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  • La grammatica smarrita dell’amicizia

    La grammatica smarrita dell’amicizia

    L’amicizia: tra parola inflazionata e assenza reale

    “Amico” è oggi tra le parole più abusate e svuotate di senso. Un’etichetta generica per ogni contatto, ogni follower, ogni reazione sui social. L’amicizia è diventata una grammatica smarrita, una lingua dimenticata, fondata più sul consumo emotivo che sulla relazione autentica.

    Eppure, l’etimologia stessa di “amicus” richiama l’amare, l’accogliere, l’essere per. Ma dove si colloca oggi questa forma antica di prossimità? Forse proprio nell’abbandono di chi resta solo nel momento più vulnerabile. Come nel caso di Mariano, ragazzo di 16 anni, morto qualche giorno fa in una lingua di spiaggia a Cagliari, dopo aver passato la serata in compagnia di “amici” e poi lasciato solo, non aspettato, non soccorso. Nessuna sa, nessuno vuole raccontare cosa sia realmente successo. Un muro di omertà che lascia tutti interdetti. Mentre le indagini vanno avanti, a noi resta l’amaro in bocca e tanti interrogativi sulle modalità di gestione delle relazioni.

    Heidegger e il concetto di “esser-con”

    Nel suo capolavoro Essere e TempoMartin Heidegger introduce il concetto di Mitsein, l’esser-con, come categoria ontologica dell’esistenza umana. L’amicizia, in questa prospettiva, non è un optional affettivo, ma una condizione fondamentale del nostro essere al mondo. È un “esserci” per l’altro, non invadente ma discreto, non funzionale ma condiviso.

    In tempi di connessioni digitali e disconnessioni emotive, l’amicizia vera si misura nella capacità di stare, di ascoltare senza offrire soluzioni, di abitare il silenzio con l’altro. L’amico non si chiede “cosa posso fare per te”, ma “posso essercicon te?”. È questo il vero antidoto alla superficialità.

    L’amicizia come dialogo educativo

    In ambito pedagogico, l’amicizia può diventare metodo di educazione affettiva, modello di coesistenza, stile di cura. Non si tratta di un legame orizzontale privo di autorevolezza, ma di una relazione generativa, dove il dialogo non è solo scambio di parole, ma esperienza trasformativa.

    Un’educazione che non si limiti al controllo, ma si fondi sull’alleanza relazionale, sulla capacità di creare spazi di verità e di fragilità condivisa. Dove l’altro non è oggetto da correggere, ma soggetto da accompagnare.

    L’abbandono: il contrario dell’amicizia

    L’abbandono non è solo fisico: è assenza emotiva, è delega, è il “non ho tempo” che si fa cronico. È lì che si tradisce l’esserci. E quando ciò accade in contesti educativi, scolastici o familiari, le ferite si fanno profonde.

    Ogni ragazzo lasciato solo nella propria crisi, ogni adulto non ascoltato nel dolore, è una frattura nella grammatica dell’amicizia.

    Ritrovare la lingua del cuore

    Rieducare all’amicizia significa restaurare la grammatica dell’anima. Insegnare ai nostri giovani che l’amicizia non si misura in emoji o visualizzazioni, ma in ore donate, in gesti taciuti, in cammini condivisi.

    È tempo di far tornare l’amicizia ad essere presenza reale e non icona sbiadita. Di restituirle la sua potenza educativa e ontologica. Di riscoprirla, infine, non come stato d’animo, ma come scelta di esserci.

  • Quando il dolore esplode: il cervello del bullizzato che si vendica

    Quando il dolore esplode: il cervello del bullizzato che si vendica

    Dalla vittimizzazione all’odio agito: cosa accade nella mente di chi non ha mai potuto raccontare il proprio trauma.

    Il ciclo del dolore: quando la vittima diventa carnefice

    Esiste un paradosso spesso ignorato ma ben documentato dalla letteratura scientifica: molti bulli sono stati, in passato, vittime di bullismo. La psicologia evolutiva e le neuroscienze stanno contribuendo a spiegare questo passaggio inquietante da vittima a persecutore, tracciando i circuiti neurofisiologici della vendetta e dell’aggressività reattiva.

    Trauma precoce e plasticità sinaptica

    Secondo numerosi studi, le esperienze traumatiche precoci, come l’essere bullizzati, modificano profondamente l’architettura cerebrale. L’esposizione reiterata a minacce o umiliazioni attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA)in maniera cronica, con ipersecrezione di cortisolo e modifiche nei circuiti dell’amigdala, dell’ippocampo e della corteccia prefrontale.

    Uno studio pionieristico di Teicher et al. (2003) ha evidenziato che i bambini vittime di abusi o esclusione sociale presentano una riduzione del volume dell’ippocampo e un’iperattivazione dell’amigdala, associata a ipervigilanza e iperreattività agli stimoli sociali percepiti come minaccia.

