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  • Flow: il segreto della felicità attraverso l’esperienza ottimale.

    Flow: il segreto della felicità attraverso l’esperienza ottimale.

    Flow. Psicologia dell’esperienza ottimale” è il libro più famoso ed influente dello psicologo ungherese Mihaly Csikszentmihalyi. Pubblicato nel 1990, il libro indaga lo stato di coscienza in cui siamo totalmente immersi in un’attività. La teoria del flow di Csikszentmihalyi ha avuto un influenza enorme in molteplici settori di attività: dalla psicologia allo sport passando per la crescita personale. Essa è, infatti, citata in centinaia di libri che trattano di psicologia positiva, felicità e sviluppo personale.

    L’autore, uno dei più influenti psicologi del XX secolo, esplora come questo stato possa migliorare la qualità della vita, dalla creatività alla produttività, fino alla realizzazione personale. La narrazione si basa su decenni di ricerche scientifiche e su numerosi casi studio che dimostrano come il flusso mentale sia un ingrediente chiave per il successo e la crescita personale.

    La teoria di Csíkszentmihàlyi non si limita alla dimensione individuale, ma offre spunti applicabili in ambiti come il lavoro, l’educazione e lo sport, fornendo strumenti pratici per trasformare le attività quotidiane in esperienze significative. La struttura del libro è chiara e ben articolata, rendendo accessibili concetti complessi anche a chi non ha una formazione specifica in psicologia.

    Il linguaggio è preciso e rigoroso, ma al tempo stesso coinvolgente, il che rende la lettura scorrevole senza sacrificare l’approfondimento teorico. Un motivo per leggere questo libro è la sua capacità di offrire una guida concreta per chi cerca un metodo scientifico per raggiungere uno stato di benessere autentico. In un’epoca segnata da distrazioni continue e livelli di stress elevati, il concetto di flow rappresenta una strategia efficace per aumentare la concentrazione e migliorare la qualità della vita.

    Per chi lavora nel campo della psicologia o dell’educazione, Flow è un testo imprescindibile che fornisce modelli applicabili al miglioramento delle prestazioni e alla gestione delle emozioni.

  • Bambini plusdotati: come riconoscerli e favorire il loro talento.

    Bambini plusdotati: come riconoscerli e favorire il loro talento.

    La plusdotazione, detta anche giftedness, è un’abilità nella quale un soggetto possiede capacità intellettive, creative o artistiche nettamente superiori al livello medio. Secondo le “Linee Guida per la Valutazione della Plusdotazione in Età Evolutiva” del Consiglio Nazionale Ordine Psicologi (CNOP), questa qualità si riscontra in una forbice tra il 2 e il 4% dei bambini ed adolescenti.

    I bambini più dotati spesso mostrano caratteristiche distintive come un’inaspettata curiosità, un’agilità nel processo d’acquisizione delle informazioni ed un pensiero diversivo ed originale. Inoltre, possono manifestare un’inaspettata sensibilità ed essere introversi. Si deve notare che, pur mostrando capacità cognitive alte, tali bambini possono vivere un’inaspettata dissincronia nello sviluppo emotivo e relazionale.

    La definizione di plusdotazione prende forma in base al quoziente di intelligenza (QI) che deve essere di 130 o superiore, e ad aspetti multifattoriali che prendono in considerazione un’ampia varietà di doti, come le competenza linguistiche, matematiche, spaziali e visive, musicali e interpersonali. I bambini dotati differiscono dai loro coetanei in modi diversi dalla sola abilità intellettuale.

    Nonostante le loro straordinarie capacità, i bambini plusdotati possono incontrare difficoltà nell’ambiente scolastico tradizionale. La mancanza di stimoli adeguati può provocare noia e disinteresse, aumentando il rischio di underachievement, ovvero prestazioni inferiori alle loro reali potenzialità. Per questo motivo, è fondamentale che le scuole adottino strategie educative personalizzate. Come sottolineato dall’Istituto Psicoterapie, la plusdotazione non è un disturbo, ma un modo diverso di esprimere l’intelligenza, che richiede un approccio educativo su misura. In Italia, il Ministero dell’Istruzione ha riconosciuto gli studenti plusdotati tra quelli con Bisogni Educativi Speciali (BES), evidenziando la necessità di una didattica personalizzata per favorire il loro pieno sviluppo.

