Tag: neuroscienze educative

  • Sbadiglio e scuola: quando il cervello chiede una pausa

    Sbadiglio e scuola: quando il cervello chiede una pausa

    Oltre la noia: un segnale da interpretare

    In classe lo sbadiglio viene spesso letto da insegnanti e compagni come sinonimo di noia o disinteresse. Ma le neuroscienze educative ci dicono che non è così semplice: lo sbadiglio può essere un indice di sovraccarico cognitivo.

    Uno studente che segue una lezione frontale lunga, in un’aula rumorosa e con richieste multiple, sta consumando molte risorse attentive. Lo sbadiglio diventa allora un atto di autoregolazione fisiologica, simile a una valvola di sfogo, per segnalare che la mente ha bisogno di una pausa.

    Evidenze scientifiche sullo sbadiglio

    Diversi studi hanno approfondito la funzione neurocognitiva dello sbadiglio. Andrew C. Gallup (2014) ha ipotizzato che lo sbadiglio sia un meccanismo di termoregolazione cerebrale, utile a raffreddare il cervello sotto stress cognitivo. Smith e colleghi (2021) hanno osservato che gli studenti sbadigliano più frequentemente in condizioni di compiti attentivi prolungati, specialmente quando la lezione supera i 30-40 minuti senza pause. Altri lavori (Eldakar & Gallup, 2012) hanno collegato lo sbadiglio a processi di sincronizzazione sociale: in classe, lo sbadiglio di uno studente può innescare una risposta simile negli altri, segnalando un calo collettivo dell’attenzione.

    Questi dati confermano che lo sbadiglio non è un semplice atto riflesso, ma un indice sensibile di sovraccarico cognitivo e stato attentivo, con implicazioni dirette nella progettazione didattica.

    Carico cognitivo e apprendimento

    La teoria del carico cognitivo (Sweller, 1988) applicata alla scuola ci ricorda che la memoria di lavoro ha limiti precisi: se il flusso di informazioni è troppo denso, l’apprendimento si blocca.
    Lo sbadiglio in classe, quindi, può dirci che:

    • la lezione è troppo lunga o monotona,
    • le strategie didattiche non alternano abbastanza canali (uditivo, visivo, motorio),
    • lo studente sta vivendo un sovraccarico sensoriale (tipico in alcuni alunni con ADHD o ASD).

    Didattica e autoregolazione

    Cosa possono fare gli insegnanti?

    • Prevedere micro-pause: anche solo 2 minuti di movimento o respirazione.
    • Variare il ritmo didattico: spiegazione, attività breve, confronto.
    • Accogliere i segnali corporei (sbadiglio, irrequietezza, perdita di attenzione) come indicatori di limite cognitivo, non come “maleducazione”.
    • Favorire strategie di autoregolazione: insegnare agli studenti che lo sbadiglio è un segnale utile, non qualcosa da reprimere.

    Una prospettiva inclusiva

    Nella scuola inclusiva, osservare i comportamenti fisiologici come lo sbadiglio significa leggere i bisogni dietro i gesti. Per un alunno con DSA o ADHD, ad esempio, sbadigliare ripetutamente non vuol dire disinteresse, ma “sto faticando a tenere il passo”.
    Riconoscerlo permette di adattare la lezione e di rispettare i tempi di apprendimento di ciascuno.

  • Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Nell’era della scuola “neurocentrica”, dove ogni metodologia didattica ambisce a definirsi “evidence-based”, si annida un pericolo silenzioso e affascinante: il neuromito. Con questo termine si indicano quelle convinzioni errate sul funzionamento del cervello umano che, pur prive di fondamento scientifico, si diffondono capillarmente nella formazione docente, nella pratica educativa e persino nei colloqui con le famiglie.

    Molti di questi miti derivano da una semplificazione eccessiva o da una distorsione dei risultati delle neuroscienze. Il pericolo? Che, anziché promuovere un’educazione più efficace, si costruiscano prassi rigide, stigmatizzanti o inutili.

