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  • Dove sono i Samaritani?

    Dove sono i Samaritani?

    La Chiesa alla prova della fraternità spezzata

    Ci si affanna nelle cattedrali e nelle parrocchie. Si prega, si canta, si marcia dietro stendardi e reliquie. Ma quando il fratello cade — e magari è proprio un sacerdote, uno che ha spezzato il pane e la Parola accanto a noi — allora spesso resta solo, gettato ai margini della strada, come l’uomo della parabola. E i primi a passare oltre, oggi come ieri, sono proprio coloro che conoscono le Scritture e officiano i culti.

    Il sacerdote malato, isolato, dimenticato, è una ferita viva nel corpo della Chiesa. E ciò che brucia di più non è solo la malattia o il dolore, ma l’abbandono da parte dei confratelli, dei cosiddetti “fratelli nel ministero”. Tutti troppo occupati, troppo assorbiti, troppo inseriti. Come se il Vangelo fosse una serie di impegni e non un’esistenza da condividere.

    Hans Urs von Balthasar scriveva:

    “Chi pretende di comprendere Cristo senza lasciarsi trafiggere da Lui, inganna sé stesso.”

    Ecco: la nostra Chiesa è diventata talvolta esperta nell’amministrare Cristo, ma lenta nel lasciarsi trafiggere dal dolore dell’altro. Abbiamo ridotto la koinonía a una parola di verbale pastorale. Eppure, senza fraternità reale, incarnata, non c’è comunità cristiana.

    Una spiritualità senza grembiule

    Don Tonino Bello ce lo ha insegnato con forza:

    “Il grembiule viene prima della stola.”

    Eppure, quante volte indossiamo la stola nei momenti pubblici, nei riti solenni, e poi ci dimentichiamo il grembiule della carità nel quotidiano? È proprio lì, nella corsia d’ospedale, nella casa silenziosa del prete anziano, nel dolore taciuto di un confratello ferito, che si misura l’autenticità della nostra fede.

    Abbiamo edificato una Chiesa che teme la vulnerabilità, che copre le ferite, che fugge dal pianto. Ma la Chiesa del Cristo crocifisso non può non essere anche la Chiesa del fratello sofferente. Dove sono i samaritani?

    Il grembiule oltre la stola: la profezia di don Tonino

    Don Tonino Bello non fu solo un vescovo della prossimità: fu un poeta del Vangelo incarnato. Tra le sue immagini più potenti c’è quella del grembiule, che egli opponeva alla stola non in termini di contrapposizione, ma di gerarchia evangelica. La stola è il segno del ministero, della sacralità liturgica; ma il grembiule — simbolo del servizio umile, dell’amore che si china — è l’indumento che Cristo indossa nel cenacolo, prima di ogni altra cosa.

    Scriveva:

    “Il grembiule non è un accessorio. È il paramento liturgico per eccellenza, quello senza il quale la stola rischia di diventare un ornamento vuoto, un segno sterile.”

    Nella visione di don Tonino, la stola riceve senso solo se attraversata dall’amore operoso del grembiule. È un grido contro ogni clericalismo, contro ogni ministero vissuto come potere o prestigio. E questa prospettiva è quanto mai urgente oggi, in una Chiesa che rischia di moltiplicare liturgie e appesantirsi di parole, ma impoverirsi di gesti reali.

    Il grembiule ci ricorda che non basta “fare” il prete, occorre essere fratelli. E la fraternità non si celebra a parole: si esercita chinandosi.

    Il paradosso della liturgia senza carità

    Ogni giorno celebriamo la memoria del Dio che si è fatto servo, che ha lavato i piedi ai suoi discepoli, che si è lasciato ferire per amore. Ma poi, nella pratica, il culto diventa più importante del cuore. Corriamo al tempio, ma evitiamo chi giace per terra.

    Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer parlava di “grazia a buon mercato”, e forse anche noi, nella Chiesa cattolica, abbiamo cominciato a distribuire “fraternità a buon mercato”: fatta di parole, di sorrisi istituzionali, di comitati. Ma quando il confratello crolla — perché è depresso, perché è stanco, perché è in crisi — allora il vuoto si fa silenzio assordante.

    Un esame di coscienza ecclesiale

    Che cosa sbaglia la Chiesa? Sbaglia quando dimentica che l’essenza del Vangelo non è la correttezza dottrinale né l’efficienza organizzativa, ma la prossimità. Cristo non ha lasciato un’agenda, ma una vita donata. La Chiesa sbaglia quando confonde la missione con l’ansia di visibilità, quando preferisce l’evento al volto.

    E noi? Noi cattolici sbagliamo quando ci accontentiamo di un cristianesimo da calendario liturgico, e non di una fede che scende per strada, che si ferma, che fascia le ferite.

    Il Buon Samaritano è l’icona eversiva di una Chiesa che non fugge. E Cristo — che nel Vangelo ci appare sempre accanto ai piccoli, ai poveri, ai feriti — ci interroga: dove siamo noi, davvero?

    Spiragli di speranza

    Eppure, non tutto è perduto. Ogni volta che un sacerdote si prende cura di un altro sacerdote, che un fedele va a trovare un parroco dimenticato, che una comunità si fa carico del dolore dell’altro, lì si ricrea la Chiesa delle origini, la koinoníadello Spirito.

    Occorre una conversione pastorale che non sia solo programmatica ma spirituale, fraterna, empatica.
    Occorre tornare a lavare i piedi.

    Perché “da questo sapranno che siete miei discepoli: se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13,35).