    La plusdotazione è un aspetto complesso che richiede un approccio educativo speciale ed esige un’adeguata comprensione. Riconoscerli e aiutarli in modo appropriato è fondamentale per offrire loro un’esperienza di crescita equilibrata e appagante, consentendo di valorizzare al meglio le loro potenzialità.

  • Un viaggio psicoanalitico attraverso le generazioni 

    Un viaggio psicoanalitico attraverso le generazioni 

    Un viaggio psicoanalitico attraverso le intricate mappe dell’inconscio familiare. Con una prosa che oscilla tra la rigorosità scientifica e la delicatezza poetica, l’autrice ci conduce attraverso le storie di pazienti che incarnano il peso di traumi transgenerazionali.

    Nel suo saggio L’eredità emotiva, Galit Atlas prende per mano il lettore e lo conduce in un viaggio rivelatorio nel cuore del trauma transgenerazionale, mostrando come le esperienze non elaborate dei nostri antenati continuino a plasmare le nostre emozioni, le nostre relazioni, i nostri modi di essere. Attraverso una narrazione che intreccia psicoanalisi, neuroscienze e storie di vita reale, l’autrice svela la presenza di fantasmi emotivi, tracce silenziose di sofferenze mai espresse che si trasmettono di generazione in generazione, radicandosi nell’inconscio familiare.

    Attraverso il concetto dei fantasmi emotivi, l’autrice svela come le memorie traumatiche si annidino nelle pieghe dell’inconscio familiare, generando ansie, schemi ripetitivi e blocchi esistenziali.

    La psicoanalista e docente della New York University costruisce una narrazione intensa che intreccia casi clinici, riflessioni personali e riferimenti alla psicoanalisi contemporanea, delineando un quadro suggestivo del peso invisibile che ognuno di noi porta con sé.

    L’approccio terapeutico proposto, radicato nelle teorie di Freud, Ferenczi e Winnicott e nelle più recenti scoperte delle neuroscienze, offre strumenti per riconoscere e liberarsi dalle catene emotive del passato, aprendo la strada a una maggiore consapevolezza di sé. Il libro è strutturato in una serie di casi clinici, ognuno dei quali funge da lente d’ingrandimento per esplorare un aspetto specifico dell’eredità emotiva. Il linguaggio evocativo e la capacità di Atlas di restituire la complessità delle emozioni rendono il libro non solo un testo di riferimento per specialisti, ma anche una lettura illuminante per chiunque desideri esplorare il legame tra psicologia e memoria familiare.

    Leggere L’eredità emotiva significa acquisire una consapevolezza nuova sulla propria storia, comprendere come ansie, paure e schemi relazionali non siano soltanto il prodotto delle nostre esperienze dirette, ma il riflesso di un passato che ci abita. L’approccio di Atlas, fondato su una solida base teorica e arricchito da casi clinici straordinariamente toccanti, permette di riconoscere e affrontare il peso emotivo delle generazioni precedenti, trasformandolo in una risorsa anziché in un limite.

    Questo libro è indispensabile per chiunque voglia esplorare il proprio mondo interiore con uno sguardo più ampio, per chi si interroga sulle dinamiche relazionali che si ripetono inspiegabilmente e per chi sente il bisogno di liberarsi da un’eredità emotiva che non gli appartiene. L’autrice fornisce strumenti preziosi per elaborare il dolore ereditato, spezzando quei legami invisibili che ci ancorano a un passato non vissuto direttamente ma profondamente inciso nella nostra psiche.


