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  • Tipi di memoria funzioni e potenziamento nei DSA

    Tipi di memoria funzioni e potenziamento nei DSA

    La memoria non è un archivio statico, ma un atto creativo del cervello: ricorda ricostruendo, non conservando.” D.L.

    I diversi tipi di memoria: classificazione e funzioni

    Memoria di lavoro (working memory)

    È il fulcro della nostra capacità di mantenere e manipolare informazioni per brevi periodi.
    Esempio pratico: un bambino che ascolta una consegna e contemporaneamente deve trascrivere ciò che ha sentito.
    Funzione: essenziale per la comprensione del testo, la risoluzione di problemi matematici e la pianificazione.

    Memoria a breve termine

    Immagazzina le informazioni per pochi secondi o minuti.
    Esempio pratico: ricordare un numero di telefono per il tempo necessario a comporlo.
    Funzione: sostiene l’apprendimento immediato, ma senza manipolazione attiva dei dati.

     Memoria a lungo termine

    Comprende le informazioni conservate per lunghi periodi. Si divide in:

    • Memoria dichiarativa (esplicita): riguarda fatti (memoria semantica) e esperienze personali (memoria episodica).
    • Memoria procedurale (implicita): concerne abilità automatiche, come andare in bicicletta o scrivere.

    Funzione: immagazzina conoscenze, automatizza competenze, costruisce la narrazione autobiografica.

    Quando la memoria non funziona bene: segnali e conseguenze

    Nei bambini con DSA (in particolare dislessia, disortografia e discalculia), la memoria può presentare fragilità specifiche:

    • Difficoltà nella memoria fonologica: ostacola la decodifica dei suoni e la corretta ortografia delle parole.
    • Compromissione della memoria di lavoro: limita l’autonomia nei compiti complessi e rallenta l’elaborazione cognitiva.
    • Deficit della memoria procedurale: rende difficoltosa l’automatizzazione delle abilità scolastiche, costringendo il bambino a “ripensare” ogni volta come si legge, scrive o calcola.

    Queste difficoltà non vanno confuse con scarso impegno o svogliatezza: sono segni di un funzionamento neuropsicologico differente, che richiede un approccio mirato.

    Strategie e strumenti per il potenziamento

    Interventi mirati

    • Training specifici sulla memoria di lavoro, come gli esercizi a carico cognitivo crescente (dual tasks, n-back).
    • Mappe concettuali e visive, per alleggerire la memoria a breve termine e sostenere quella semantica.
    • Routinizzazione, ovvero ripetizione e automatizzazione progressiva per rinforzare la memoria procedurale.

    Tecnologie compensative

    • Sintesi vocale, audiolibri e software per la gestione delle informazioni, particolarmente utili nei casi di dislessia.

    Didattica metacognitiva

    Aiuta il bambino a diventare consapevole dei propri processi mentali, utilizzando strategie come l’autoverbalizzazione (“Cosa sto facendo?”, “Qual è il prossimo passo?”).

    Conclusione

    In ambito educativo e clinico, la memoria non va intesa come un contenitore più o meno capiente, ma come una rete dinamica di processi interdipendenti. Quando uno di questi nodi è fragile, tutto l’assetto dell’apprendimento può risentirne. Ma la plasticità cerebrale, unita a un intervento precoce e competente, consente di sviluppare strategie adattive che rafforzano le risorse residue e valorizzano le intelligenze alternative. Comprendere i diversi tipi di memoria significa, dunque, aprire una finestra sul modo unico in cui ogni bambino impara, pensa e costruisce il proprio futuro.

  • Migliorare l’attenzione degli studenti a scuola è una priorità

    Migliorare l’attenzione degli studenti a scuola è una priorità

    • primi 5 minuti sono quelli di massimo focus;

      L’attenzione a scuola: una risorsa in declino?

