano tratti borderline: incapacità di reggere la frustrazione, oscillazione tra idealizzazione e svalutazione, esplosioni impulsive.

    Dimensione psichiatrica: il peso della colpa

    Il suicidio di Giuda, narrato nei Vangeli e ripreso nel libro degli Atti con il riferimento al campo di sangue (Akeldamà), evidenzia un quadro di verosimile depressione maggiore con colpa persecutoria.
    Il gesto non libera: lo precipita nell’abisso dell’auto-condanna. In termini clinici, Giuda rappresenta l’archetipo dell’atto impulsivo irreversibile, dove alla rabbia subentra un dolore insopportabile, senza possibilità di rielaborazione.

    Antropologia del tradimento: il capro espiatorio

    Per l’antropologia Giuda diventa il capro espiatorio universale. René Girard ricorda che “la violenza si placa quando trova una vittima”. L’umanità ha bisogno di incarnare il male in un volto riconoscibile, e Giuda diventa quel volto.
    Eppure, dietro il “traditore” c’è un uomo che ha viaggiato accanto a Cristo, ascoltato le parabole, condiviso il pane. Un uomo che ha baciato il Maestro con un gesto che ancora scuote la storia.

    Giuda nell’arte e nella letteratura

    La figura di Giuda ha attraversato secoli di interpretazioni.

    • Dante Alighieri lo colloca nell’Inferno, nel cuore ghiacciato della Giudecca, dilaniato da Lucifero stesso.
    • Fëdor Dostoevskij lo vede come simbolo della libertà tragica, capace di scegliere anche contro il bene.
    • Jorge Luis Borges scrive che “nessuno è tanto straniero a noi quanto colui che crediamo irrimediabilmente perduto”, aprendo alla possibilità di vedere Giuda come specchio della nostra stessa fragilità.

    Il condannato dall’umanità

    Giuda Iscariota è il volto ambiguo dell’uomo spezzato, che incarna insieme il peccato e la disperazione. Non è solo “il traditore”, ma l’archetipo della nostra capacità di cedere al male pur amando il bene.
    Guardarlo non significa giustificarlo, ma riconoscere che ogni essere umano porta in sé il rischio del proprio Akeldamà.

  • “Conflitti di coppia: quando l’amore diventa un deserto emotivo”

    “Conflitti di coppia: quando l’amore diventa un deserto emotivo”

    “Meglio il deserto che la lite? La Bibbia e la psicologia spiegano”.

    “Meglio abitare nel deserto che con una donna litigiosa e irascibile” (Proverbi 21,19).

    Questo proverbio biblico, apparentemente duro e intriso di un contesto patriarcale, porta in sé una verità universale: la conflittualità persistente in una relazione è un veleno lento.
    Se nella tradizione sapienziale ebraica l’immagine del deserto evocava isolamento e privazione, qui diventa paradossalmente preferibile rispetto alla convivenza con una persona — moglie o marito che sia — la cui costante ostilità logora la serenità domestica.

    Il conflitto cronico e il danno psicologico

    La psicologia delle relazioni insegna che il conflitto non è di per sé patologico: può persino essere un motore di crescita, se gestito in modo costruttivo. Tuttavia, quando la tensione diventa cronica, la coppia entra in un ciclo di difesa–attacco che altera profondamente il clima emotivo.
    John Gottman, uno dei massimi studiosi della relazione di coppia, ha evidenziato che il disprezzo, la critica costante e la mancanza di ascolto sono i principali predittori della rottura. A lungo andare, la convivenza in un ambiente così carico di frustrazione può condurre a disturbi d’ansia, somatizzazioni e perfino depressione.

    La radice emotiva della litigiosità

    Spesso, dietro l’irascibilità si celano ferite antiche: stili di attaccamento insicuri, vissuti di abbandono, paure di perdita. L’aggressività verbale può essere il linguaggio distorto di un bisogno di vicinanza, espresso però in forma di controllo o accusa.
    Un “deserto” emotivo può crearsi anche dentro la relazione stessa, quando il partner si sente invisibile o non riconosciuto.

    Dal proverbio alla terapia: uscire dal deserto interiore

    L’uscita non è quasi mai la fuga fisica — purtroppo, come spesso accade nella realtà, molte coppie restano insieme in un clima tossico. Piuttosto, occorre un lavoro consapevole:

    • Comunicazione non violenta, per trasformare accuse in richieste chiare e rispettose.
    • Psicoterapia di coppia, per ricostruire fiducia e sicurezza affettiva.
    • Autoconsapevolezza emotiva, perché la pace interiore è la premessa per una pace condivisa.

    Il proverbio ci ammonisce con forza: vivere nel “deserto” è una condizione dura, ma a volte il silenzio arido è meno tossico del rumore costante del conflitto.
    La sfida, oggi, è trasformare quel deserto in un giardino, lavorando sulle radici invisibili della litigiosità.