  • “L’invenzione di noi due”: la poesia delle fratture amorose

    “L’invenzione di noi due”: la poesia delle fratture amorose

    Matteo Bussola ha il grande dono di “violare” con estrema delicatezza i tratti più profondi delle nostre vite. Con L’invenzione di noi due, ci regala un romanzo capace di danzare tra il realismo sentimentale e la delicatezza delle parole. È la storia di un amore che sembra andare in frantumi per poi ricomporsi nei silenzi, nelle attese e nelle lettere di un uomo che si smarrisce, si scompone e si ricompone nei silenzi, nelle attese e nelle lettere, ma che non vuole perdere la partita più importante della sua vita.

    Niccolò e Sara sono sposati da anni, ma il loro rapporto è ormai un luogo di distanza, di silenzi e praterie di solitudini. Lui, grafico pubblicitario e scrittore mancato, si aggrappa alle parole per riempire i vuoti. Lei, donna sfuggente e chiusa nel suo mondo di calma apparente sembra essersi smarrita in un mondo interiore impenetrabile.

    Per cercare di ricucire il legame, Niccolò inizia a scriverle lettere firmandole con il nome di un altro uomo: un alter ego che possa ridestare la passione e la complicità perdute. Ma giocare con l’illusione dell’amore significa anche confrontarsi con le sue ombre: può una finzione risvegliare un sentimento autentico? O è solo un modo per prolungarne l’agonia?

    La prosa di Bussola è un soffio lieve e tagliente insieme: precisa nel descrivere il dolore, delicata nel restituire la speranza. Le parole scorrono come acquerelli su una tela di malinconia, dipingendo il ritratto di un uomo che lotta contro la deriva della propria storia d’amore.

    La narrazione si fa intima, quasi confessionale, con un’alternanza tra presente e passato che costruisce una tensione emotiva crescente. I dialoghi sono schegge di verità quotidiana, mentre le lettere diventano il luogo in cui la finzione si fa più vera della realtà.

    L’invenzione di noi due è un libro che non offre risposte facili, ma lascia al lettore il compito di trovare la sua verità. È una riflessione profonda sulle illusioni necessarie, sulle parole che uniscono e su quelle che allontanano, su ciò che resta di un amore quando il suo fuoco si fa brace. Bussola firma un romanzo capace di commuovere, di ferire e di curare, con la stessa intensità di un abbraccio che arriva quando meno lo si aspetta.

  • Un padre, un figlio e l’anoressia…

    Un padre, un figlio e l’anoressia…

    Anche stavolta Matteo Bussola si è superato. Nell’ultimo lavoro La neve in fondo al mare, si percepisce la capacità di far vibrare l’anima del lettore attraverso trame che si collocano tra la narrativa contemporanea più raffinata e la riflessione esistenziale più profonda in un movimento sincrono tra le pieghe delle relazioni umane, della memoria e della perdita.

    Il racconto, rimandando al paradosso del processo adolescenziale consente di identificarsi, alternativamente, con adolescenti alle prese con la costruzione della propria identità e con i loro genitori, che cercano faticosamente una nuova grammatica comunicativa capace di arrivare al cuore di una pragmatica comportamentale che spesso lascia spiazzati.


    Ogni pagina è una finestra aperta sull’anima dei protagonisti, sulle loro paure e sui loro sogni che regalano al lettore una profonda immedesimazione. Così parla d’amore, di distanze affettive, di ciò che si perde e di ciò che resta nel fluire del tempo. C’è una forte attenzione ai dettagli, ai gesti, a quegli istanti che, seppur fugaci, racchiudono l’essenza della vita di un genitore.

    Son tematiche esistenziali complesse che Bussola affronta senza mai cadere nella retorica ma con una capacità di accarezzare le emozioni del lettore con la grazia e la delicatezza di fiocchi di neve che si poggiano al suolo. confermandosi un maestro nell’arte di raccontare la vita nelle sue sfumature più intime e universali.