      In un mondo saturo di stimoli digitali, l’attenzione in classe è diventata una risorsa sempre più fragile. Studi recenti mostrano come il tempo medio di concentrazione nei bambini e negli adolescenti si sia ridotto drasticamente negli ultimi vent’anni. Secondo un’analisi pubblicata su Nature Reviews Neuroscience (2023), l’esposizione prolungata a contenuti digitali rapidi e frammentati altera il funzionamento della corteccia prefrontale, sede del controllo esecutivo e dell’attenzione sostenuta.

      Cosa dice la ricerca: attenzione, multitasking e apprendimento

      Uno studio dell’Università di Stanford (2024) ha dimostrato che il multitasking digitale abbassa la qualità dell’apprendimento fino al 40%, interferendo con la memoria di lavoro e il consolidamento delle informazioni. L’effetto è ancora più marcato in soggetti con difficoltà di attenzione o DSA, che già partono con un carico cognitivo maggiore.

      Strategie didattiche basate sulle neuroscienze

      Oggi si parla sempre più di neurodidattica: un approccio che integra i risultati delle neuroscienze cognitive nella progettazione educativa. Alcuni esempi efficaci:

      • Attività brevi e cicliche: le ricerche della McGill University (2023) confermano che suddividere le lezioni in segmenti di 10-15 minuti con pause attive aumenta l’attenzione sostenuta e riduce la fatica mentale.
      • Didattica multisensoriale: coinvolgere diversi canali sensoriali (visivo, uditivo, cinestesico) facilita la codifica e il recupero delle informazioni, soprattutto nei bambini con disturbi dell’attenzione.
      • Tecniche metacognitive: insegnare agli studenti come funziona la propria attenzione e come gestirla attraverso strumenti di self-regulation migliora significativamente i risultati. Studi dell’Università di Harvard (2023) lo confermano con dati longitudinali su oltre 3.000 studenti tra 8 e 14 anni.
      • Esempi concreti e progetti pilota
      • Nel 2024, il MIM ha promosso un progetto sperimentale in 50 scuole italiane, introducendo “pause neurocognitive” ogni 40 minuti di lezione. I risultati preliminari evidenziano un incremento del 25% nella capacità di attenzione degli studenti e una riduzione del 30% nei comportamenti oppositivo-provocatori in classe.
      • Inoltre, l’uso di ambienti scolastici “low stimuli” (riduzione del rumore, luci naturali, arredi funzionali) ha portato a un miglioramento significativo nel comportamento attentivo in bambini neurodivergenti, come dimostrato in un recente studio condotto all’Università di Padova (2023).
      • Conclusioni
      • Migliorare l’attenzione degli studenti è possibile, ma richiede un cambio di paradigma: serve una scuola più ritmata sul cervello degli studenti, meno votata alla performance e più attenta alla qualità dell’ambiente e delle interazioni. Le neuroscienze ci indicano la via, ora sta a noi percorrerla.
    1. La nuova era della plasticità neuronale

      La nuova era della plasticità neuronale

      Una rivoluzione neuroscientifica in atto

      Per decenni si è creduto che il cervello umano raggiungesse un picco di sviluppo nell’infanzia, per poi irrigidirsi in una struttura statica. La plasticità neuronale, oggi, smentisce questa visione: il cervello non solo continua a modificarsi nel tempo, ma lo fa anche in risposta all’esperienza, all’apprendimento e persino alla sofferenza psichica.

      L’evidenza più eloquente arriva dalle ricerche condotte da Michael Merzenich, pioniere nello studio della riorganizzazione corticale, il quale ha dimostrato come la corteccia uditiva di soggetti adulti possa ristrutturarsi profondamente in seguito a training specifici. Studi successivi (Zatorre et al., 2012) hanno inoltre rivelato modifiche morfologiche nel cervello di musicisti professionisti: un esempio emblematico di plasticità indotta dall’esperienza.