    Il ruolo dell’amigdala e del sistema limbico

    L’amigdala, nucleo chiave nella gestione della paura e dell’aggressività, nei soggetti bullizzati tende a reagire in modo eccessivo a stimoli sociali ambigui, sviluppando una forma di “bias dell’intenzione ostile” (Hostile Attribution Bias), secondo cui anche situazioni neutre vengono interpretate come potenzialmente minacciose (Dodge et al., 1990).

    La corteccia prefrontale mediale, deputata all’inibizione comportamentale e al controllo emotivo, risulta meno efficiente nel modulare queste risposte limbiche, specialmente in soggetti che non hanno avuto esperienze relazionali correttive e contenitive.

    Neurobiologia della vendetta

    Un esperimento condotto da de Quervain et al. (2004) con risonanza magnetica funzionale ha dimostrato che l’atto di vendicarsi attiva il nucleo caudato e il putamen, regioni coinvolte nel circuito della ricompensa dopaminergica. In altre parole, la vendetta può generare piacere neurochimico, come una sorta di compensazione biologica al dolore patito.

    Perché diventano bulli?

    La sofferenza emotiva interiorizzata senza possibilità di elaborazione può convertirsi in aggressività reattiva o proattiva, come forma di regolazione disfunzionale del Sé. I bambini che subiscono bullismo e non ricevono supporto psicologico adeguato sviluppano spesso modelli relazionali basati sul dominio o sulla sottomissione, come descritto dalla teoria dell’attaccamento disorganizzato (Lyons-Ruth, 1999).

    Vendetta come strategia del Sé ferito

    Quando la vittima non viene ascoltata, non trova simbolizzazione del dolore, non riceve protezione né strumenti per elaborare, l’unica via percepita come riscatto può diventare l’agito violento. Non si tratta di “follia improvvisa”, ma della cristallizzazione di un Sé frantumato che restituisce al mondo la propria sofferenza sotto forma di distruzione.

    Questo processo è noto anche in ambito clinico come disforia post-traumatica, e include:

    • depersonalizzazione,
    • distacco affettivo,
    • cinismo difensivo,
    • costruzione di un’identità vendicativa.

    Un caso di cronaca: la vendetta post-traumatica

    Un caso emblematico è quello di Will Cornick, adolescente inglese che nel 2014 uccise la propria insegnante con 7 coltellate. L’analisi forense rivelò una storia di bullismo scolastico prolungato, con conseguente ritiro sociale, ossessione per la vendetta e progressiva disconnessione empatica. La CTU (Criminal Trial Unit) parlò di “aggressività vendicativa con componenti narcisistiche”, alimentata da sentimenti di impotenza e desiderio di riscatto sociale.

    In generale, i casi di cronaca ci mostrano come l’odio, quando incubato nell’infanzia, può diventare una “memoria emotiva tossica” che il cervello conserva come ferita aperta. Se non curata, può diventare agita. Le neuroscienze oggi ci danno gli strumenti per prevedere e prevenire. Spetta a noi usarli.

  • Grafomotricità automatica: perché disegniamo mentre ascoltiamo?

    Grafomotricità automatica: perché disegniamo mentre ascoltiamo?

    Grafomotricità automatica: un linguaggio secondario del cervello

    Chi non ha mai firmato il proprio nome distrattamente durante una telefonata, scarabocchiato margini di un foglio in riunione, o disegnato figure geometriche mentre ascolta una lezione? Questi gesti appartengono a ciò che in neuropsicologia viene definito automatismo grafomotorio: una risposta motoria a uno stimolo cognitivo, spesso inconscia, che rivela molto di più di quanto sembri.

    Secondo uno studio pubblicato su Applied Cognitive Psychology da Jackie Andrade (2009), i partecipanti che scarabocchiavano mentre ascoltavano una registrazione noiosa ricordavano il 29% in più dei contenuti rispetto a coloro che ascoltavano passivamente. Il gesto grafomotorio agisce quindi come modulatore dell’attenzione, fungendo da canale espressivo alternativo ma non competitivo rispetto all’elaborazione verbale.

    Disegnare per non distrarsi: il paradosso dell’attenzione divisa

    Nel contesto scolastico, osservare un alunno che disegna mentre l’insegnante spiega può suscitare l’impressione di distrazione. In realtà, il cervello, in situazioni di sovraccarico cognitivo, può attivare circuiti sensomotori paralleli per mantenere viva l’attenzione. È quanto suggeriscono studi sull’attività del Default Mode Network (DMN), un sistema cerebrale coinvolto nella divagazione mentale e nella creatività spontanea. Disegnare può modulare l’attività di questo network, mantenendola su livelli compatibili con l’ascolto attivo (Smallwood & Schooler, 2015).