    È un libro che consiglio perché dietro ogni riga c’è la capacità di lasciare un’impronta convinta che apre alla speranza perché l’amore porta sempre con sé una rinascita.

  • Un romanzo tra mistero, neurodiversità e crescita personale

    Un romanzo tra mistero, neurodiversità e crescita personale

    Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte (The Curious Incident of the Dog in the Night-Time) è un’opera singolare e innovativa da Mark Haddon. Il romanzo, vincitore di numerosi premi, si distingue per la sua narrazione atipica e per la straordinaria prospettiva del protagonista, che offre al lettore un accesso privilegiato a una mente che opera secondo logiche peculiari e affascinanti.

    Christopher Boone è un quindicenne dalla spiccata intelligenza logico-matematica, ma con un’evidente difficoltà nel comprendere le dinamiche sociali ed emotive degli altri.Sebbene il testo non menzioni esplicitamente alcuna diagnosi, le caratteristiche di Christopher rimandano a quelle della sindrome di Asperger, una forma dello spettro autistico.

    Il suo rapporto con il mondo è problematico: odia essere toccato, detesta il giallo e marrone, si arrabbia se viene scombinato il suo ordine. Non riesce neppure a interpretare l’espressione del viso delle persone. Haddon riesce a tratteggiare con rara sensibilità la visione del mondo di chi interpreta la realtà secondo schemi assoluti, privi di sfumature emotive. Vive con il padre a Swindon, in Inghilterra, e un giorno si imbatte in un macabro mistero: Wellington, il cane della vicina, è stato ucciso con un forcone.

    Ispirato dal suo eroe letterario, Sherlock Holmes, Christopher decide di indagare, annotando ogni dettaglio in un quaderno e applicando la sua rigorosa razionalità per ricostruire l’accaduto. Tuttavia, ciò che inizialmente sembra un semplice enigma poliziesco si trasforma presto in un viaggio di crescita personale, portandolo a svelare segreti inconfessabili che cambieranno per sempre la sua percezione della famiglia e del mondo circostante.

    Il romanzo è raccontato in prima persona, consentendo al lettore di entrare nella mente di Christopher e di osservare il mondo attraverso il suo peculiare modo di ragionare. La narrazione è caratterizzata da frasi brevi, descrizioni minuziose e una logica inflessibile, riflesso della modalità con cui il protagonista elabora la realtà.

    Haddon arricchisce il testo con grafici, schemi e formule matematiche, strumenti attraverso i quali Christopher cerca di interpretare l’ambiente circostante. Questo espediente non è un semplice orpello stilistico, ma un vero e proprio veicolo di immedesimazione, che permette al lettore di comprendere, almeno in parte, il funzionamento di una mente diversa da quella neurotipica.

  • Storia dell’autismo: evoluzione scientifica

    Storia dell’autismo: evoluzione scientifica

    Il termine “autismo” ha una storia relativamente recente, ma i comportamenti autistici sono stati descritti nei secoli passati. Alcuni studiosi ritengono che casi di autismo siano presenti in resoconti storici di individui con difficoltà nella comunicazione e nell’interazione sociale. Tuttavia, il primo uso scientifico del termine risale all’inizio del XX secolo.

    Il termine “autismo” fu coniato dallo psichiatra svizzero Eugen Bleuler nel 1911, per descrivere un sintomo della schizofrenia caratterizzato da un distacco dalla realtà e un’intensa introspezione. Tuttavia, la definizione moderna dell’autismo inizia negli anni ‘40 grazie agli studi di Leo Kanner e Hans Asperger.

    Nel 1943, il pediatra e psichiatra americano Leo Kanner pubblicò un articolo fondamentale intitolato Autistic Disturbances of Affective Contact. In esso, descrisse 11 bambini con un comportamento insolito: difficoltà nella comunicazione, ripetitività nei gesti e nelle azioni, e un’apparente indifferenza verso gli altri. Kanner coniò il termine autismo infantile precoce, sottolineando che questi bambini sembravano vivere in un mondo interiore separato.Kanner fu il primo a distinguere l’autismo dalla schizofrenia, sottolineando che i sintomi autistici erano presenti sin dalla prima infanzia e non erano dovuti a una regressione. Tuttavia, inizialmente attribuì la causa dell’autismo a una mancanza di calore materno, una teoria successivamente confutata.

