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  • Amore e Psiche: l’innamoramento tra cervello e cuore

    Amore e Psiche: l’innamoramento tra cervello e cuore

    L’amore è forse l’enigma più potente e misterioso che accompagna l’esistenza umana, un legame invisibile tra la razionalità della mente e l’irrazionalità del cuore, tra impulso e riflessione, tra bisogno e scelta. Fin dall’antichità, la dicotomia fra cuore e cervello ha dominato la riflessione filosofica e poetica, ma oggi è la scienza a svelare i meccanismi più intimi del sentimento amoroso, conducendoci nel laboratorio dell’anima dove la chimica neuronale si mescola ai sussulti del desiderio.

    Secondo gli studi di Helen Fisher, antropologa biologica presso la Rutgers University, l’innamoramento è il frutto di una complessa interazione tra tre sistemi cerebrali distinti ma interconnessi: il desiderio sessuale, l’attrazione romantica e l’attaccamento. Questi sistemi attivano diverse aree del cervello, coinvolgendo neurotrasmettitori come la dopamina, la serotonina e l’ossitocina, molecole che orchestrano la sinfonia delle emozioni e dei legami. La dopamina, in particolare, agisce come il regista dell’euforia amorosa, accendendo il circuito della ricompensa nel nucleus accumbens, la stessa area stimolata dal consumo di cocaina, a testimonianza dell’intensità e della potenziale dipendenza emotiva dell’innamoramento.

    La risonanza magnetica funzionale ha permesso di osservare come, nei soggetti innamorati, si attivino specifici network cerebrali legati alla motivazione e al piacere, mentre si spengono aree deputate al giudizio critico, spiegando perché l’amore renda ciechi e indulgenti. Ma se il cervello è l’organo dell’amore, il cuore rimane il suo simbolo universale: le emozioni amorose non si limitano alla dimensione cognitiva, bensì influenzano la fisiologia, il battito cardiaco, la respirazione, la sudorazione, generando una corporeità affettiva che nessuna mappa neuronale può contenere. L’amore, dunque, non risiede esclusivamente né nel cuore né nel cervello, ma scorre tra i due come un ponte fragile e splendente, un equilibrio dinamico tra ragione e sentimento. Non ci innamoriamo solo per scelta, né solo per istinto: ci innamoriamo perché la nostra psiche, il nostro inconscio e la nostra biologia danzano insieme in un gioco millenario di selezione, proiezione e narrazione.

    Il cuore batte, ma è il cervello che scrive la storia d’amore. Un esempio significativo è lo studio condotto dal team del neuroscienziato Andreas Bartels al Wellcome Department of Imaging Neuroscience di Londra, che ha mostrato come la visione della persona amata riduca l’attività nelle aree cerebrali responsabili del conflitto e della valutazione negativa, dimostrando che l’amore modifica la percezione e favorisce una forma di fiducia radicale. 

    In questa prospettiva, l’amore è un atto neuropsicologico, ma anche un viaggio mitico dentro sé stessi, come racconta la leggenda di Amore e Psiche: una tensione verso l’altro che diventa scoperta dell’anima, fusione e separazione, caduta e rinascita. L’amore non è un’illusione, ma un’esperienza reale inscritta nella carne e nel pensiero, capace di trasformarci nelle profondità della nostra coscienza.

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    ARFID: La nuova frontiera dei disturbi alimentari nell’infanzia e adolescenza

    Nell’orizzonte clinico dei disturbi dell’alimentazione, l’ARFID (Avoidant/Restrictive Food Intake Disorder) rappresenta una nuova e insidiosa declinazione, distinta dall’anoressia nervosa e dalla bulimia per l’assenza di preoccupazioni circa il peso corporeo o l’immagine di sé. L’ARFID è caratterizzato da un’evidente restrizione alimentare che conduce a deficit nutrizionali significativi, compromissione della crescita e disfunzioni psicosociali. Il disturbo si manifesta prevalentemente in età evolutiva e presenta una complessità diagnostica che richiede un approccio multidisciplinare.

    Recenti ricerche condotte in Europa, tra cui lo studio multicentrico “Pica, ARFID, and Rumination Disorder” (Koomar et al., 2021), stimano una prevalenza di ARFID tra l’1,5% e il 5% della popolazione pediatrica. Un’indagine condotta nel 2023 su scala europea dalla European Society for Child and Adolescent Psychiatry (ESCAP) evidenzia come il 3,2% dei bambini tra i 7 e i 14 anni manifesti sintomi compatibili con una diagnosi di ARFID.