    In particolare nei soggetti con uno stile di apprendimento visivo o cinestetico, il gesto grafico è una strategia adattiva per elaborare e trattenere informazioni. Lo “scarabocchio” non è solo segno di disattenzione, ma una forma arcaica di traduzione del pensiero in traccia, un gesto psico-corporeo di grounding cognitivo.

    Firma automatica e disegni ripetitivi: tra identità e regolazione

    Quando ripetiamo la nostra firma distrattamente, stiamo affermando la nostra identità in un contesto che ne richiede presenza. Il gesto automatico della firma è un esempio di schema motorio altamente consolidato, che si attiva nei momenti di noia, attesa o tensione. Per il cervello, ripetere tale gesto equivale a riconnettersi a sé stessi, in un contesto momentaneamente depersonalizzante.

    Gli scarabocchi ripetitivi, come spirali, onde o motivi geometrici, possono anche costituire un meccanismo di autoregolazione emozionale. Secondo una ricerca pubblicata nel Journal of Behavioral and Brain Science (Chen et al., 2021), l’attività motoria fine ha effetti calmanti sul sistema limbico, con un impatto positivo sulla gestione dell’ansia e sull’autoregolazione comportamentale.

    Disegnare in classe: esclusione o risorsa?

    La scuola tende spesso a reprimere i comportamenti “non convenzionali” come il disegno durante le lezioni. Eppure, gli studi di Joel Mortensen (2018) evidenziano che gli alunni che integrano l’atto grafico durante l’ascolto mostrano una migliore comprensione globale dei concetti, soprattutto in contesti teorici astratti. Il gesto grafico può infatti fungere da ponte tra il registro emotivo e quello cognitivo, rendendo più accessibile l’elaborazione concettuale complessa.

    Conclusione: la mano pensa

    Il cervello non è un’entità isolata, ma una struttura incarnata. La mano, nel suo gesto grafico, è una sua estensione. Scrivere, disegnare o firmare distrattamente mentre ascoltiamo non è solo un residuo motorio, ma un attributo cognitivo. Nella sua apparente inutilità, l’automatismo grafomotorio rappresenta un sofisticato meccanismo di adattamento neuropsicologico.

  • Legge 104: inclusione scolastica: diritti, PEI e figure storiche

    Legge 104: inclusione scolastica: diritti, PEI e figure storiche

    La legge 104/92: fondamento giuridico dell’inclusione scolastica

    La Legge n. 104 del 5 febbraio 1992 rappresenta la pietra angolare del sistema italiano di tutela e valorizzazione delle persone con disabilità, in particolare in ambito scolastico. Essa riconosce il diritto all’educazione e all’istruzione nella scuola pubblica per tutti gli alunni con disabilità, promuovendo un modello di inclusione attiva e non meramente assistenziale.

    Tale normativa ha profondamente trasformato l’approccio della scuola, sostituendo la logica dell’esclusione e della differenziazione (tipica delle classi speciali o differenziali) con quella dell’inclusione, intesa come progettazione personalizzata e corresponsabilità educativa.

    Il PEI: cuore dell’intervento educativo personalizzato

    Il Piano Educativo Individualizzato (PEI) è il documento cardine attraverso cui si attua l’inclusione. Introdotto ufficialmente dalla Legge 104, ma concettualmente anticipato da normative precedenti (DPR 416/74, Legge 517/77), il PEI rappresenta la progettazione integrata e dinamica degli interventi didattici, educativi e riabilitativi.

    Il PEI è redatto annualmente dal Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione (GLO), che coinvolge docenti curricolari, docente di sostegno, famiglia, specialisti sanitari, educatori e rappresentanti dell’ente locale. Dal 2020 (D.Lgs. 66/2017 e i suoi decreti attuativi), il PEI è stato ulteriormente normato e digitalizzato, con nuovi modelli nazionali.

    Gli alunni “H”: un termine oggi superato

    La sigla “H” indicava in passato gli alunni con “handicap”, ma oggi è considerata obsoleta e poco rispettosa. Si preferisce parlare di alunni con disabilità, sottolineando un cambiamento semantico e culturale che mette la persona al centro, non la sua menomazione.

    Le radici storiche: da Basaglia a Casale

    La conquista dell’inclusione scolastica in Italia è frutto di una lunga battaglia culturale e giuridica. Tra le figure chiave:

    • Franco Basaglia, psichiatra e riformatore, fu il promotore della Legge 180/1978 che sancì la chiusura dei manicomi. Il suo pensiero ha ispirato una visione della disabilità come diversità, non come devianza.
    • Mirella Antonione Casale, pedagogista e ispettrice ministeriale, è la mente pedagogica dietro la transizione dalle classi differenziali all’integrazione. A lei si deve la stesura delle prime Linee Guida per l’integrazione scolastica e la diffusione del concetto di “didattica inclusiva”.
    • Loris Malaguzzi, fondatore dell’esperienza di Reggio Children, ha dato impulso a una visione antropologica e democratica dell’educazione, in cui ogni bambino ha cento linguaggi, anche quelli che la disabilità non riesce a spegnere.