    Che cosa sono i neuromiti?

    Il termine “neuromito” è stato coniato nel 2002 da Paul A. Howard-Jones, docente dell’Università di Bristol, per descrivere false credenze sul cervello che trovano terreno fertile nella scuola e nella formazione. Uno dei suoi studi più citati (Howard-Jones, 2014) ha mostrato che oltre il 70% degli insegnanti europei crede in almeno un neuromito, nonostante il loro alto livello di istruzione.

    Esempi classici includono:

    • “Usiamo solo il 10% del nostro cervello”
    • “Gli stili di apprendimento (visivo, uditivo, cinestetico) vanno assecondati per ogni alunno”
    • “L’emisfero destro è creativo, il sinistro è logico”
    • “È meglio insegnare ai bambini solo nella loro finestra sensibile”
    • “Il cervello si sviluppa solo fino a una certa età”

    Una questione di (in)formazione

    Uno studio condotto su 242 insegnanti italiani (Ferrero, Garaizar, & Vadillo, 2016) ha evidenziato che l’89% crede nell’esistenza degli stili di apprendimento come criterio per adattare la didattica. Tuttavia, nessuna ricerca neuroscientifica ha mai dimostrato un miglioramento significativo nei risultati scolastici adottando tale classificazione.

    Allo stesso modo, credere che il cervello abbia “un lato creativo e un lato logico” è una sovrainterpretazione di ricerche sulla specializzazione emisferica, ma le neuroscienze moderne mostrano che le funzioni cognitive complesse richiedono l’integrazione di entrambi gli emisferi (Gazzaniga, 2009).

    Perché sono dannosi?

    I neuromiti non sono semplici errori concettuali: influenzano direttamente il modo in cui gli educatori insegnano e valutano. Possono portare a etichettature precoci (“questo bambino non è portato per la matematica”), a strategie didattiche inefficaci e a spreco di risorse. In ambito clinico, possono addirittura ritardare diagnosi corrette in bambini con difficoltà specifiche dell’apprendimento.

    Una ricerca dell’OCSE (2019) ha sottolineato che la presenza di neuromiti nei sistemi scolastici rallenta l’innovazione educativa basata su dati scientifici e aumenta la dipendenza da mode pedagogiche.

    Come difendersi?

    1. Formazione scientificamente fondata

    Occorre inserire nei percorsi di aggiornamento per docenti e pedagogisti moduli di neuroeducazione, fondati su evidenze, per distinguere tra ciò che è “neuro-realistico” e ciò che è solo una “neuro-mod(a)”.

    2. Pensiero critico e interdisciplinarità

    È fondamentale promuovere il dialogo tra scienze cognitive, psicologia dell’educazione e didattica. Le neuroscienze non dettano il “come si insegna”, ma offrono vincoli e possibilità da tradurre con intelligenza pedagogica.

    3. Ricerca condivisa scuola-università

    Istituire progetti pilota in cui le scuole collaborano con centri di ricerca per monitorare gli effetti reali degli approcci didattici è una strada promettente.

    Esempio concreto: “Programmi per potenziare il cervello”

    Molte scuole hanno acquistato negli ultimi anni costosi software “per l’allenamento cerebrale” o “per lo sviluppo delle intelligenze multiple”, attratte da pubblicità che promettono miracoli cognitivi. Tuttavia, la letteratura scientifica (Simons et al., 2016) mostra che gli effetti di questi training sono spesso limitati e non trasferibili alla vita scolastica reale.

    Conclusione

    La fascinazione per il cervello è comprensibile: ogni educatore vorrebbe una chiave per liberare il potenziale degli alunni. Tuttavia, una chiave sbagliata apre porte sbagliate.
    Conoscere e smascherare i neuromiti è un dovere etico e professionale per ogni docente e pedagogista, perché solo su basi scientifiche possiamo costruire una scuola realmente inclusiva, efficace e umana.