Tag: neuroscienze

  • Cherofobia: il timore della felicità nel limbo della vita quotidiana

    Cherofobia: il timore della felicità nel limbo della vita quotidiana

    In un’epoca in cui si celebra la felicità come obiettivo supremo, cresce silenziosamente una generazione che non sa più cosa significhi essere felici, o che teme di esserlo. La cherofobia, termine derivante dal greco chairo (rallegrarsi) e phobos (paura), indica una condizione psicologica ancora poco esplorata, ma sempre più presente nei racconti clinici: il timore, spesso inconscio, di provare emozioni positive, perché associate al rischio, alla perdita o al fallimento. Un limbo esistenziale che paralizza la possibilità di sentire.

    Chi soffre di cherofobia non è necessariamente depresso nel senso clinico del termine, ma si trova sospeso in uno stato di anestesia affettiva, in cui la serenità è vissuta come sospetta e la quotidianità si colora di una tonalità grigia, priva di slanci, ma anche priva di autentico dolore. Come nota la psicologa Lucy Foulkes (University of Oxford), in Losing Our Minds (2021), molti giovani adulti oggi si muovono dentro una zona emotiva neutra, quasi dissociativa, dove la felicità non è negata, ma evitata. Ciò avviene spesso per ragioni apprese: da un lato vi è una cultura che ipervaluta la prestazione e considera la leggerezza come un disvalore; dall’altro, esperienze infantili di instabilità emotiva possono portare il soggetto a legare la gioia a un imminente trauma, come se ogni felicità portasse in sé il seme della sua fine.

    La cherofobia non è solo una reazione individuale, ma un sintomo culturale. In un mondo iperproduttivo e cronicamente connesso, la felicità è diventata un compito da raggiungere, una prestazione da dimostrare. Lo stress cronico, la pressione sociale e il confronto digitale costante alimentano una condizione di happiness anxiety, come definita in una recente ricerca pubblicata nel Journal of Affective Disorders (2022), in cui il 37% dei soggetti under 35 intervistati riferisce di provare disagio di fronte a momenti di apparente felicità. Questo disagio non è legato alla tristezza, ma all’incapacità di sostare nel piacere.

    La neuroscienza offre un ulteriore sguardo: studi di neuroimaging condotti presso l’Università di Tokyo (2019) mostrano che, in soggetti con alti livelli di cherofobia, si osserva una minore attivazione dell’area ventromediale prefrontale e dell’amigdala quando esposti a stimoli positivi. Ciò suggerisce una disregolazione della risposta dopaminergica, con una tendenza a “disinnescare” l’emozione prima che possa stabilizzarsi. In parole semplici: il cervello impara a non fidarsi della felicità.

    Il filosofo e psichiatra Viktor Frankl, sopravvissuto ai campi di sterminio e padre della logoterapia, sosteneva che la felicità non va cercata, ma segue come conseguenza di una vita dotata di significato. Eppure oggi il significato sembra latitare, sommerso da urgenze, impegni e richieste. La perdita di rituali, la dissoluzione delle comunità e la virtualizzazione del legame sociale rendono la quotidianità un tempo non abitato, ma subito.

    La psicologia contemporanea suggerisce un ritorno alla microesperienza: imparare a riconoscere le piccole gioie, riabilitare la lentezza, riappropriarsi del silenzio. Come afferma il terapeuta statunitense Jonah Paquette nel volume Real Happiness (2020), occorre educare il sistema nervoso alla gratitudine e alla presenza, allenando il cervello a tollerare anche la calma, non solo l’ansia. Il benessere non è l’euforia, ma la disponibilità a ricevere senza attaccarsi, a sentire senza difendersi, a vivere senza correre.

    Nella dimensione clinica, la cherofobia si lega spesso a tratti ansiosi, a storie di controllo affettivo o a dinamiche di attaccamento disfunzionale. Il lavoro terapeutico punta non a “curare” la felicità, ma a renderla accessibile, sostenibile, non colpevole. In un mondo dove la felicità è slogan, chi la teme non è malato, ma forse semplicemente stanco di inseguire un ideale irraggiungibile. La vera sfida educativa e terapeutica, oggi, è re-imparare a sostare nel quotidiano, a non temere la luce dopo tanta ombra, a non sabotarci proprio quando la vita ci accarezza.