    La diagnosi di ARFID richiede un’attenta anamnesi alimentare, la valutazione nutrizionale e l’esclusione di condizioni mediche sottostanti. Strumenti come l’”Nine Item ARFID Screen” (NIAS) si sono rivelati utili nel supportare la pratica clinica, offrendo una prima identificazione di soggetti a rischio.

    Fondamentale è la distinzione tra neofobia alimentare fisiologica, tipica dell’età prescolare, e restrizione patologica che persiste oltre le fasi evolutive normali.

    I dati suggeriscono un incremento delle diagnosi, complice una maggiore sensibilità clinica e l’ampliamento dei criteri diagnostici rispetto ai tradizionali disturbi alimentari. Particolarmente colpiti risultano i soggetti con preesistenti disturbi d’ansia o dello spettro autistico, nei quali la selettività alimentare assume connotazioni patologiche.

    Il trattamento dell’ARFID si configura come un percorso complesso e altamente personalizzato. Secondo le linee guida europee recenti, le strategie terapeutiche più efficaci comprendono la Terapia cognitivo-comportamentale adattata per ARFID con interventi focalizzati sulla progressiva esposizione ai cibi evitati, connesso a un supporto nutrizionale specialistico con piani alimentari calibrati sulle necessità del bambino/adolescente. Resta fondamentale il coinvolgimento familiare, strumento fondamentale per sostenere il cambiamento comportamentale e migliorare l’aderenza al trattamento. In casi particolarmente complessi, si rende necessaria l’integrazione con terapie farmacologiche, mirate alla gestione dell’ansia associata alla fobia alimentare.

    L’ARFID si impone come un disturbo in forte ascesa nella psicopatologia evolutiva, richiedendo un riconoscimento precoce e un intervento specialistico tempestivo. La crescente mole di dati epidemiologici e clinici a livello europeo impone alla comunità scientifica un impegno costante nell’affinare strumenti diagnostici e strategie terapeutiche, al fine di garantire a bambini e adolescenti un percorso di cura efficace e rispettoso delle loro peculiari esigenze di crescita.

  • Stress: il malessere moderno

    Stress: il malessere moderno

    l concetto di stress, oggi ampiamente usato in ambito psicologico, medico e sociale, trova le sue radici nella medicina del primo Novecento, grazie agli studi del fisiologo Hans Selye. Fu proprio Selye, nel 1936, a introdurre per la prima volta il termine “stress” in un contesto scientifico, definendolo come la risposta aspecifica dell’organismo a ogni richiesta effettuata su di esso. Da queste osservazioni nacque la teoria della General Adaptation Syndrome, una sindrome che descrive la risposta fisiologica allo stress in tre fasi distinte: allarme, resistenza ed esaurimento. Questo modello rimane un punto di riferimento fondamentale per la comprensione clinica del fenomeno. Negli anni ’80, Lazarus e Folkman riformularono il concetto in chiave cognitiva, definendo lo stress come un’interazione dinamica tra persona e ambiente, influenzata dalla valutazione soggettiva degli eventi stressanti e dalle risorse di coping disponibili.

    Lo stress, in questa visione ampliata, si configura non solo come una tensione nervosa ma come una risposta sistemica e complessa, che coinvolge meccanismi neuroendocrini, immunitari e psicologici. Recenti studi hanno confermato il ruolo centrale degli assi HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene) e SAM (sistema simpatico-adreno-midollare) nella risposta allo stress, con attivazione ormonale che prepara l’organismo ad affrontare situazioni percepite come minacciose (NCBI). Questa attivazione, se cronica, può causare disfunzioni nel sistema immunitario, disordini dell’umore e patologie psicosomatiche.

    Secondo il rapporto Stress in America 2024 dell’American Psychological Association, oltre il 70% degli adulti americani indica lo stress per il futuro della società come una fonte importante di disagio (APA). A livello globale, lo stress sul posto di lavoro è in forte crescita: un report del 2024 rivela che il 60% dei lavoratori riferisce un aumento dello stress professionale, con il 79% che lo identifica come la principale causa di malessere.

    L’impatto dello stress sulla salute mentale è ulteriormente documentato da studi che mostrano come l’attivazione prolungata delle risorse cognitive in condizioni di stress alteri la capacità di regolazione emotiva e decisionale. A livello fisiologico, la variabilità della frequenza cardiaca (HRV) si è rivelata un indicatore affidabile dello stato di stress: livelli ridotti di HRV sono associati a una maggiore vulnerabilità psicologica e a esaurimento emotivo.