  • Doom-scrolling: la spirale che avvelena l’umore

    Doom-scrolling: la spirale che avvelena l’umore

    Quando il dito scorre e la mente sprofonda

    Il termine doom-scrolling — coniato in ambito mediatico ma ormai acquisito dal lessico psicologico — indica l’atto compulsivo di scorrere senza sosta contenuti negativi su social network e portali di notizie. Una pratica apparentemente passiva, ma che, a livello neurofisiologico, può innescare una catena di reazioni con conseguenze tangibili sul tono dell’umore e sulla salute mentale.

    Uno studio della Texas Tech University (2022) ha documentato come l’esposizione prolungata a notizie allarmistiche comporti un aumento dei livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, e una riduzione della Heart Rate Variability (HRV), un parametro biometrico correlato alla resilienza psicologica.

    Perché ci intrappola

    Il fenomeno si fonda su due pilastri neuropsicologici:

    1. Attivazione cronica dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA): il cervello interpreta il flusso ininterrotto di notizie negative come una minaccia costante, attivando la risposta di allarme in modo protratto.
    2. Bias di negatività: come dimostrato da Baumeister et al. (2001), la mente attribuisce maggiore peso e salienza emotiva agli stimoli negativi rispetto a quelli positivi, distorcendo la percezione della realtà e predisponendo all’ansia.

    La conseguenza è un loop emotivo in cui l’utente, pur avvertendo malessere, continua a cercare informazioni disturbanti, alimentando inconsapevolmente uno stato di vigilanza ansiogena.

    Effetti psicologici documentati

    • Peggioramento del tono dell’umore e incremento della sintomatologia depressiva
    • Irritabilità e insonnia dovute all’iperattivazione del sistema limbico
    • Riduzione delle capacità attentive per saturazione cognitiva
    • Ritiro sociale in favore di un consumo solitario e compulsivo di contenuti

    Uno studio pubblicato su Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking (2021) ha confermato la correlazione tra consumo eccessivo di notizie negative online e aumento significativo di ansia generalizzata.

    Strategie di prevenzione

    • Definire limiti temporali (es. 15-20 minuti al giorno di fruizione informativa)
    • Selezionare fonti attendibili per ridurre esposizione a contenuti sensazionalistici
    • Integrare “positive news” e letture neutrali nel proprio feed
    • Praticare mindful scrolling: osservare consapevolmente le proprie reazioni emotive durante la navigazione

    Come osserva Daniel Levitin, neuroscienziato e autore di The Organized Mind:

    “Il cervello è una macchina predittiva: saturarlo di negatività significa programmare le sue aspettative sul peggio.”

  • Vita dei figli di grandi psicologi e psichiatri

    Vita dei figli di grandi psicologi e psichiatri

    Dietro le grandi teorie della mente, si celano spesso conseguenze familiari drammatiche, perfino paradossali. L’amore, declinato in termini teorici, può trasformarsi in un progetto da perseguire, anziché in una relazione da vivere.

    Quando i padri della psiche ferirono i propri figli

    La storia della psicologia e della psichiatria è costellata di figure geniali che hanno rivoluzionato il pensiero umano. Ma quando la teoria scavalca l’affetto, il rapporto genitoriale rischia di trasformarsi in un campo sperimentale, con esiti profondamente traumatici per chi vi nasce dentro.

    Sigmund Freud – L’amore filtrato dalla teoria

    Freud ha ridefinito la comprensione dell’inconscio, ma la sua relazione con i figli, in particolare con Anna, resta un esempio ambiguo. Anna è per Freud “la cara e unica figlia” ma non fu non solo figlia, ma anche discepola, custode e prosecutrice della dottrina paterna. La loro vicinanza intellettuale è stata interpretata da alcuni storici come una forma di simbiosi che limitò la libertà identitaria di Anna, costretta a vivere sotto l’ombra ingombrante del padre.

    Carl Gustav Jung – Il doppio volto del padre-visionario

    Jung alternava intensi momenti di affetto a lunghi periodi di assenza emotiva, preso da viaggi e ricerche. I suoi figli, pur vivendo in una famiglia agiata, raccontarono di una figura paterna distante e centrata su se stessa. L’uso del proprio mondo onirico come fonte di ispirazione lo portava spesso a un distacco dalla concretezza affettiva quotidiana.

    Jacques Lacan – Il carisma che schiaccia

    Lacan, genio e provocatore della psicoanalisi, visse una vita privata segnata da relazioni conflittuali. Sua figlia Judith, divenuta a sua volta psicoanalista, descrisse un padre magnetico ma imprevedibile, capace di grandi gesti affettivi e di altrettanto brusche rotture. La sua “scena familiare” era un palcoscenico dove il linguaggio, più che l’ascolto, regnava sovrano.