    Un cammino di civiltà

    Il processo legislativo e pedagogico che ha portato alla Legge 104 è stato lento, ma inarrestabile. Prima della 104, la Legge 517/1977 aveva già abolito le classi speciali, introducendo il concetto di integrazione. Con la 104, questo concetto si trasforma in inclusione, ovvero nella volontà di adattare il contesto educativo alle necessità dell’alunno, e non viceversa.

    Conclusione: tra diritto e progetto di vita

    L’inclusione non è una concessione, ma un diritto costituzionale. È lo Stato che si fa carico di garantire pari opportunità formative attraverso strumenti normativi, progettualità didattica e presenza di figure specialistiche.

  • Mirella Antonione Casale: la rivoluzione gentile dell’inclusione

    Mirella Antonione Casale: la rivoluzione gentile dell’inclusione

    L’inizio: un tempo d’ombra

    C’è stato un tempo in cui la scuola italiana somigliava troppo a un’istituzione disciplinare: chi non rientrava nei canoni prestabiliti della “normalità” veniva isolato, allontanato, espulso — pur restando, formalmente, “accolto”. Le cosiddette classi differenziali, istituite ufficialmente nel 1928 e attive fino alla fine degli anni Settanta, non erano altro che una forma legittimata di ghettizzazione.

    Non erano rare le diagnosi affrettate, i giudizi lapidari, le esclusioni mascherate da “forme speciali di attenzione”. Si trattava, in realtà, di un’esclusione sistemica, istituzionalizzata, che legittimava l’idea che alcuni corpi e alcune menti non fossero degne di partecipare al dialogo educativo.

    In quel panorama rigidamente normativo e clinico, la scuola diventava spesso lo specchio del manicomio: una struttura che seleziona, separa, stigmatizza. Era l’eco, nell’ambito dell’istruzione, dello stesso sistema psichiatrico contro cui Franco Basaglia stava già conducendo la sua battaglia etica e politica. Come il manicomio, anche la scuola separava per “curare”, ma in realtà creava stigmi indelebili. In questa struttura chiusa, l’alunno con disabilità o difficoltà specifiche non era considerato soggetto di diritto, ma oggetto da custodire. In una parola: da neutralizzare.

    La svolta: Casale e la voce degli esclusi

    In questo scenario si staglia, con discrezione e forza, la figura di Mirella Antonione Casale: pedagogista, studiosa, e soprattutto visionaria dell’inclusione. Attiva negli anni in cui Basaglia apriva le porte dei manicomi, Casale intuì che la “cura” per l’esclusione non poteva consistere in adattamenti esterni, ma doveva passare da una rivoluzione interna al sistema educativo.

    Fu tra le prime a sostenere l’importanza della piena integrazione scolastica degli alunni con disabilità, non come concessione caritatevole, ma come diritto inalienabile. A lei si devono le prime riflessioni organiche sul superamento delle classi differenziali, sulle “barriere didattiche” e sulla necessità di misure compensative e dispensative per garantire pari dignità e accesso al sapere.

    Casale, con il rigore della pedagogista e la sensibilità dell’educatrice, fu una delle voci più autorevoli nella stesura della Legge 517 del 1977, pietra miliare della scuola italiana che decretava la chiusura delle classi speciali e l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi comuni. Un atto epocale, figlio di un tempo che cominciava a parlare, finalmente, la lingua dei diritti.

    Basaglia e Casale: due fronti dello stesso orizzonte

    È in questo clima che Franco Basaglia comincia la sua rivoluzione. Con la chiusura dei manicomi e l’approvazione della Legge 180 del 1978, egli non libera soltanto i reclusi della psichiatria, ma ridefinisce il concetto stesso di persona: nessuno può essere ridotto alla sua diagnosi. Il suo pensiero — che la libertà non è un premio da meritare, ma una condizione originaria — si espande oltre l’ospedale psichiatrico.

     Mirella Antonione Casale, con minore visibilità ma pari intensità etica, porta avanti una riforma pedagogica che guarda alla persona prima del suo “deficit”, e si oppone radicalmente alla medicalizzazione dell’educazione. Dove il sistema vedeva devianza o ritardo, Casale scorgeva potenzialità da liberare, differenze da valorizzare.

    Da qui l’abolizione delle classi speciali, la valorizzazione della didattica individualizzata, l’introduzione dei docenti di sostegno, prima ancora che si parlasse di “inclusione” come parola chiave.

    L’eredità invisibile ma decisiva

    Oggi chi entra in un’aula con un PDP o un PEI, chi affronta un esame universitario con il tempo aggiuntivo, chi riceve materiali personalizzati, sta camminando lungo il sentiero aperto da Mirella Antonione Casale.