      Applicazioni cliniche: dalla riabilitazione ai disturbi dell’umore

      1. Riabilitazione neurocognitiva post-ictus

      Neuroplasticità è la chiave dei protocolli di riabilitazione motoria e cognitiva post-ictus. Grazie alla stimolazione ripetuta e a tecniche come il Constraint-Induced Movement Therapy (CIMT), si assiste alla formazione di nuove sinapsi e all’assunzione di funzioni da parte di aree cerebrali adiacenti a quelle danneggiate (Taub et al., 2002).

      2. Disturbi dell’umore e psicoterapia

      Anche la psicoterapia modifica il cervello. Ricerche con imaging funzionale (fMRI) hanno evidenziato che la terapia cognitivo-comportamentale può indurre cambiamenti strutturali nel circuito limbico, migliorando la regolazione emotiva in pazienti con depressione maggiore (Goldapple et al., 2004).

      3. Neuroeducazione e apprendimento

      In ambito scolastico, la scoperta che il cervello sia plastico ha rivoluzionato la didattica. L’introduzione di metodologie attive e multimodali, come il metodo Feuerstein, si fonda proprio sulla possibilità di potenziare le funzioni cognitive attraverso esperienze mirate. Ciò è fondamentale anche nei soggetti con DSA, ADHD o ritardo cognitivo, dove un training specifico può modificare le traiettorie evolutive.

      4. Mindfulness e modificazioni corticali

      Pratiche di meditazione, oggi integrate nella psicoterapia e nelle neuroscienze contemplative, mostrano un aumento della densità di materia grigia nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo (Hölzel et al., 2011), con ricadute positive su attenzione, memoria e benessere soggettivo.

      Nuove frontiere: stimolazione cerebrale e intelligenza artificiale

      Oggi si esplorano forme di stimolazione non invasiva come la TMS (Stimolazione Magnetica Transcranica) per intervenire su aree cerebrali coinvolte in depressione, ansia e disturbi del comportamento. Parallelamente, l’interazione tra intelligenza artificiale e neuroplasticità sta dando origine a protesi cognitive e interfacce neurali in grado di potenziare l’apprendimento o ristabilire funzioni perdute.

      Verso un nuovo paradigma dell’umano

      L’idea che il cervello sia una macchina fissa è definitivamente tramontata. Il neurosistema umano è, al contrario, organicamente aperto al cambiamento, modellabile in ogni fase della vita. La plasticità neuronale ci restituisce una visione dell’individuo come soggetto trasformabile, educativo, terapeutico e profondamente relazionale

      Come affermava Donald Hebb, padre della teoria sinaptica:

      “Le cellule che si attivano insieme, si connettono insieme.”

      Una frase che oggi è diventata il manifesto di una psicologia dinamica, profondamente neurocompatibile.

    2. L’autismo spiegato ai non autistici: il libro che traduce l’intraducibile

      L’autismo spiegato ai non autistici: il libro che traduce l’intraducibile

      “Comprendere l’autismo non è un atto di tolleranza, ma di giustizia cognitiva.”

      Questa frase potrebbe sintetizzare lo spirito profondo di un’opera che, già dal titolo, ribalta la prospettiva classica: non sono gli autistici a dover adattarsi, ma i non autistici a dover imparare un nuovo linguaggio.

      Il testo nasce da un’esperienza straordinaria: Brigitte Harrisson è una donna autistica ad alto funzionamento, formatrice e consulente internazionale, mentre Lise St-Charles è una ricercatrice e terapeuta, co-fondatrice dell’Institut SACCADE. Insieme danno vita a un libro che è al tempo stesso manuale, confessione e strumento di advocacy.

      Il punto di forza del libro è l’originale concetto di “funzionamento autistico”, che viene descritto come un processo cognitivo e sensoriale autonomo, non come un deficit. Gli autori spiegano il motivo per cui le persone autistiche reagiscono in modo diverso allo stress, alla comunicazione sociale, all’ambiguità linguistica e alla complessità emozionale.

      Ogni capitolo decostruisce pregiudizi diffusi:

      • Gli autistici non sono “privi di empatia”, ma spesso sovraccarichi di empatia.
      • Non si tratta di un “ritardo evolutivo”, ma di una diversità di base neurobiologica.
      • L’“isolamento” non è rifiuto dell’altro, ma protezione da un mondo percepito come troppo invasivo.