    La psiconeuroimmunologia, infine, ha dimostrato come lo stress moduli le risposte immunitarie: la presenza prolungata di citochine infiammatorie può facilitare l’insorgenza di malattie croniche, mentre interventi psicologici adeguati — in particolare la terapia cognitivo-comportamentale — hanno mostrato efficacia nel ridurre questi marker biologici e migliorare la qualità della vita.

    In definitiva, comprendere lo stress nella sua evoluzione storica e scientifica significa riconoscerne la natura multidimensionale, che richiede un approccio clinico integrato e personalizzato, capace di coniugare diagnosi psicologica, educazione emotiva e promozione del benessere mentale.

  • Cherofobia: il timore della felicità nel limbo della vita quotidiana

    Cherofobia: il timore della felicità nel limbo della vita quotidiana

    In un’epoca in cui si celebra la felicità come obiettivo supremo, cresce silenziosamente una generazione che non sa più cosa significhi essere felici, o che teme di esserlo. La cherofobia, termine derivante dal greco chairo (rallegrarsi) e phobos (paura), indica una condizione psicologica ancora poco esplorata, ma sempre più presente nei racconti clinici: il timore, spesso inconscio, di provare emozioni positive, perché associate al rischio, alla perdita o al fallimento. Un limbo esistenziale che paralizza la possibilità di sentire.

    Chi soffre di cherofobia non è necessariamente depresso nel senso clinico del termine, ma si trova sospeso in uno stato di anestesia affettiva, in cui la serenità è vissuta come sospetta e la quotidianità si colora di una tonalità grigia, priva di slanci, ma anche priva di autentico dolore. Come nota la psicologa Lucy Foulkes (University of Oxford), in Losing Our Minds (2021), molti giovani adulti oggi si muovono dentro una zona emotiva neutra, quasi dissociativa, dove la felicità non è negata, ma evitata. Ciò avviene spesso per ragioni apprese: da un lato vi è una cultura che ipervaluta la prestazione e considera la leggerezza come un disvalore; dall’altro, esperienze infantili di instabilità emotiva possono portare il soggetto a legare la gioia a un imminente trauma, come se ogni felicità portasse in sé il seme della sua fine.

    La cherofobia non è solo una reazione individuale, ma un sintomo culturale. In un mondo iperproduttivo e cronicamente connesso, la felicità è diventata un compito da raggiungere, una prestazione da dimostrare. Lo stress cronico, la pressione sociale e il confronto digitale costante alimentano una condizione di happiness anxiety, come definita in una recente ricerca pubblicata nel Journal of Affective Disorders (2022), in cui il 37% dei soggetti under 35 intervistati riferisce di provare disagio di fronte a momenti di apparente felicità. Questo disagio non è legato alla tristezza, ma all’incapacità di sostare nel piacere.

    La neuroscienza offre un ulteriore sguardo: studi di neuroimaging condotti presso l’Università di Tokyo (2019) mostrano che, in soggetti con alti livelli di cherofobia, si osserva una minore attivazione dell’area ventromediale prefrontale e dell’amigdala quando esposti a stimoli positivi. Ciò suggerisce una disregolazione della risposta dopaminergica, con una tendenza a “disinnescare” l’emozione prima che possa stabilizzarsi. In parole semplici: il cervello impara a non fidarsi della felicità.

    Il filosofo e psichiatra Viktor Frankl, sopravvissuto ai campi di sterminio e padre della logoterapia, sosteneva che la felicità non va cercata, ma segue come conseguenza di una vita dotata di significato. Eppure oggi il significato sembra latitare, sommerso da urgenze, impegni e richieste. La perdita di rituali, la dissoluzione delle comunità e la virtualizzazione del legame sociale rendono la quotidianità un tempo non abitato, ma subito.

    La psicologia contemporanea suggerisce un ritorno alla microesperienza: imparare a riconoscere le piccole gioie, riabilitare la lentezza, riappropriarsi del silenzio. Come afferma il terapeuta statunitense Jonah Paquette nel volume Real Happiness (2020), occorre educare il sistema nervoso alla gratitudine e alla presenza, allenando il cervello a tollerare anche la calma, non solo l’ansia. Il benessere non è l’euforia, ma la disponibilità a ricevere senza attaccarsi, a sentire senza difendersi, a vivere senza correre.