    La sua pedagogia dell’inclusione ha saputo ricucire le lacerazioni della scuola selettiva, restituendo alla didattica il suo compito più alto: accogliere, comprendere, valorizzare. E in un’epoca che ancora fatica a coniugare giustizia ed equità, la sua figura andrebbe riscoperta, studiata, onorata. Non solo nei testi, ma nella pratica quotidiana di ogni aula.

    In un tempo in cui si rischia di dimenticare la radice delle conquiste civili, è doveroso ricordare che dietro ogni diritto c’è un pensiero, una lotta, una visione.

  • Il senso di colpa: radici psichiche e vie di liberazione

    Il senso di colpa: radici psichiche e vie di liberazione

    Il peso invisibile della colpa

    Il senso di colpa è un’emozione secondaria, complessa e culturalmente modellata, che emerge quando percepiamo di aver violato una norma morale o relazionale significativa. Non si tratta soltanto di un sentimento passeggero, ma di una risposta psichica profonda, che può strutturarsi in forme nevrotiche o persino psicotiche, compromettendo il benessere dell’individuo.

    La psicoanalisi freudiana ne ha fatto uno dei cardini della nevrosi: secondo Freud, la colpa nasce dal conflitto tra Es e Super-Io, tra pulsioni istintuali e istanze morali interiorizzate. Ma anche nella psicologia umanistica di Carl Rogers, essa viene vista come il risultato di uno scarto tra il sé reale e il sé ideale, generando una tensione esistenziale che può cronicizzarsi.

    Quando nasce e cosa genera

    Il senso di colpa può emergere in molteplici situazioni: dopo un’azione trasgressiva, un’omissione, o anche solo per pensieri giudicati inappropriati. In ambito clinico, però, la colpa non sempre è legata a fatti oggettivi: spesso si radica in vissuti precoci, legati a dinamiche familiari disfunzionali. I bambini iper-responsabilizzati, ad esempio, tendono da adulti a sentirsi colpevoli per tutto ciò che non controllano.

    Effetti sulla psiche e sul corpo:

    • Disturbi d’ansia e dell’umore
    • Somatizzazioni (gastralgie, cefalee, insonnia)
    • Bassa autostima e auto-svalutazione
    • Tendenza all’auto-punizione e all’autosabotaggio

    Le forme patologiche della colpa

    In ambito psicopatologico, si parla di colpa depressiva e colpa persecutoria. La prima si lega al rimorso e all’autocritica eccessiva, tipica del disturbo depressivo maggiore. La seconda, invece, emerge in contesti psicotici o nei disturbi di personalità borderline, con vissuti paranoidi, proiezioni e angosce di punizione.

    Inoltre, secondo Heinz Kohut, nella sua prospettiva psicodinamica, esistono colpe narcisistiche, legate alla ferita dell’ideale del sé, e colpe relazionali, legate all’aver deluso figure significative.

    È possibile liberarsene?

    Superare il senso di colpa non significa annullarlo, ma integrarlo. Come afferma la psicoterapeuta e ricercatrice Brené Brown, «la colpa può essere uno strumento evolutivo se la trasformiamo in responsabilità». In questo senso, il lavoro terapeutico è fondamentale:

    Strategie cliniche:

    • Psicoterapia cognitivo-comportamentale: decostruzione dei pensieri disfunzionali legati alla colpa
    • EMDR: rielaborazione di traumi legati a episodi generativi del senso di colpa
    • Terapia psicodinamica: ricostruzione delle dinamiche interiori e familiari che alimentano la colpa

    Accanto a queste, pratiche come la mindfulness, training autogeno, la scrittura terapeutica e i percorsi di auto-compassione (Neff, 2003) aiutano ad accogliere le emozioni senza giudizio, favorendo un’autonarrazione più sana.

  • Figure bistabili e ambiguità digitale

    Figure bistabili e ambiguità digitale

    Le figure bistabili, note sin dal XIX secolo (Necker, 1832; Jastrow, 1899), rappresentano una frontiera iconica della psicologia percettiva. Tali immagini ambigue consentono due o più letture incompatibili, pur coesistendo nello stesso stimolo visivo. Il soggetto non è in grado di mantenerle simultaneamente: l’alternanza è inevitabile e spesso involontaria. Questo fenomeno è una potente metafora epistemologica della crisi interpretativa del nostro tempo.

    Nell’epoca dell’infobesità digitale, le figure bistabili non sono più solo strumenti di studio neurocognitivo, ma simboli semiotici di una comunicazione disgregata, dove ogni segno slitta di significato in base al frame algoritmico, alla bolla sociale, al bias di conferma.

    La percezione tra realtà e costruzione

    Secondo la neurofenomenologia contemporanea, la percezione non riflette la realtà in modo passivo, ma la costruisce attivamente. Le fluttuazioni nella lettura di una figura bistabile sono prodotte da oscillazioni neuronali spontanee(Sterzer et al., Nat Rev Neurosci, 2009), ma anche da influenze top-down: esperienze, aspettative, contesto culturale.