  • San Valentino: il patrono degli innamorati

    San Valentino: il patrono degli innamorati

    L’origine della festa di San Valentino si perde in un intreccio di riti antichi e tradizioni che hanno segnato la storia dell’umanità, rivelando un percorso che unisce il fervore delle celebrazioni pagane e la profondità del simbolismo cristiano. Nella Roma antica, la Lupercalia veniva celebrata con una ritualità quasi mistica, un rito di purificazione e fertilità che apriva le porte alla rinascita della natura e al rinnovamento dell’anima. I Lupercàli (Lupercalia in latino) erano un’antica festività romana, celebrata nei giorni nefasti di febbraio, mese tradizionalmente dedicato alla purificazione. Il rito si svolgeva dal 13 al 15 febbraio in onore del dio Fauno.

    Secondo un’altra interpretazione, avanzata dallo storico Dionigi di Alicarnasso, i Lupercalia commemoravano il leggendario allattamento dei gemelli Romolo e Remo da parte di una lupa che aveva appena partorito. Un resoconto dettagliato di questa festività si trova nelle Vite parallele di Plutarco. Le celebrazioni si svolgevano nella grotta chiamata Lupercale, situata sul Palatino, dove, secondo la tradizione, Romolo e Remo sarebbero stati allevati dalla lupa prima di fondare Roma.

    Con l’avvento del Cristianesimo, le celebrazioni pagane vennero reinterpretate, e la figura di un martire coraggioso, che osò infrangere le rigide imposizioni dell’autorità imperiale celebrando unioni segrete, divenne il simbolo di un amore redentore e rivoluzionario. San Valentino è venerato dalla Chiesa Cattolica come martire cristiano, ed è considerato il patrono degli innamorati. Tuttavia, la sua figura storica è avvolta nel mistero e spesso confusa con altre omonime.

    Secondo la Passio Sancti Valentini, Valentino sarebbe stato un vescovo di Terni vissuto nel III secolo d.C., durante il regno dell’imperatore Claudio II il Gotico. La tradizione narra che fosse noto per il suo impegno nel celebrare matrimoni tra cristiani, nonostante le persecuzioni dell’epoca. Avrebbe anche benedetto le unioni tra giovani coppie, andando contro il decreto imperiale che proibiva i matrimoni per i soldati, considerati più valorosi se non sposati.

    Per la sua opera di evangelizzazione e per aver sfidato le autorità romane, Valentino venne arrestato e condannato a morte. Secondo la leggenda, prima della sua esecuzione avrebbe guarito la figlia cieca di un suo carceriere e le avrebbe scritto un biglietto firmato “Tuo Valentino”, da cui deriverebbe l’usanza degli auguri d’amore nel giorno della sua festa.

    San Valentino fu decapitato il 14 febbraio 273 d.C. e sepolto lungo la Via Flaminia. Il culto si diffuse rapidamente e nel 496 d.C. papa Gelasio I istituì ufficialmente la sua festa per sostituire i Lupercalia.

    Le sue reliquie sono conservate in diverse città italiane, tra cui Terni, dove è patrono, e Roma, nella Basilica di San Valentino. Il 14 febbraio è celebrato come il giorno degli innamorati, una tradizione che ha radici sia nella religione cristiana che nelle consuetudini medievali legate all’amore cortese.

    Studi interdisciplinari che spaziano dall’antropologia alle neuroscienze hanno dimostrato come l’amore sia radicato in meccanismi cerebrali ben definiti, capaci di innescare la produzione di neurotrasmettitori e ormoni che regolano il benessere emotivo e fisico. Questa sintesi tra tradizione e scienza conferisce alla festa di San Valentino una valenza profonda e ambivalente, in cui il sentimento si trasforma da ideale romantico a fenomeno misurabile, capace di resistere al tempo e alle convenzioni sociali. In un’epoca segnata dall’individualismo e dalla frenesia, il ricordo delle origini di questa celebrazione funge da monito: l’amore, nella sua essenza più pura, è una forza che illumina anche gli angoli più oscuri dell’esistenza, sfidando le tempeste del destino e offrendo una via di speranza e redenzione.

    San Valentino incarna il connubio tra spiritualità e sentimento, tra la tradizione cristiana e il significato universale dell’amore. Il suo culto, nato in un’epoca di persecuzioni e sacrificio, si è trasformato nei secoli in un simbolo di unione e affetto, mantenendo vivo il messaggio di altruismo e dedizione.

    Che si tratti di un amore romantico, familiare o universale, la sua figura ci ricorda che l’amore autentico è dono, impegno e speranza. Il 14 febbraio non è solo una celebrazione consumistica, ma un’occasione per riscoprire il valore profondo del legame con gli altri, costruito su fiducia, rispetto e sincera connessione dell’anima.