    Nella dimensione clinica, la cherofobia si lega spesso a tratti ansiosi, a storie di controllo affettivo o a dinamiche di attaccamento disfunzionale. Il lavoro terapeutico punta non a “curare” la felicità, ma a renderla accessibile, sostenibile, non colpevole. In un mondo dove la felicità è slogan, chi la teme non è malato, ma forse semplicemente stanco di inseguire un ideale irraggiungibile. La vera sfida educativa e terapeutica, oggi, è re-imparare a sostare nel quotidiano, a non temere la luce dopo tanta ombra, a non sabotarci proprio quando la vita ci accarezza.

  • Disregolazione emotiva nei bambini

    Disregolazione emotiva nei bambini

    La disregolazione emotiva nei bambini rappresenta oggi una delle principali sfide educative e cliniche che genitori, insegnanti e professionisti della salute mentale si trovano ad affrontare. Non si tratta semplicemente di capricci o di un temperamento difficile, ma di una condizione complessa in cui il bambino manifesta un’incapacità persistente di modulare in modo adeguato le proprie emozioni, con ripercussioni significative sul comportamento, sull’apprendimento e sulla qualità delle relazioni.

    In un mondo sempre più stimolante e talvolta disorientante, il bisogno di un’alfabetizzazione emotiva precoce non è mai stato così urgente. Studi recenti, come quello pubblicato sull’International Journal of Environmental Research and Public Health (2020), hanno evidenziato che circa il 30% dei bambini in età prescolare manifesta segnali di disregolazione emotiva che, se non riconosciuti e trattati, possono evolvere in disturbi più strutturati nell’adolescenza, come il disturbo oppositivo-provocatorio o i disturbi d’ansia. Un’ulteriore indagine del Child Mind Institute (2023) sottolinea come la disregolazione emotiva sia frequentemente associata a esperienze di stress cronico, stili educativi incoerenti o traumi non elaborati, e che essa sia spesso sottostimata nei contesti scolastici. Dal punto di vista neurobiologico, emerge un coinvolgimento diretto della corteccia prefrontale, ancora in fase di sviluppo nei primi anni di vita, e del sistema limbico, responsabile della reattività emotiva: una combinazione che rende i bambini particolarmente vulnerabili a sbalzi d’umore, scatti di rabbia o reazioni sproporzionate, apparentemente ingiustificate. Tuttavia, la disregolazione non è solo un sintomo da contenere, ma un messaggio da decifrare, un segnale del bisogno urgente di contenimento, guida e presenza empatica.

    La prospettiva pedagogica invita a non reprimere, ma a tradurre l’emozione in parola, a dare un nome all’impulso, a costruire nel bambino – anche attraverso il gioco simbolico, la narrazione e l’ascolto – una grammatica interiore capace di trasformare il caos emotivo in narrazione coerente di sé. Come afferma il neuropsichiatra infantile Daniel J. Siegel, la co-regolazione emotiva da parte dell’adulto è la base su cui si costruisce l’autoregolazione del bambino: non si può pretendere equilibrio emotivo da chi ancora non lo ha mai sperimentato.

    In un’epoca in cui si parla molto di competenze cognitive e prestazione scolastica, questo tipo di fragilità, silenziosa e trasversale, rischia di passare inosservata, con esiti che possono protrarsi nell’adolescenza e oltre. Investire in prevenzione, formazione e ascolto significa non solo contenere l’insorgenza di patologie, ma coltivare il benessere psichico e relazionale delle future generazioni.

  • Flow: il segreto della felicità attraverso l’esperienza ottimale.

    Flow: il segreto della felicità attraverso l’esperienza ottimale.

    Flow. Psicologia dell’esperienza ottimale” è il libro più famoso ed influente dello psicologo ungherese Mihaly Csikszentmihalyi. Pubblicato nel 1990, il libro indaga lo stato di coscienza in cui siamo totalmente immersi in un’attività. La teoria del flow di Csikszentmihalyi ha avuto un influenza enorme in molteplici settori di attività: dalla psicologia allo sport passando per la crescita personale. Essa è, infatti, citata in centinaia di libri che trattano di psicologia positiva, felicità e sviluppo personale.

    L’autore, uno dei più influenti psicologi del XX secolo, esplora come questo stato possa migliorare la qualità della vita, dalla creatività alla produttività, fino alla realizzazione personale. La narrazione si basa su decenni di ricerche scientifiche e su numerosi casi studio che dimostrano come il flusso mentale sia un ingrediente chiave per il successo e la crescita personale.