    Analogamente, nella sfera comunicativa odierna, non esiste più un codice stabile di riferimento: ogni messaggio – testo, immagine o video – si presta a una pluralità di interpretazioni che scivolano da un significato all’altro in base al pubblico, alla piattaforma, al momento storico.

    Social media e crisi dell’ermeneutica

    Il crollo delle chiavi ermeneutiche è una delle grandi emergenze del presente. In una cultura visiva iperaccelerata, l’utente medio non possiede più gli strumenti cognitivi e semiotici per decifrare in modo critico i contenuti. I social network fungono così da catalizzatori di percezione bistabile: si passa in pochi istanti dalla commozione alla polarizzazione, dalla verità alla disinformazione, dalla testimonianza autentica alla manipolazione algoritmica.

    Il frame digitale funziona come una “camera di risonanza percettiva”: ciò che vedo è ciò che mi è stato anticipato, suggerito, preformattato da modelli predittivi (bias dell’aspettativa) e da feedback di gruppo (bias del consenso).

    Bias cognitivi nella lettura digitale

    Le figure bistabili offrono un modello per comprendere i principali bias cognitivi che strutturano l’esperienza nei social:

    • Bias della salienza: l’interpretazione prevale su base emozionale e visiva, non razionale.
    • Bias di conferma: si privilegiano contenuti che rinforzano le proprie convinzioni.
    • Bias dell’ambiguità: in assenza di significato univoco, la mente si rifugia in scorciatoie cognitive.
    • Bias dell’euristica della disponibilità: ciò che è immediatamente accessibile o frequente diventa “vero”.

    La disintegrazione del significato

    La comunicazione digitale odierna si muove, come le figure bistabili, in una zona di interstizio semantico, in cui l’ambiguità è programmata e dove ogni messaggio può essere rovesciato nel suo opposto. Questa disintegrazione del significato non è una semplice fragilità cognitiva, ma una crisi antropologica: l’uomo contemporaneo assiste impotente alla dissoluzione delle categorie interpretative con cui decifrava il mondo.

    Come notava Paul Virilio, la velocità dell’informazione genera una “cecità della trasparenza”. In questo contesto, la figura bistabile diviene emblema della fragilità della verità nell’era postmediatica.

    Per una nuova ecologia della percezione

    Riapprendere a vedere – nel senso ermeneutico e neuropsicologico – è una sfida educativa e culturale. Occorre formare individui in grado di:

    • Riconoscere l’ambiguità come dato e non come fallimento.
    • Sospendere il giudizio dinanzi alla complessità del segno.
    • Riscoprire lenti interpretative non binarie, capaci di contenere la polisemia dell’esperienza digitale.

    Le figure bistabili, da semplice illusione ottica, si rivelano dunque strumenti pedagogici e clinici, utili per rieducare l’occhio e la mente a una percezione più integrata, meno reattiva, più critica.

  • La frustrazione come via maestra alla maturazione

    La frustrazione come via maestra alla maturazione

    Il paradosso generativo della frustrazione

    Nel pensiero psicodinamico classico e contemporaneo, la frustrazione non è solo tollerabile: è necessaria. Essa si configura come un passaggio liminale, un confine da oltrepassare per accedere a una dimensione superiore di integrazione psichica. Non sorprende, infatti, che Wilfred Bion parlasse della capacità negativa – la capacità, cioè, di sostare nell’incertezza e nella mancanza – come uno degli elementi costitutivi dell’apparato mentale maturo.

    Nel soggetto adolescente, la frustrazione giunge con veemenza: l’inadeguatezza percepita, il desiderio inappagato, il rifiuto sociale o affettivo si configurano come ostacoli apparentemente insormontabili. Eppure è proprio attraverso il confronto con tali limiti che il giovane può trasformare l’esperienza vissuta in elaborazione simbolica, costituendo i primi nuclei di un’identità solida e capace di resilienza.

    Adolescenza: l’età del disincanto e della ristrutturazione psichica

    Secondo Erik Erikson, l’adolescenza è la fase dello sviluppo in cui si gioca la crisi dell’identità versus la diffusione dell’identità. È il tempo in cui l’Io si confronta con la necessità di unificare sé stesso, scegliendo cosa abbandonare dell’infanzia e cosa assumere del mondo adulto. Tale operazione non può avvenire senza frustrazione.

    La psicoanalista Nancy McWilliams osserva che la frustrazione permette lo sviluppo della capacità di mentalizzazione e di tolleranza alle ambivalenze, rendendo l’individuo meno reattivo e più riflessivo. In altre parole, la frustrazione educa all’attesa, raffina il desiderio, sottrae l’essere umano alla tirannia dell’impulso.