    Nel mondo frenetico di oggi, dove spesso i sentimenti vengono sminuiti o dati per scontati, questa ricorrenza ci invita a riflettere sull’importanza di amare con autenticità, senza paura e senza riserve. Perché, come scriveva Dante, “Amor che move il sole e l’altre stelle”, è la forza più grande e inesauribile dell’universo.

  • La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

    La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

    Gent.mo Professore, ho insegnato per 40 anni in un liceo. Negli ultimi anni ho riscontrato negli alunni la difficoltà di memorizzazione delle nozioni. A distanza di 50 anni ricordo ancora le poesie insegnatemi nelle elementari. Esiste una causa e degli strumenti che possano compensare questa difficoltà? Marcello

    Parto da una premessa. Lei mi parla dei tempi andati, percepisco una certa nostalgia e struggenza, come è giusto che sia, però dobbiamo prendere atto che i tempi attuali sono terribilmente differenti e terribilmente difficili. Il cambio generazionale è violento, da un biennio all’altro ci troviamo dinanzi a ragazzi che arrivano con scarse basi di scolarizzazione, con problemi comportamentali, con certificazioni che attestano disturbi dell’apprendimento e bisogni educativi speciali,

    Quasi ogni giorno siamo costretti a chiamare le ambulanze per un pronto intervento per attacchi di ansia e panico. I tempi che furono non possono essere un metro di paragone con la generazione attuale. Troppe cose son cambiate nel frattempo, in primis la famiglia, la visione della scuola e dell’insegnante, e soprattutto non siamo ancora preparati a contenere e ad educare ad uso corretto delle tecnologie informatiche. Proprio su quest’ultimo aspetto, recenti studi sottolineano che oramai ci siamo abituati a vivere con la certezza che le risposte che ci servono sono a portata di un clic, concependo il web come una memoria esterna alternativa. Quando ci manca una informazione o non ricordiamo qualcosa, ci viene in aiuto Mister Google. Siamo cresciuti nel trovare la strada che ci porta a trovare l’informazione a noi utile, ma rispetto a qualche decennio fa, memorizziamo molto meno alcune informazioni. Secondo una ricerca dell’Università di Fairfield, è un fenomeno che sembra estendersi anche alle immagini: persino fare fotografie può ridurre i ricordi delle immagini viste. La memoria, se non viene allenata, al pari della muscolatura, tende ad inflaccidirsi, per questo resta fondamentale un training continuo. Oggi, come sottolinea A. Keen, in ‘The Internet is Not the Answer‘, (Internet non è la risposta) allenamento e rigore mentale sono andati perduti.

    Spesso capita di trovare un numero consistente di allievi che nonostante si applichino nello studio non riescano a ricordare, né ad esprimerle compiutamente ciò che hanno studiato. Dopo la fatica, i risultati non sempre sono commisurati allo sforzo e producono risultati scadenti, creando scoraggiamento e sconforto. Neuroscienze e neuropsicologia, che da anni studiano il fenomeno, danno delle risposte in merito, soprattutto sullo studio della memoria nelle sue varie manifestazioni, ma come spesso succede le conoscenze che emergono, rimangono confinate nel ristretto ambito clinico-riabilitativo, per pochi eletti, e non giungono alla destinazione interessata e coinvolta per prima: la scuola.  

    André Rey, nel 1958 ha strutturato una prova che consente di misurare esattamente l’abilità chiamata prova di apprendimento verbale. Al soggetto è presentata una lista di 15 parole che deve cercare di ricordare al termine di ogni presentazione, per 5 volte registrando quanti elementi vengono ricordati. Successivamente il soggetto viene distratto con attività spaziali e dopo 15 minuti gli viene chiesto di ripetere la lista.La curva di apprendimento, in genere, mostra un rapido incremento nel numero di parole ricordate dopo la seconda somministrazione. Il numero di parole cresce fino ad avvicinarsi a 15 al quarto tentativo e spesso tutte le parole vengono ricordate all’ultima ripetizione. Dopo 15 minuti la maggior parte delle persone ricorda l’intera lista senza difficoltà. Ecco dunque un aspetto interessante che deve farci riflettere: nonostante la fase di apprendimento della lista di parole, il recupero a distanza delle informazioni apprese può essere inefficiente: l’immagazzinamento funziona, ma il ricordo no. Siffatta prova conferma quello che a volte si verifica nell’apprendimento scolastico, ovvero, informazioni che al termine del pomeriggio di studio sembravano immagazzinate, dopo qualche ora non sono più recuperabili. Può esistere apprendimento senza ricordo?  Le neuroscienze ci aiutano indicandoci che l’aspetto importante è capire se il soggetto non ricorda o non immagazzina. Sovente si immagazzina ma non si ricorda, e questa è una situazione che trova un trend più frequente nelle nuove generazioni.