    Nel 1944, il pediatra austriaco Hans Asperger pubblicò uno studio su un gruppo di bambini con caratteristiche simili a quelle descritte da Kanner, ma con una maggiore capacità di linguaggio e di adattamento sociale. Asperger notò che questi individui, pur avendo difficoltà nella comunicazione e nell’interazione sociale, spesso possedevano abilità eccezionali in aree specifiche, come la matematica o la memoria.

    A differenza di Kanner, Asperger suggerì che questi tratti potessero rappresentare una variante della neurodiversità, piuttosto che una patologia. La “Sindrome di Asperger” è rimasta una diagnosi distinta fino al 2013, quando è stata inglobata nel Disturbo dello Spettro Autistico (DSA) nel DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali).

    Negli anni ‘50 e ‘60, la teoria della “madre frigorifero” proposta dallo psicoanalista Bruno Bettelheim guadagnò popolarità. Bettelheim suggeriva che l’autismo fosse causato da una madre fredda e distante. Questa teoria fu dannosa per molte famiglie e portò a inutili sensi di colpa nei genitori. Fortunatamente, con il progresso delle neuroscienze e della genetica, questa ipotesi fu abbandonata negli anni ‘70.

    A partire dagli anni ‘80, la ricerca sull’autismo si è spostata su basi scientifiche più solide. Gli studi di Lorna Winge e Uta Frith hanno contribuito a definire l’autismo come uno spettro di condizioni con diversi livelli di gravità. L’autismo non era più visto come una singola patologia, ma come un insieme di caratteristiche che potevano manifestarsi in modi diversi da persona a persona.

    Negli anni ‘90, ricerche di Simon Baron-Cohen hanno portato alla formulazione della teoria della “mente cieca” (theory of mind deficit), secondo cui le persone autistiche hanno difficoltà a comprendere gli stati mentali altrui. Parallelamente, studi genetici e neurobiologici hanno dimostrato che l’autismo è una condizione neurobiologica con una forte componente genetica, non causata da fattori emotivi o educativi.

    Negli anni 2000, si è verificato un aumento delle diagnosi di autismo, grazie a una maggiore conoscenza del disturbo e a criteri diagnostici più inclusivi. Oggi si parla di Disturbo dello Spettro Autistico (DSA), che comprende diverse forme, dalle più lievi (ex Sindrome di Asperger) a quelle più gravi che richiedono un supporto costante.

    Inoltre, il movimento della neurodiversità ha promosso una visione dell’autismo non come una malattia da curare, ma come una diversa modalità di funzionamento cerebrale, con punti di forza e debolezze uniche.

    La storia dell’autismo è passata da fraintendimenti e stereotipi a una comprensione più scientifica e inclusiva. Oggi, grazie alla ricerca e alla sensibilizzazione, le persone autistiche hanno maggiori opportunità di essere riconosciute, comprese e supportate nella società.

  • “Gli sdraiati”: critica alla gioventù o incomprensione generazionale?

    “Gli sdraiati”: critica alla gioventù o incomprensione generazionale?

    Michele Serra, con Gli sdraiati, compone un monologo interiore che si fa affresco generazionale, un lamento paterno che rasenta il soliloquio dostoevskiano, un’analisi pungente e disillusa della distanza siderale tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti. Ma, in questo tentativo di comprendere e, forse, redimere la gioventù mollemente adagiata sul divano dell’apatia contemporanea, il testo si avviluppa in una narrazione che, sebbene affilata e ironica, rischia di scivolare nel moralismo e in un’epica nostalgica che ha il sapore del rimpianto anziché della comprensione.