    Frustrazione e neuroplasticità: il cervello che apprende il limite

    La ricerca neuroscientifica ha confermato quanto la psicologia clinica aveva intuito: le esperienze emotivamente difficili – come quelle frustranti – attivano meccanismi neuroplastici fondamentali. Studi condotti presso il Department of Brain and Cognitive Sciences del MIT (Miller & Cohen, 2001) hanno evidenziato il ruolo della corteccia prefrontale nello sviluppo della regolazione emotiva, particolarmente sensibile all’esperienza dell’impedimento.

    In adolescenza, la maturazione sinaptica del lobo frontale è ancora in corso, il che rende più difficile la gestione della frustrazione, ma anche più feconda la sua interiorizzazione. È attraverso l’esposizione reiterata a situazioni di limite, infatti, che si rinforzano i circuiti deputati alla inibizione comportamentale, al discernimento e alla costruzione del Sé riflessivo.

    L’arte della gestione: contenere, non rimuovere

    La cultura contemporanea tende a medicalizzare o a evitare la frustrazione, come se si trattasse di un virus da cui immunizzarsi. In ambito educativo, questo ha generato la figura dell’adulto “salvifico”, che interviene per appianare ogni ostacolo nel cammino dell’adolescente, impedendogli di strutturare tolleranza alla delusione.

    La frustrazione, invece, va contenuta, non soppressa. È nella funzione di “holding”, come l’avrebbe definita Winnicott, che l’adulto diventa matrice trasformativa: non si tratta di evitare il dolore dell’esperienza frustrante, ma di restituirgli senso attraverso la parola, l’ascolto, la simbolizzazione.

    Frustrazione e generatività: l’energia trasformativa del limite

    La frustrazione è il terreno fertile della creatività. Mihaly Csikszentmihalyi, nei suoi studi sulla creatività, dimostra che le menti più prolifiche sono spesso quelle che hanno saputo sublimare la frustrazione in immaginazione, in progettualità. Laddove il bisogno non trova soddisfazione immediata, il soggetto può trovare una via di compensazione che si fa crescita.

    In adolescenza ciò si traduce in arte, sport, riflessione, ribellione positiva. Quando ben orientata, la frustrazione diventa impulso vitale, forza dionisiaca che genera forma, coscienza, senso.

    Conclusione: una pedagogia del limite

    Educare alla frustrazione significa insegnare ad abitare la soglia, ad accogliere il vuoto come preludio alla nascita di nuove configurazioni identitarie. “Dove c’è mancanza, può nascere il desiderio”, dice Recalcati. Ma dove tutto è soddisfatto, il desiderio si atrofizza, si spegne nella bulimia dell’onnipotenza.

    L’adolescente che ha imparato a stare nella frustrazione non è un giovane rassegnato, ma un soggetto in grado di differire il bisogno, di sopportare la tensione emotiva, di darsi un orizzonte. In altri termini, un essere umano che sa crescere.


  • Eugenio Borgna – L’ ora che non ha più sorelle

    Eugenio Borgna – L’ ora che non ha più sorelle

    Eugenio Borgna, in L’ora che non ha più sorelle, si muove con il passo assorto e reverente del pellegrino dell’interiorità umana, nel territorio più silenzioso e struggente della psichiatria: il suicidio, declinato nella sua dimensione femminile. Non una trattazione tecnico-scientifica, ma una sinfonia di voci spezzate, una meditazione etica ed esistenziale che, attraversando la letteratura, la mistica e la clinica, si fa ascolto radicale del dolore invisibile.

    La lingua della fragilità

    Borgna non scrive con gli strumenti della psichiatria oggettivante, ma con l’inchiostro dell’empatia fenomenologica. Egli rifiuta l’arroganza del sapere normativo e invita il lettore a contemplare le lacerazioni silenti che abitano l’anima femminile: la solitudine, il senso di abbandono, la mancanza di risonanza emotiva nel mondo. Il suicidio, in questa prospettiva, non è atto patologico, ma grido afasico, ultimo gesto di una comunicazione mancata, l’eco estremo di un mondo interiore che non ha trovato ascolto.

    Una clinica poetica

    Nei testi di Borgna, il confine tra psichiatria e poesia si dissolve: le sue riflessioni sono attraversate da voci femminili – Sylvia Plath, Virginia Woolf, Antonia Pozzi – che diventano paradigmi dell’”insofferenza all’insensibilità del reale”, come scrisse Maria Zambrano. La donna suicida, per Borgna, è spesso colei che ha vissuto con un’intensità talmente bruciante da non reggere l’opacità del mondo. Non follia, dunque, ma ipertrofia del sentire, spiritualità senza dimora, estetica dell’assenza.