      La narrazione è arricchita da modelli operativi e spiegazioni visive (come quella del “triangolo della comunicazione”), utilissimi anche per chi lavora nel mondo scolastico o terapeutico. Il linguaggio è rigoroso, ma accessibile, privo di pietismo, e guidato da un’etica relazionale forte: capire per relazionarsi, non per normalizzare.

      Punti di forza

      • Visione dall’interno, scientificamente fondata ma profondamente umana.
      • Adatto sia a specialisti sia a genitori e insegnanti.
      • Decostruzione di stereotipi con esempi concreti e modelli esplicativi.

      Punti di debolezza

      • Richiede una certa familiarità con le neuroscienze o con il linguaggio psicologico.
      • Meno adatto come primo approccio divulgativo rispetto a testi più narrativi.

    3. Schreber: il delirio autobiografico di un giudice in manicomio

      Schreber: il delirio autobiografico di un giudice in manicomio

      Memorie di un malato di nervi di Daniel Paul Schreber rappresenta una delle testimonianze autobiografiche più sconvolgenti e affascinanti della psicopatologia europea. Redatto durante la degenza in manicomio (1903), il testo racconta con acuminata lucidità la graduale immersione dell’autore in un delirio sistematizzato, offrendo al lettore l’accesso diretto alla mente di un uomo colpito da psicosi paranoide.

      Schreber, presidente della Corte d’Appello di Dresda, figura eminente della borghesia tedesca di fine Ottocento, descrive la sua esperienza psicotica con una precisione quasi giuridica, rivelando l’inquietante coerenza interna del delirio e la sua potente forza mitopoietica. Angeli, raggi divini, femminilizzazione del corpo, rigenerazione dell’umanità: il suo universo allucinatorio è strutturato secondo una logica che sfida la ragione ma non la comprensione analitica.


      Freud, che non conobbe mai personalmente Schreber, ne fece oggetto di uno dei suoi saggi più celebri, interpretando la vicenda come espressione del ritorno del rimosso e come difesa contro impulsi omosessuali. Lacan, successivamente, riprenderà il caso per elaborare il concetto di forclusione del Nome-del-Padre, rilevando l’assenza di un significante simbolico capace di regolare l’accesso alla Legge.
      Schreber non è solo il paziente: è anche l’osservatore di se stesso, in un vertiginoso sdoppiamento tra soggetto e oggetto dell’osservazione. Questo rende le Memorie non solo un documento clinico, ma un’opera letteraria e filosofica capace di interrogare la natura del Sé, della follia, della percezione e della realtà.

      Perché leggerlo oggi

      Per genitori, educatori, terapeuti e pedagogisti, il libro rappresenta una testimonianza preziosa per comprendere non solo la dimensione clinica della psicosi, ma anche la dignità narrativa del soggetto sofferente. Memorie di un malato di nervi ci costringe a ridefinire il confine tra patologia e creatività, tra follia e logica, tra il “normale” e l’“altro”.

      In un’epoca in cui la salute mentale è spesso semplificata da diagnosi veloci e terapie standardizzate, la voce di Schreber risuona come monito: ogni delirio ha una logica, ogni mente ferita ha bisogno di essere ascoltata, decifrata, rispettata.

    4. Perché ci mangiamo le unghie? Il lato nascosto dell’onicofagia

      Perché ci mangiamo le unghie? Il lato nascosto dell’onicofagia

      Il morso invisibile dell’ansia: comprendere l’onicofagia

      L’onicofagia, ovvero l’abitudine di mangiarsi le unghie, è spesso liquidata come un gesto banale, un tic nervoso da correggere con smalti amari o ammonizioni. In realtà, essa costituisce un vero e proprio atto psicologico, simbolico e relazionale, che interroga la soggettività in modo profondo.