    John B. Watson – Il comportamento al posto dell’affetto

    Watson, padre del comportamentismo, consigliava affetto ridotto, rigide routine, e l’educazione dei bambini come “mini-adulti”. Il celebre esperimento di Little Albert —condizionato a temere un topo bianco — non solo si pone in netto contrasto con l’empatia, ma ha generato paure durature.  I suoi figli, cresciuti in un clima emotivamente controllato, hanno sofferto depressione, e uno di loro si è suicidato: un tragico contrappasso a un’educazione spersonalizzante.

    Harry Harlow – L’ossessione per l’esperimento a ogni costo

    Harlow fece vivere scimmie neonate in isolamento estremo, usando dispositivi crudele come la “gabbia della desolazione” o la “trappola da stupro”. Il risultato fu il modello di un abuso scientifico, che ha lasciato cicatrici nei primati e sollevato profonde riflessioni etiche.

    R. D. Laing – L’anti-psichiatria che distrusse la propria famiglia

    Laing teorizzava che la follia era una reazione logica a un contesto sociale malato, ma in famiglia fu distante e assente. Suo figlio Adrian osservò: “È ironico che mio padre fosse noto come psichiatra familiare, benché non avesse nulla che vedere con la propria famiglia”. Sua figlia Fiona fu ricoverata per schizofrenia, un’altra figlia morì giovane, e un altro figlio morì di infarto in isolamento emotivo.

    Jean Piaget

    I suoi studi sullo sviluppo cognitivo presero forma grazie alle osservazioni sui propri figli. Considerati come “piccoli sperimentatori”, costituirono il materiale empirico primario per la sua teoria costruttivista.  Trasformò i figli in soggetti di ricerca più che in semplici bambini da accudire. 

    Considerazione finale

    L’amore “teorizzato” non basta, quando predomina la proiezione di un modello ideale. Questi psicologi, pur rivoluzionari nel pensiero, hanno dimostrato quanto sia facile tradire l’essenza dell’affettività familiare. Il genitore, sotto il peso della propria dottrina, può diventare osservatore e sperimentatore anziché custode di umana delicatezza. Il risultato? Relazioni afflitte dalla freddezza, dall’assenza di vero ascolto e dall’incapacità di accogliere l’unicità emotiva del figlio. Freud, Jung e Lacan — così come altri giganti della psiche — hanno mostrato che l’intelligenza teorica non vaccina contro gli errori affettivi. Quando il figlio diventa proiezione di un ideale o incarnazione di un teorema, il genitore abdica al compito primario: proteggere e nutrire senza condizioni. L’amore, filtrato da un’ossessione dottrinaria, si inquina e perde il suo potere terapeutico, trasformandosi in un dispositivo di controllo. E così, dietro le mura domestiche, i grandi costruttori di teorie hanno talvolta distrutto ciò che affermavano di voler guarire: l’anima fragile di chi amavano.

  • ALESSITIMIA

    ALESSITIMIA

    L’analfabetismo emotivo che silenzia il dolore

    L’alessitimia è una condizione psicologica caratterizzata da una marcata difficoltà a identificare, descrivere e differenziare i propri stati emotivi. Il termine, coniato da Peter Sifneos negli anni ’70, significa letteralmente “assenza di parole per le emozioni” (a–lexis–thymos). Non si tratta di una patologia in senso stretto, ma di un tratto di personalità, spesso difensivo, che può accompagnarsi a disturbi psicosomatici, depressione, dipendenze e comportamenti compulsivi.

    Il volto inespressivo delle emozioni negate

    Il soggetto alessitimico non è privo di emozioni, ma le vive in modo confuso, opaco, talvolta somatico. La sofferenza si manifesta nel corpo perché non riesce a prendere forma nel linguaggio. Un mal di stomaco, un’irritazione cutanea, un senso di costrizione al petto diventano il codice cifrato di un dolore psichico inespresso. Studi recenti mostrano che circa il 10% della popolazione presenta tratti alessitimici, con una prevalenza maggiore nei soggetti affetti da disturbi d’ansia, disturbi somatoformi e PTSD.

    Neurobiologia del silenzio emotivo

    A livello neurobiologico, l’alessitimia è associata a una ridotta connettività tra l’amigdala (regolazione emozionale) e la corteccia prefrontale (elaborazione cognitiva). Questo disallineamento compromette la consapevolezza emotiva, portando il soggetto a descrivere esperienze interne in modo concreto, utilitaristico e povero di risonanza affettiva. Secondo uno studio pubblicato su Journal of Affective Disorders (2022), soggetti alessitimici mostrano anche una ridotta attivazione dell’insula anteriore, implicata nell’empatia e nella consapevolezza interocettiva,

    Origini precoci: la teoria dell’attaccamento

    Molti autori riconducono l’origine dell’alessitimia a un ambiente familiare carente di alfabetizzazione emotiva. In particolare, uno stile di attaccamento evitante o disorganizzato, in cui il bambino non viene aiutato a dare un nome alle sue emozioni, può favorire uno sviluppo affettivo inibito. “Là dove le emozioni non sono accolte, vengono represse” afferma lo psicoanalista Serge Tisseron. Il risultato è un individuo che, in età adulta, fatica a decodificare il proprio mondo interno, sviluppando una comunicazione fredda e pragmatica.