    Serra scrive con la penna acuminata del giornalista di lungo corso, con la sensibilità del polemista raffinato e con il guizzo dello scrittore che sa mescolare lirismo e sarcasmo. Tuttavia, il suo ritratto della giovinezza contemporanea si appiattisce su un’immagine quasi caricaturale: i giovani come “sdraiati”, pigri, disinteressati, avulsi dalla realtà e ripiegati in un solipsismo tecnologico, incapaci di reggere lo sguardo del mondo se non attraverso lo schermo di uno smartphone.

    Eppure, questa rappresentazione sembra incagliarsi in una dicotomia semplicistica: il padre moralizzatore e il figlio svogliato, l’ordine e il caos, la cultura e il nulla. Se l’ironia, in alcuni passaggi, riesce a illuminare con lampi fulminei l’incomprensione tra le generazioni, in altri rischia di diventare un’invettiva monocorde, una lamentazione che rimane prigioniera del proprio disincanto. L’assenza di un vero dialogo tra padre e figlio – dove il primo monologa e il secondo resta sullo sfondo come un’ombra sfocata – non fa che amplificare questa sensazione di unidirezionalità narrativa.

    Ma i giovani di Serra sono davvero “sdraiati” nel senso di inerti? O piuttosto si muovono lungo traiettorie che sfuggono alla comprensione di chi li osserva con lo sguardo rivolto all’indietro? L’autore pare dimenticare che il suo stesso sguardo adulto è inevitabilmente condizionato da una nostalgia di tempi andati, da un’idealizzazione dell’adolescenza vissuta senza tecnologia, fatta di corse in bicicletta e gesti eroici che oggi sembrano mancare.

    Eppure, le nuove generazioni si muovono, eccome: esplorano, si informano, creano, reinventano modi di pensare e di esistere che non possono essere misurati con il metro delle generazioni precedenti. L’idea che il loro rapporto con il digitale sia solo una forma di estraniazione dalla realtà è una lettura parziale: il mondo virtuale è oggi parte del reale, è un’estensione dell’identità, un terreno di sperimentazione esistenziale e culturale che non può essere liquidato con un’alzata di spalle.

    A distanza di anni dalla pubblicazione di Gli sdraiati, il mondo è cambiato in modi che lo stesso Serra forse non avrebbe potuto prevedere. I giovani di oggi sono sopravvissuti a pandemie, crisi economiche, mutamenti climatici e guerre digitali di narrazione. Sono cresciuti in un contesto di insicurezza e trasformazione, in cui il concetto stesso di stabilità – lavorativa, affettiva, sociale – è stato eroso dalle sabbie mobili della post-modernità. Se prima potevano sembrare sdraiati, oggi molti di loro si rivelano resilienti, iperconnessi ma consapevoli, critici, attenti alle questioni globali, protagonisti di movimenti che scuotono le coscienze.

    Il rischio di un libro come Gli sdraiati è, quindi, quello di rimanere ancorato a una visione statica della gioventù, a un paradigma interpretativo che non coglie il movimento profondo che si agita sotto la superficie. La generazione Z e quella che verrà dopo di essa non sono semplicemente distese su un divano: stanno scrivendo la propria storia con un alfabeto nuovo, e il vero compito di un osservatore acuto sarebbe quello di tentare di decifrarlo senza pregiudizi.

    Michele Serra, con la sua prosa raffinata e la sua vena ironica, ha il merito di portare a galla un disagio generazionale che esiste e persiste. Tuttavia, il limite del suo sguardo è quello di trasformare questo disagio in un’immagine immobile, un’istantanea in bianco e nero di un mondo che, invece, si colora di infinite sfumature. Forse il vero dialogo tra generazioni non si gioca nella nostalgia né nel rimprovero, ma nella capacità di ascoltare con mente aperta, di accettare la diversità dei percorsi, di riconoscere che ogni epoca ha i suoi sdraiati e i suoi inquieti esploratori.