      Secondo il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5), l’onicofagia rientra tra i “comportamenti ripetitivi focalizzati sul corpo” (BFRB – Body-Focused Repetitive Behaviors), accanto a tricotillomania (tirarsi i capelli) e dermatillomania (grattarsi la pelle). Colpisce prevalentemente bambini e adolescenti, ma può protrarsi anche in età adulta.

      Tra ansia, perfezionismo e regressione orale

      Le cause dell’onicofagia non sono univoche. Il gesto è spesso legato a tensioni emotivefrustrazionenoiaansia da prestazione, ma anche a forme inconsce di autocontrollo o punizione.

      In ambito psicoanalitico, il gesto viene talvolta letto come regressione a una fase orale dello sviluppo psicosessuale, in cui il soggetto tenta di lenire una tensione interna attraverso l’autostimolazione orale. Un modo primitivo, ma potente, per autorassicurarsi.

      Altri approcci, come quello cognitivo-comportamentale, vedono nell’onicofagia un comportamento appreso e rinforzato, che agisce come valvola di sfogo in situazioni stressanti. Spesso diventa un automatismo legato alla distrazione o all’ipercontrollo.

      Un gesto silenzioso ma eloquente

      Chi si mangia le unghie difficilmente se ne accorge nel momento in cui lo fa. Si tratta di un comportamento semi-inconscio, che si manifesta durante attività passive (come guardare la TV o studiare), ma anche in momenti di tensione sociale.

      Da un punto di vista simbolico, l’onicofagia rappresenta una lotta interna tra impulso e contenimento. Mordere se stessi è un modo per scaricare aggressività, colpa o ansia che non trovano altra forma di espressione.

      Un disturbo che cresce con l’età

      Uno studio pubblicato su Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry (Williams et al., 2006) ha mostrato che circa il 45% degli adolescenti manifesta forme di onicofagia più o meno marcate, con una riduzione significativa dopo i 30 anni. Tuttavia, nei casi più gravi, essa può evolvere in una condotta compulsiva con danni fisici (infezioni, deformazioni ungueali) e psicologici (vergogna, bassa autostima).

      Trattamento e approcci terapeutici

      L’intervento psicologico varia a seconda della gravità e della funzione che il gesto assolve. Nei casi più lievi, è utile l’automonitoraggio, la consapevolezza del gesto e l’introduzione di comportamenti alternativi.

      Nei casi più profondi o cronicizzati, il percorso psicoterapeutico – in particolare a orientamento cognitivo-comportamentale o psicodinamico – può aiutare a decifrare il significato sottostante e a rielaborare i vissuti emotivicorrelati.

      Nel lavoro clinico con bambini e adolescenti, è importante coinvolgere la famiglia, lavorare su strategie di regolazione emotiva, e comprendere eventuali traumi, pressioni o disagi scolastici e relazionali.

      Conclusione

      L’onicofagia è molto più di un vizio da estirpare: è una spia psicosomatica, un linguaggio del corpo che chiede ascolto. Interrogare questo gesto, piuttosto che punirlo, può aprire la strada a una maggiore consapevolezza di sé e al recupero di un dialogo interiore più sano.

    5. Ripensare la scuola per salvare la salute mentale degli studenti

      Ripensare la scuola per salvare la salute mentale degli studenti

      Il maggio nero degli studenti

      A partire dalla seconda metà di aprile, fino alla fine di maggio, le aule scolastiche italiane si trasformano in veri e propri centri di pressione psicologica. È la fase delle “interrogazioni di recupero”, dei compiti a raffica, delle verifiche finali accumulate in nome della valutazione. Uno sforzo intensivo che rischia di vanificare mesi di apprendimento e di compromettere il benessere psico-fisico degli adolescenti.

      Secondo recenti studi dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre il 38% degli studenti tra i 13 e i 18 anni presenta sintomi riconducibili ad ansia scolastica, con picchi proprio nel periodo di maggio. Non sono rari gli episodi di attacchi di panico, insonnia, somatizzazioni e crolli emotivi.