    Effetti sul funzionamento relazionale e affettivo

    Chi soffre di alessitimia tende ad avere relazioni superficiali o conflittuali. L’altro è percepito come inaccessibile o eccessivamente esigente, e ciò genera un senso di alienazione e incomunicabilità. In coppia, può tradursi in una distanza emotiva che mina la complicità. In ambito terapeutico, la relazione con il paziente alessitimico è spesso lenta e difficile: egli resiste alla simbolizzazione e ai processi di insight. Tuttavia, proprio qui si apre uno spiraglio terapeutico: lavorare sull’identificazione e la narrazione del sentire può condurre a una nuova grammatica dell’anima.

    Psicoterapia e ri-alfabetizzazione emotiva

    La psicoterapia psicodinamica e la terapia basata sulla mentalizzazione (MBT) si sono rivelate particolarmente efficaci nel trattamento dell’alessitimia. L’obiettivo è creare uno spazio sicuro dove il paziente possa iniziare a “parlare il linguaggio delle emozioni”. Attraverso tecniche di mirroringriflessione affettiva e lavoro sulle immagini interne, il terapeuta accompagna il paziente in un percorso di riconnessione affettiva e simbolica. L’espressività corporea (ad esempio, attraverso la danzaterapia o l’arteterapia) può costituire un prezioso canale non verbale per accedere al sentire profondo.

    Verso una nuova alfabetizzazione del cuore

    In un’epoca in cui le emozioni sono spesso spettacolarizzate ma non realmente vissute, l’alessitimia rappresenta una sfida culturale oltre che clinica. Restituire parola al dolore significa anche restituire dignità all’umano, nella sua dimensione più fragile e autentica. “Le emozioni non ascoltate non tacciono: parlano nel linguaggio che possono”, scriveva il filosofo E. Levinas.

  • La notte a Manresa…

    La notte a Manresa…

    🌑 Una riflessione esistenziale ispirata alla crisi spirituale di Ignazio di Loyola, che trasformò la vanità in ascolto e silenzio, e il vuoto in luce.

    C’è un punto, nella vita di ogni uomo, in cui l’eco delle vanità comincia a stonare. È quel momento in cui il fragore delle conquiste mondane si fa silenzio assordante, e le medaglie conquistate con affanno si rivelano fatte di carta. È in quell’ora — spesso notturna, spesso solitaria — che l’anima comincia a desiderare qualcosa che non passa.

    Ignazio di Loyola, il cavaliere altero innamorato dell’onore e dell’apparenza, si ritrovò a Manresa, senza armature, senza titoli, senza specchi. Ciò che aveva definito la sua identità – il potere, il fascino, la bellezza fisica, la prodezza – era stato ridotto in polvere. E fu lì, nel vuoto scavato dalla rinuncia, che cominciò a vedere.

    La grotta di Manresa non è solo un luogo fisico. È simbolo di quel tratto d’ombra che tutti attraversiamo quando crolla il superfluo. Quando ci si accorge che si può vivere senza molti orpelli, ma non senza senso. Quando si intuisce che l’ansia di emergere è solo sete d’amore travestita.

    Ignazio, seduto nella sua notte, cominciò a distinguere le cose vane da quelle che restano. Scoprì che l’ego è un tiranno e che la pace non si conquista, si riceve. Che Dio si trova, sì, ma non nell’oro delle corti o nel plauso delle folle: si lascia incontrare nel cuore spogliato, nell’umiltà che riconosce di essere mendicante.

    La sua notte fu lunga, ma feconda. Una notte abitata da domande, lacrime, sfinimenti interiori. Ma anche da una luce nascosta: la consapevolezza che la verità dell’uomo si svela solo quando smette di recitare.

    Chi oggi è affaticato dalla rincorsa al superfluo, dalle aspettative degli altri, dai confronti che umiliano e dalla prestazione continua, può trovare rifugio e specchio in quella grotta. Manresa ci ricorda che c’è un tempo per perdere tutto, e che quel tempo può diventare un inizio.

    Perché è solo quando si lascia andare ciò che pesa che si riesce ad affacciarsi — con tremore ma con sincerità — alle cose che davvero restano: la presenza, la comunione, la verità, l’amore gratuito, Dio, come scriverà poi negli Esercizi Spirituali (n. 2)

    Non il molto sapere sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente.”