    La teoria di Csíkszentmihàlyi non si limita alla dimensione individuale, ma offre spunti applicabili in ambiti come il lavoro, l’educazione e lo sport, fornendo strumenti pratici per trasformare le attività quotidiane in esperienze significative. La struttura del libro è chiara e ben articolata, rendendo accessibili concetti complessi anche a chi non ha una formazione specifica in psicologia.

    Il linguaggio è preciso e rigoroso, ma al tempo stesso coinvolgente, il che rende la lettura scorrevole senza sacrificare l’approfondimento teorico. Un motivo per leggere questo libro è la sua capacità di offrire una guida concreta per chi cerca un metodo scientifico per raggiungere uno stato di benessere autentico. In un’epoca segnata da distrazioni continue e livelli di stress elevati, il concetto di flow rappresenta una strategia efficace per aumentare la concentrazione e migliorare la qualità della vita.

    Per chi lavora nel campo della psicologia o dell’educazione, Flow è un testo imprescindibile che fornisce modelli applicabili al miglioramento delle prestazioni e alla gestione delle emozioni.

  • Bambini plusdotati: come riconoscerli e favorire il loro talento.

    Bambini plusdotati: come riconoscerli e favorire il loro talento.

    La plusdotazione, detta anche giftedness, è un’abilità nella quale un soggetto possiede capacità intellettive, creative o artistiche nettamente superiori al livello medio. Secondo le “Linee Guida per la Valutazione della Plusdotazione in Età Evolutiva” del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi (CNOP), questa qualità si riscontra in una forbice tra il 2 e il 4% dei bambini ed adolescenti.

    I bambini più dotati spesso mostrano caratteristiche distintive come un’inaspettata curiosità, un’agilità nel processo d’acquisizione delle informazioni ed un pensiero diversivo ed originale. Inoltre, possono manifestare un’inaspettata sensibilità ed essere introversi. Si deve notare che, pur mostrando capacità cognitive alte, tali bambini possono vivere un’inaspettata dissincronia nello sviluppo emotivo e relazionale.

    La definizione di plusdotazione prende forma in base al quoziente di intelligenza (QI) che deve essere di 130 o superiore, e ad aspetti multifattoriali che prendono in considerazione un’ampia varietà di doti, come le competenza linguistiche, matematiche, spaziali e visive, musicali e interpersonali. I bambini dotati differiscono dai loro coetanei in modi diversi dalla sola abilità intellettuale.

    Nonostante le loro straordinarie capacità, i bambini plusdotati possono incontrare difficoltà nell’ambiente scolastico tradizionale. La mancanza di stimoli adeguati può provocare noia e disinteresse, aumentando il rischio di underachievement, ovvero prestazioni inferiori alle loro reali potenzialità. Per questo motivo, è fondamentale che le scuole adottino strategie educative personalizzate. Come sottolineato dall’Istituto Psicoterapie, la plusdotazione non è un disturbo, ma un modo diverso di esprimere l’intelligenza, che richiede un approccio educativo su misura. In Italia, il Ministero dell’Istruzione ha riconosciuto gli studenti plusdotati tra quelli con Bisogni Educativi Speciali (BES), evidenziando la necessità di una didattica personalizzata per favorire il loro pieno sviluppo.

    La plusdotazione è un aspetto complesso che richiede un approccio educativo speciale ed esige un’adeguata comprensione. Riconoscerli e aiutarli in modo appropriato è fondamentale per offrire loro un’esperienza di crescita equilibrata e appagante, consentendo di valorizzare al meglio le loro potenzialità.

  • Un viaggio psicoanalitico attraverso le generazioni 

    Un viaggio psicoanalitico attraverso le generazioni 

    Un viaggio psicoanalitico attraverso le intricate mappe dell’inconscio familiare. Con una prosa che oscilla tra la rigorosità scientifica e la delicatezza poetica, l’autrice ci conduce attraverso le storie di pazienti che incarnano il peso di traumi transgenerazionali.

    Nel suo saggio L’eredità emotiva, Galit Atlas prende per mano il lettore e lo conduce in un viaggio rivelatorio nel cuore del trauma transgenerazionale, mostrando come le esperienze non elaborate dei nostri antenati continuino a plasmare le nostre emozioni, le nostre relazioni, i nostri modi di essere. Attraverso una narrazione che intreccia psicoanalisi, neuroscienze e storie di vita reale, l’autrice svela la presenza di fantasmi emotivi, tracce silenziose di sofferenze mai espresse che si trasmettono di generazione in generazione, radicandosi nell’inconscio familiare.