      Il paradosso valutativo

      Questa corsa finale alla prestazione si fonda su un equivoco educativo: valutare equivale a “verificare” in modo intensivo, senza tener conto del carico cognitivo ed emotivo. Il paradosso è evidente: mentre il sistema scolastico predica il benessere psicologico e l’educazione socio-emotiva, nella prassi lo nega sistematicamente, sottoponendo gli studenti a vere maratone ansiogene.

      Un calendario scolastico da ripensare

      L’idea di concentrare tutte le valutazioni nelle ultime settimane dell’anno scolastico non è solo inefficace dal punto di vista didattico, ma anche dannosa. Una scuola più equa e inclusiva dovrebbe rivedere l’architettura temporale della valutazione, diluendo i momenti critici e valorizzando la valutazione formativa e continua, come suggerito da pedagogisti come Philippe Perrenoud e Maurizio Gentile.

      Intelligenze analogiche in un mondo digitale

      In un contesto dominato dalla rapidità e dalla prestazione digitale, è urgente recuperare le cosiddette intelligenze analogiche (Rivoltella, 2016): capacità di riflessione, pensiero lento, empatia, attenzione condivisa. Queste competenze vengono sistematicamente mortificate da una scuola che, a maggio, si fa giudice implacabile, dimenticando la propria missione formativa.

      Quali strategie per la scuola del futuro?

      Una scuola più sana e sostenibile per la mente deve:

      • Dilazionare le valutazioni nel corso dell’anno scolastico con micro-feedback costanti.
      • Ridurre il peso delle interrogazioni frontali e promuovere forme di valutazione autentica (portfolio, presentazioni, auto-valutazione).
      • Formare i docenti a riconoscere i segnali di disagio emotivo e a gestire le dinamiche di ansia prestazionale.
      • Introdurre sportelli di ascolto psicologico in ogni scuola, attivi soprattutto nel periodo conclusivo dell’anno.
      • Ripensare l’orario scolastico, prevedendo momenti di decompressione e attività metacognitive.

      Come affermava John Dewey, “l’educazione non è preparazione alla vita, è la vita stessa”. Non possiamo permetterci che il sistema scolastico diventi un fattore di rischio per la salute mentale dei ragazzi. È tempo di scegliere tra la scuola della prestazione e quella della formazione. Il cambiamento non è più procrastinabile: in gioco c’è il futuro delle nostre intelligenze più fragili, ma anche più umane.

    6. Bagni di realtà: la dura verità dietro il talento calcistico

      Bagni di realtà: la dura verità dietro il talento calcistico

      lI sogno: diventare calciatori

      In un’epoca dominata dal culto della performance e dell’immagine, il calcio rappresenta per migliaia di bambini e adolescenti l’archetipo moderno del riscatto e della gloria. Sacrifici, allenamenti estenuanti, la rinuncia a uscite con gli amici: tutto in nome di un pallone che rotola e di un futuro, si spera, radioso. Spinti dai modelli mediatici, da un sistema scolastico che spesso abdica al ruolo educativo in favore della celebrità, e da famiglie che investono emotivamente nel successo sportivo (e non solo) dei figli, molti ragazzi crescono accarezzando l’illusione di poter “sfondare”. Ma cosa succede quando il talento, pur presente, non basta? E soprattutto, quali sono gli errori che il sistema (famiglie, società sportive, allenatori) commette, minando spesso il benessere psicologico e la crescita di questi giovani atleti?

      La realtà dei numeri

      I numeri parlano chiaro: secondo una ricerca del CIES Football Observatory, solo lo 0,012% dei giovani tesserati nei settori giovanili italiani arriva a firmare un contratto da professionista in Serie A. È un’industria spietata, dove le logiche di mercato, gli interessi economici e le relazioni personali sovrastano spesso la meritocrazia e il talento. Il principio dell’“essere bravi” viene sostituito dal più disincantato “essere scelti”. Il talento è un dono, ma non è di certo una garanzia, se non è accompagnato dall’aspetto psichico e relazionale, dall’ambiente giusto, e perché no, anche da una buona dose di fortuna e di convergenze sincroniche. Essere al posto giusto nel momento giusto.