  • L’assente: un romanzo sul bullismo che scuote le coscienze

    L’assente: un romanzo sul bullismo che scuote le coscienze

    Il romanzo “L’assente” di Jan de Zanger si presenta come un’opera di rara intensità emotiva e profondità morale, un testo che scava con chirurgica precisione nei recessi della coscienza umana, laddove il senso di colpa e il dolore si annidano, sedimentandosi nel tempo fino a diventare insopportabili.

    La narrazione si muove con uno stile essenziale, quasi lapidario, in cui ogni parola pesa come una condanna e ogni silenzio si fa eco di un tormento mai sopito. Il protagonista, Pieter Vink, rappresenta l’archetipo dell’adulto in fuga dal proprio passato, ma incapace di sottrarsi all’inesorabile richiamo della memoria. L’invito alla celebrazione del centenario della sua vecchia scuola si configura come una trappola dell’anima, un’improvvisa apertura di quel vaso di Pandora che per venticinque anni aveva cercato di sigillare. Il suo disagio è palpabile, le amnesie selettive un grido di autodifesa contro un ricordo che non vuole affiorare, eppure lo sovrasta.

    Il punto nevralgico del romanzo è il banco vuoto di Sigi Boonstra, presenza-assenza che grava sulle coscienze dei compagni di classe come un monito ineluttabile. Sigi, il ragazzo timido, il piccolo genio respinto, il fragile corpo esposto al ludibrio dei bulli, diventa il simbolo dell’ingiustizia taciuta, della violenza normalizzata, del male banale che si consuma nell’indifferenza collettiva. Il suicidio di Sigi, precipitato sotto un treno poco prima dell’esame di maturità, non è un episodio relegabile al passato, bensì una ferita aperta che reclama giustizia. Pieter, con la sua indagine interiore, diviene il testimone involontario di una tragedia che il tempo non ha potuto cancellare.

    L’autore riesce con mirabile maestria a costruire un racconto in cui il lettore si trova costretto a interrogarsi, a prendere posizione, a chiedersi cosa avrebbe fatto al posto dei protagonisti. La sofferenza di Sigi non è narrata con toni melodrammatici, ma con la cruda freddezza di una realtà ineluttabile: un destino scritto nelle dinamiche del branco, nell’assenza di una guida adulta capace di spezzare il ciclo della crudeltà, nell’omertà che trasforma il silenzio in complicità.

    La scelta dell’autore di dare voce non alla vittima, ma ai carnefici e agli spettatori passivi, rende il romanzo ancora più disturbante. Non c’è conforto, non c’è catarsi immediata: la verità emerge a poco a poco, come un corpo trascinato a riva dalle onde. Ed è una verità dolorosa, inaccettabile, che pone ogni lettore di fronte alla propria responsabilità morale.

    Se “L’assente” è un libro che scuote nel profondo, lo si deve anche alla sua natura di specchio della società contemporanea. Il bullismo descritto nelle pagine del romanzo non è relegato a un’epoca passata: al contrario, continua a manifestarsi con spietata attualità nelle scuole di oggi, nei social network, nelle comunità giovanili. Sigi Boonstra è il volto di tutti quei ragazzi che si sono sentiti invisibili, umiliati, respinti fino a perdere il senso della propria esistenza.

    La conclusione del romanzo, con Pieter che finalmente si fa carico del proprio fardello e affronta l’assemblea dei suoi ex compagni, rappresenta una presa di coscienza tardiva, ma necessaria. Non si tratta più di cercare il colpevole, bensì di riconoscere la propria parte di responsabilità, di guardare negli occhi la propria codardia, di smettere di fuggire.

    L’assente” è un’opera che lascia il segno, un libro che merita di essere letto non solo dai ragazzi, ma anche dagli adulti, in particolare da chi ha il compito di educare e proteggere. Perché il vero orrore non risiede solo negli atti di bullismo, ma nel silenzio che li circonda. E ogni assenza pesa, in eterno, sul cuore di chi ha voltato lo sguardo altrove.