    Attraverso il concetto dei fantasmi emotivi, l’autrice svela come le memorie traumatiche si annidino nelle pieghe dell’inconscio familiare, generando ansie, schemi ripetitivi e blocchi esistenziali.

    La psicoanalista e docente della New York University costruisce una narrazione intensa che intreccia casi clinici, riflessioni personali e riferimenti alla psicoanalisi contemporanea, delineando un quadro suggestivo del peso invisibile che ognuno di noi porta con sé.

    L’approccio terapeutico proposto, radicato nelle teorie di Freud, Ferenczi e Winnicott e nelle più recenti scoperte delle neuroscienze, offre strumenti per riconoscere e liberarsi dalle catene emotive del passato, aprendo la strada a una maggiore consapevolezza di sé. Il libro è strutturato in una serie di casi clinici, ognuno dei quali funge da lente d’ingrandimento per esplorare un aspetto specifico dell’eredità emotiva. Il linguaggio evocativo e la capacità di Atlas di restituire la complessità delle emozioni rendono il libro non solo un testo di riferimento per specialisti, ma anche una lettura illuminante per chiunque desideri esplorare il legame tra psicologia e memoria familiare.

    Leggere L’eredità emotiva significa acquisire una consapevolezza nuova sulla propria storia, comprendere come ansie, paure e schemi relazionali non siano soltanto il prodotto delle nostre esperienze dirette, ma il riflesso di un passato che ci abita. L’approccio di Atlas, fondato su una solida base teorica e arricchito da casi clinici straordinariamente toccanti, permette di riconoscere e affrontare il peso emotivo delle generazioni precedenti, trasformandolo in una risorsa anziché in un limite.

    Questo libro è indispensabile per chiunque voglia esplorare il proprio mondo interiore con uno sguardo più ampio, per chi si interroga sulle dinamiche relazionali che si ripetono inspiegabilmente e per chi sente il bisogno di liberarsi da un’eredità emotiva che non gli appartiene. L’autrice fornisce strumenti preziosi per elaborare il dolore ereditato, spezzando quei legami invisibili che ci ancorano a un passato non vissuto direttamente ma profondamente inciso nella nostra psiche.


  • “L’invenzione di noi due”: la poesia delle fratture amorose

    “L’invenzione di noi due”: la poesia delle fratture amorose

    Matteo Bussola ha il grande dono di “violare” con estrema delicatezza i tratti più profondi delle nostre vite. Con L’invenzione di noi due, ci regala un romanzo capace di danzare tra il realismo sentimentale e la delicatezza delle parole. È la storia di un amore che sembra andare in frantumi per poi ricomporsi nei silenzi, nelle attese e nelle lettere di un uomo che si smarrisce, si scompone e si ricompone nei silenzi, nelle attese e nelle lettere, ma che non vuole perdere la partita più importante della sua vita.

    Niccolò e Sara sono sposati da anni, ma il loro rapporto è ormai un luogo di distanza, di silenzi e praterie di solitudini. Lui, grafico pubblicitario e scrittore mancato, si aggrappa alle parole per riempire i vuoti. Lei, donna sfuggente e chiusa nel suo mondo di calma apparente sembra essersi smarrita in un mondo interiore impenetrabile.

    Per cercare di ricucire il legame, Niccolò inizia a scriverle lettere firmandole con il nome di un altro uomo: un alter ego che possa ridestare la passione e la complicità perdute. Ma giocare con l’illusione dell’amore significa anche confrontarsi con le sue ombre: può una finzione risvegliare un sentimento autentico? O è solo un modo per prolungarne l’agonia?

    La prosa di Bussola è un soffio lieve e tagliente insieme: precisa nel descrivere il dolore, delicata nel restituire la speranza. Le parole scorrono come acquerelli su una tela di malinconia, dipingendo il ritratto di un uomo che lotta contro la deriva della propria storia d’amore.

    La narrazione si fa intima, quasi confessionale, con un’alternanza tra presente e passato che costruisce una tensione emotiva crescente. I dialoghi sono schegge di verità quotidiana, mentre le lettere diventano il luogo in cui la finzione si fa più vera della realtà.

    L’invenzione di noi due è un libro che non offre risposte facili, ma lascia al lettore il compito di trovare la sua verità. È una riflessione profonda sulle illusioni necessarie, sulle parole che uniscono e su quelle che allontanano, su ciò che resta di un amore quando il suo fuoco si fa brace. Bussola firma un romanzo capace di commuovere, di ferire e di curare, con la stessa intensità di un abbraccio che arriva quando meno lo si aspetta.