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  • Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Giovanni Stanghellini, filosofo e psichiatra di fama internazionale, è noto per la sua capacità di intrecciare psicopatologia, fenomenologia e antropologia in una riflessione profonda sulla condizione umana. Nel suo libro Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, pubblicato nel 2017, l’autore esplora le dinamiche dell’identità e della percezione del sé in una società dominata dall’immagine e dalla rappresentazione virtuale. Il tema del selfie, inteso non solo come pratica tecnologica ma come fenomeno esistenziale, diventa il punto di partenza per un’indagine sulla costruzione dell’io attraverso lo sguardo altrui.

    L’opera si configura come un saggio di straordinaria attualità, in cui Stanghellini analizza la necessità dell’essere umano di essere visto e riconosciuto dagli altri, una condizione fondamentale per la formazione della propria identità. Il selfie, in questa prospettiva, non è un mero atto di narcisismo ma il sintomo di un bisogno profondo di conferma e legittimazione. Il libro affronta il tema con un linguaggio che fonde rigore accademico e accessibilità, rendendolo un’opera adatta sia agli studiosi di psicologia e filosofia sia a un pubblico più ampio, interessato a comprendere il peso dello sguardo sociale nella costruzione del sé.

    Il selfie come fenomeno esistenziale: narcisismo o bisogno di riconoscimento?

    Il selfie non è semplicemente un atto estetico o un’esibizione narcisistica, ma un fenomeno esistenziale profondo, strettamente legato alla costruzione dell’identità e al bisogno di riconoscimento. Giovanni Stanghellini analizza il ruolo dello sguardo altrui nella definizione del sé, mostrando come l’immagine che proiettiamo sia parte di un processo di autoaffermazione e di legittimazione sociale.

    L’essere umano è, per sua natura, un animale relazionale, la cui identità si forma attraverso l’interazione con gli altri. La fenomenologia e la psicopatologia ci insegnano che l’identità individuale non è un’entità chiusa e statica, ma una costruzione che avviene nel rapporto con il mondo e con gli altri. Il selfie, in questo contesto, rappresenta un dispositivo attraverso cui cerchiamo di rispondere alla domanda esistenziale “Chi sono io per gli altri?”.

    Il selfie come manifestazione della dialettica tra essere e apparire

    Il problema centrale del selfie risiede nella tensione tra autenticità e rappresentazione. Nell’epoca digitale, il volto non è più solo un riflesso dell’identità, ma un mezzo attraverso cui l’individuo si narra, si ricostruisce e si adatta alle aspettative altrui. Il selfie non è mai un’immagine neutra: ogni scatto è frutto di una selezione, di una posa studiata, di una precisa scelta comunicativa che ha come fine ultimo la validazione sociale.

    Stanghellini evidenzia come, dietro questa pratica, si nasconda un bisogno primordiale di essere visti. Il selfie non è solo un atto individuale, ma un fenomeno collettivo: scattare una foto di sé ha senso solo se esiste uno sguardo altro che la riconosca, la interpreti e la validi. In tal senso, la società digitale amplifica un meccanismo che, seppur presente da sempre nell’essere umano, assume oggi una nuova centralità.

    L’eccessiva ricerca di conferma può però condurre a una dissonanza tra l’immagine rappresentata e l’essenza autentica dell’individuo. La costruzione di un sé socialmente accettabile può diventare un limite, spingendo l’individuo a identificarsi con un’immagine artificiale piuttosto che con la propria interiorità. Questo scollamento tra essere e apparire può generare un profondo senso di vuoto esistenziale, creando dipendenza dalla continua approvazione esterna.

    La fragilità dell’Io nello specchio del selfie

    Dal punto di vista psicologico, il selfie diventa dunque un mezzo di gestione dell’insicurezza esistenziale. L’immagine condivisa diventa una sorta di scudo contro il timore di non essere abbastanza, un tentativo di plasmare la percezione di sé in base al feedback degli altri. In questo senso, il selfie può essere interpretato come una strategia di controllo identitario: attraverso la selezione delle immagini migliori, si costruisce una versione potenziata del sé, con lo scopo di rafforzare la propria autostima e ridurre l’ansia sociale.

    Tuttavia, questa ricerca di validazione esterna può facilmente trasformarsi in un circolo vizioso. Il bisogno costante di like, commenti e conferme diventa una misura del proprio valore, e il rischio è quello di legare la propria autostima a un riscontro effimero e instabile. Qui si inserisce la riflessione di Stanghellini sul selfie come paradosso: se da un lato è un tentativo di autoaffermazione, dall’altro può trasformarsi in una gabbia in cui l’individuo è costretto a reiterare la propria immagine ideale, con il timore costante di non essere all’altezza delle aspettative.

    Conclusione: il selfie come metafora della condizione umana

    Il selfie, nella lettura di Stanghellini, non è soltanto un’icona della società digitale, ma una vera e propria metafora della condizione umana. Esso riflette il desiderio innato di essere riconosciuti, la tensione tra autenticità e costruzione dell’immagine, la necessità di trovare un equilibrio tra il sé interiore e la sua rappresentazione esterna.

    L’opera di Stanghellini ci invita a riflettere sulla natura del nostro rapporto con l’immagine e con l’altro. La nostra identità è sempre il frutto di un’interazione, di uno scambio, di uno sguardo che ci restituisce chi siamo. Tuttavia, in un’epoca in cui la visibilità sembra essere diventata sinonimo di esistenza, è fondamentale interrogarsi su quanto di noi stessi stiamo sacrificando sull’altare della rappresentazione.

    Il selfie può essere uno strumento di espressione, ma anche una trappola. La sfida, allora, è imparare a usarlo senza smarrire la propria autenticità, a cercare il riconoscimento senza perdere il senso di sé, a guardarsi nello specchio digitale senza dimenticare che la vera essenza di un individuo non può mai ridursi a un’immagine.