    Il problema è risolvibile, con strumenti compensativi, che sovente restano sconosciuti agli stessi insegnanti. Ad uno studente che ha davvero problemi a ricordare una formula o una regola, basta dargli il magazzino delle formule e delle regole a disposizione e lui supererà le sue difficoltà. Gli strumenti ci sono, occorre un utilizzo corretto senza preconcetti di sorta.

  • EDUCARE ALLE EMOZIONI: L’IMPORTANZA DEL QUOZIENTE EMOTIVO

    EDUCARE ALLE EMOZIONI: L’IMPORTANZA DEL QUOZIENTE EMOTIVO

    In psicologia, le emozioni vengono descritte come stati complessi di sentimenti che scatenano reazioni psicofisiche, influenzando i pensieri e i comportamenti. Come sottolineato dal Dr. Paul Ekman, psicologo e ricercatore noto per i suoi studi sulle emozioni universali, “le emozioni sono reazioni psicologiche di adattamento agli stimoli esterni” e sono essenziali per la sopravvivenza e per l’interazione sociale. Esse si manifestano attraverso risposte fisiologiche (come la variazione della frequenza cardiaca e respiratoria), risposte tonico-posturali (tensione o rilassamento del corpo), comportamentali e espressive (ad esempio attraverso il linguaggio e le espressioni facciali).

    Fino a qualche decennio fa, si attribuiva una grande importanza al quoziente intellettivo (QI) come indicatore di successo. Tuttavia, l’approccio educativo è cambiato radicalmente. Negli ultimi anni, l’attenzione si è spostata verso un concetto più ampio di intelligenza, quello dell’intelligenza emotiva, evidenziando come la capacità di riconoscere, comprendere e gestire le emozioni sia altrettanto cruciale per il successo e il benessere. Come dimostrato da numerosi studi, tra cui quelli di Daniel Goleman, esperto di intelligenza emotiva, l’intelligenza emotiva (EQ) è predittiva di successo nella vita sociale e professionale, poiché influisce sul modo in cui affrontiamo le sfide, gestiamo i conflitti e ci relazioniamo con gli altri.

    Nel 1983, Howard Gardner, psicologo della Harvard University, ha rivoluzionato la concezione tradizionale di intelligenza, proponendo la teoria delle intelligenze multiple. Secondo Gardner, ogni individuo possiede una varietà di intelligenze che si sviluppano nel corso della vita, tra cui l’intelligenza linguistica, matematica, interpersonale e intrapersonale. Quest’ultima, che riguarda la comprensione e gestione delle proprie emozioni, è strettamente legata all’intelligenza emotiva e gioca un ruolo cruciale nell’educazione.

    Un altro autore fondamentale nella comprensione dell’intelligenza emotiva è Daniel Goleman, il cui libro Intelligenza Emotiva ha dato impulso alla diffusione di questa teoria. Goleman sostiene che le emozioni non sono semplicemente reazioni passivi, ma possiedono una funzione adattiva che aiuta a prendere decisioni più consapevoli e a rispondere meglio alle sfide della vita quotidiana. La sua ricerca, inoltre, ha evidenziato che il quoziente emozionale può essere migliorato attraverso pratiche educative mirate, come l’apprendimento della consapevolezza emotiva e la gestione dei conflitti, competenze che sono essenziali per una crescita equilibrata.

    Le neuroscienze, inoltre, confermano che i sistemi cognitivi ed emotivi sono strettamente connessi. Studi recenti hanno dimostrato che il cervello elabora simultaneamente informazioni emotive e razionali, suggerendo che un’educazione che trascuri la dimensione emotiva rischia di limitare il potenziale di sviluppo di un individuo. Come affermato dal neuroscienziato Antonio Damasio, “le emozioni sono essenziali per la ragione”, indicando che senza una comprensione profonda delle proprie emozioni, le decisioni razionali risultano compromesse.

    Educare i giovani all’intelligenza emotiva è fondamentale per prevenire problematiche psicologiche come attacchi di rabbia, ansia, disturbi alimentari e dipendenze da sostanze psicoattive. Inoltre, un basso quoziente emotivo è stato associato a difficoltà nell’interazione sociale e a comportamenti devianti. Come sottolinea la Società Italiana di Psicologia (SIP), un’educazione che integra competenze emotive è cruciale per un benessere psicologico duraturo.

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