      Identita monolitica: essere solo “il calciatore

      Uno degli errori più gravi è ridurre l’identità di questi ragazzi al solo ruolo di calciatore. Ogni aspetto della loro vita ruota attorno al campo: la scuola passa in secondo piano, gli interessi extrasportivi vengono spesso trascurati, le relazioni sociali si concentrano prevalentemente sull’ambiente calcistico. Cosa succede quando il sogno si infrange, per un infortunio, per un cambio di categoria non superato, o semplicemente perché il talento, pur essendoci, non è sufficiente per il professionismo? Questi ragazzi si ritrovano spesso smarriti, senza un’identità solida al di fuori del rettangolo di gioco, con un senso di fallimento devastante. Molti giovani calciatori, pur dotati tecnicamente, vengono esclusi per motivi extracalcistici: un agente assente, una società non abbastanza visibile, una famiglia non abbastanza “strategica”. I criteri selettivi sono spesso opachi. Un recente servizio televisivo ha svelato quello che da tempo si sapeva.

      L’illusione della meritocrazia

      Nel mondo del calcio giovanile, anche ciò che non è normale diventa tollerabile, sepolto da una coltre di indifferenza. La selezione precoce, l’esclusione sociale, l’umiliazione pubblica durante le partite o gli allenamenti vengono percepite come “parte del gioco”. Ma in realtà, sono manifestazioni di una cultura sportiva malata, che trasmette messaggi tossici ai ragazzi: o sei il migliore, o non sei nessuno.

      Psicologia della disillusione

      La frustrazione che ne deriva può essere devastante. Gli adolescenti, in una fase esistenziale ancora fragile, vivono l’esclusione come un fallimento personale, come se il sogno infranto invalidasse la loro identità. La perdita di autostima, la depressione reattiva, l’ansia da prestazione sono problematiche sempre più presenti nei centri di psicologia sportiva.

      Cosa dire a un ragazzo che sogna?

      Sognare è lecito. Ma è doveroso educare al sogno e preparare al possibile fallimento. L’adulto – che sia genitore, insegnante o allenatore – ha il compito etico di accompagnare l’adolescente in un processo di crescita integrale, perché come scriveva Pier Paolo Pasolini, “un ragazzo ha diritto ai suoi sogni, ma anche al diritto di non vergognarsi se non si realizzano”.

      Perché lo sport, se ben guidato, può insegnare la resilienza, la collaborazione, l’autodisciplina. Ma non deve mai diventare una trappola identitaria. Il talento non è una colpa, ma nemmeno una via obbligata. Si può essere felici, anche se non si diventa campioni.

    7. Generazione a testa china: che fatica guardare negli occhi!

      Generazione a testa china: che fatica guardare negli occhi!

      Sguardi bassi, anime disconnesse

      In un’epoca in cui l’iperconnessione digitale è diventata cifra dominante dell’esistenza adolescenziale, gli sguardi bassi e disorientati si fanno sintomo silente ma eloquente di un malessere diffuso. Non si tratta solo di postura o timidezza: è la rappresentazione plastica di una generazione a testa china, inchiodata a uno schermo che ipnotizza, cattura, consuma.

      Lo sguardo: specchio dell’incontro

      Guardarsi negli occhi è gesto ancestrale di contatto, riconoscimento, reciprocità. È attraverso lo sguardo che il bambino costruisce la sicurezza del legame, il senso del sé e dell’altro. Ma cosa accade quando lo sguardo si spegne, si distoglie, si rifugia nello schermo? Il filosofo Byung-Chul Han scrive: “Il digitale indebolisce l’incontro autentico: si parla, ma non ci si guarda”. Così l’altro diventa solo contenuto, mai volto.