    La medicina dell’ascolto

    Il messaggio più potente del volume è il monito etico a una medicina che sappia nuovamente farsi ascolto. Borgna invoca una psichiatria non ridotta a classificazione, ma capace di accogliere l’irriducibile singolarità della sofferenza. In un’epoca anestetizzata e iperproduttiva, il suicidio femminile è uno specchio impietoso: mostra le crepe di una società che ha smarrito il senso del consolare, dell’accompagnare, del rimanere.


  • Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Nell’era della scuola “neurocentrica”, dove ogni metodologia didattica ambisce a definirsi “evidence-based”, si annida un pericolo silenzioso e affascinante: il neuromito. Con questo termine si indicano quelle convinzioni errate sul funzionamento del cervello umano che, pur prive di fondamento scientifico, si diffondono capillarmente nella formazione docente, nella pratica educativa e persino nei colloqui con le famiglie.

    Molti di questi miti derivano da una semplificazione eccessiva o da una distorsione dei risultati delle neuroscienze. Il pericolo? Che, anziché promuovere un’educazione più efficace, si costruiscano prassi rigide, stigmatizzanti o inutili.

    Che cosa sono i neuromiti?

    Il termine “neuromito” è stato coniato nel 2002 da Paul A. Howard-Jones, docente dell’Università di Bristol, per descrivere false credenze sul cervello che trovano terreno fertile nella scuola e nella formazione. Uno dei suoi studi più citati (Howard-Jones, 2014) ha mostrato che oltre il 70% degli insegnanti europei crede in almeno un neuromito, nonostante il loro alto livello di istruzione.

    Esempi classici includono:

    • “Usiamo solo il 10% del nostro cervello”
    • “Gli stili di apprendimento (visivo, uditivo, cinestetico) vanno assecondati per ogni alunno”
    • “L’emisfero destro è creativo, il sinistro è logico”
    • “È meglio insegnare ai bambini solo nella loro finestra sensibile”
    • “Il cervello si sviluppa solo fino a una certa età”

    Una questione di (in)formazione

    Uno studio condotto su 242 insegnanti italiani (Ferrero, Garaizar, & Vadillo, 2016) ha evidenziato che l’89% crede nell’esistenza degli stili di apprendimento come criterio per adattare la didattica. Tuttavia, nessuna ricerca neuroscientifica ha mai dimostrato un miglioramento significativo nei risultati scolastici adottando tale classificazione.

    Allo stesso modo, credere che il cervello abbia “un lato creativo e un lato logico” è una sovrainterpretazione di ricerche sulla specializzazione emisferica, ma le neuroscienze moderne mostrano che le funzioni cognitive complesse richiedono l’integrazione di entrambi gli emisferi (Gazzaniga, 2009).

    Perché sono dannosi?

    I neuromiti non sono semplici errori concettuali: influenzano direttamente il modo in cui gli educatori insegnano e valutano. Possono portare a etichettature precoci (“questo bambino non è portato per la matematica”), a strategie didattiche inefficaci e a spreco di risorse. In ambito clinico, possono addirittura ritardare diagnosi corrette in bambini con difficoltà specifiche dell’apprendimento.

    Una ricerca dell’OCSE (2019) ha sottolineato che la presenza di neuromiti nei sistemi scolastici rallenta l’innovazione educativa basata su dati scientifici e aumenta la dipendenza da mode pedagogiche.

    Come difendersi?

    1. Formazione scientificamente fondata

    Occorre inserire nei percorsi di aggiornamento per docenti e pedagogisti moduli di neuroeducazione, fondati su evidenze, per distinguere tra ciò che è “neuro-realistico” e ciò che è solo una “neuro-mod(a)”.

    2. Pensiero critico e interdisciplinarità

    È fondamentale promuovere il dialogo tra scienze cognitive, psicologia dell’educazione e didattica. Le neuroscienze non dettano il “come si insegna”, ma offrono vincoli e possibilità da tradurre con intelligenza pedagogica.

    3. Ricerca condivisa scuola-università

    Istituire progetti pilota in cui le scuole collaborano con centri di ricerca per monitorare gli effetti reali degli approcci didattici è una strada promettente.

    Esempio concreto: “Programmi per potenziare il cervello”

    Molte scuole hanno acquistato negli ultimi anni costosi software “per l’allenamento cerebrale” o “per lo sviluppo delle intelligenze multiple”, attratte da pubblicità che promettono miracoli cognitivi. Tuttavia, la letteratura scientifica (Simons et al., 2016) mostra che gli effetti di questi training sono spesso limitati e non trasferibili alla vita scolastica reale.

    Conclusione

    La fascinazione per il cervello è comprensibile: ogni educatore vorrebbe una chiave per liberare il potenziale degli alunni. Tuttavia, una chiave sbagliata apre porte sbagliate.
    Conoscere e smascherare i neuromiti è un dovere etico e professionale per ogni docente e pedagogista, perché solo su basi scientifiche possiamo costruire una scuola realmente inclusiva, efficace e umana.