      Cingersi i fianchi: un gesto che protegge

      Quel gesto istintivo, quasi impercettibile, di chi si abbraccia da sé o si stringe i fianchi, tradisce un bisogno di contenimento, una risposta corporea alla vulnerabilità. In assenza di sguardi contenitivi – quelli che rassicurano, accolgono, confermano – il corpo si fa barriera. Non più ponte, ma guscio.

      Deboli o schiavi?

      Il dubbio rimane: sono giovani fragili, incapaci di reggere la complessità del reale, o sono schiavi inconsapevoli di una nuova forma di prigionia soft, dove lo smartphone diventa protesi dell’identità? Studi recenti (Twenge et al., 2023) evidenziano come l’uso eccessivo di dispositivi digitali sia correlato a un aumento significativo di ansia sociale, depressione e ritiro relazionale. Non è debolezza: è disconnessione esistenziale.

      Una generazione senza occhi

      Forse non è vero che non vogliono guardare. Forse non sono mai stati davvero visti. La testa china è il simbolo di chi non regge lo sguardo dell’altro perché non ha imparato a sostenere il proprio. E in questo paradosso, tra ipervisibilità social e invisibilità relazionale, si consuma il dramma di una generazione che cerca un volto ma trova uno schermo.

    8. Il pedagogista nella scuola: un professionista  troppo spesso invisibile

      Il pedagogista nella scuola: un professionista troppo spesso invisibile

      Un alleato strategico nella comunità educante

      Nella scuola italiana, si parla spesso di una figura di supporto come lo psicologo scolastico, necessaria a parer mio, ma troppo raramente si pensa a valorizzare il ruolo del pedagogista. Eppure questa figura professionale, definita dalla Legge 205/2017 in attesa dell’istituzione di un vero e proprio Albo professionale, è essenziale per la progettazione educativa, l’orientamento formativo e la prevenzione del disagio evolutivo e relazionale.

      Il pedagogista è colui che pensa la scuola prima ancora di abitarla, che osserva, media, forma e orienta. Non è un tecnico dell’istruzione, ma un architetto del clima educativo e relazionale, capace di leggere i bisogni latenti e trasformarli in prassi trasformative.

      Una funzione di sistema, non di sportello

      Non è un operatore da “emergenza”, ma un consulente strutturale. Interviene nella formazione permanente del corpo docente, nell’osservazione dei gruppi classe, nella definizione dei PEI e PDP, e nella gestione delle dinamiche conflittuali. Il suo sguardo è sistemico, non individualizzante.

      Secondo un’indagine ANPE (2023), oltre il 70% degli insegnanti si sente privo di strumenti per gestire il disagio emotivo e comportamentale. Eppure, soltanto in pochissime scuole italiane è presente stabilmente un pedagogista, nonostante la normativa lo consenta e la sua figura sia prevista in molte linee guida ministeriali, come quelle sull’inclusione e sul contrasto alla dispersione scolastica.

      Un presidio contro la dispersione e il burnout docente

      Il pedagogista non si sostituisce all’insegnante né allo psicologo. Collabora. Accompagna. Costruisce reti.

      La sua presenza è decisiva nella gestione della complessità scolastica contemporanea: multicultura, BES, famiglie fragili, cyberbullismo, disturbi specifici dell’apprendimento, autismo, ADHD.

      Inoltre, rappresenta un punto di riferimento anche per i docenti, spesso logorati da carichi emotivi, pressioni burocratiche e conflitti con le famiglie. Avere accanto un pedagogista significa avere uno spazio di confronto professionale che consente di rielaborare le fatiche e riattivare risorse interne.

      Un investimento culturale prima che economico

      Inserire pedagogisti a tempo pieno nelle scuole non è solo una questione di fondi. È una scelta politica e culturale. Significa scommettere su una scuola che non si limita alla trasmissione del sapere, ma che forma cittadini capaci di pensiero critico, affettività e responsabilità.

      Come ricordava Paulo Freire, “l’educazione non cambia il mondo, ma cambia le persone che cambieranno il mondo”. E il pedagogista è il professionista che guida questo processo trasformativo.