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  • Se sbagli non fa niente: un viaggio nell’apprendimento senza paura

    Se sbagli non fa niente: un viaggio nell’apprendimento senza paura

    Il libro che propongo oggi non deve mancare nella libreria di un genitore e di un’insegnante. L’autrice, Daniela Lucangeli, ha il merito di rivoluzionare il concetto di errore nell’apprendimento. Un libro essenziale basato su neuroscienze e didattica emotiva.

    Daniela Lucangeli, esperta di psicologia dello sviluppo e neuroscienze dell’apprendimento, con Se sbagli non fa niente ci accompagna in una riflessione profonda e accessibile sul ruolo dell’errore nel processo educativo. Questo libro non è solo un invito alla resilienza cognitiva, ma una vera e propria rivoluzione nel modo in cui concepiamo la scuola e l’insegnamento.

    Lucangeli parte da un assunto fondamentale: l’errore non è un fallimento, ma un passaggio essenziale dell’apprendimento. L’autrice, attraverso una solida base neuroscientifica, spiega come il cervello elabori le informazioni e come la paura di sbagliare possa inibire l’acquisizione di nuove competenze. La sua argomentazione è chiara e supportata da studi scientifici sulla plasticità neuronale e sul ruolo delle emozioni nell’apprendimento. Il libro ci aiuta a capire che l’errore, quando vissuto senza ansia, diventa un’opportunità di crescita.

    Uno degli aspetti più interessanti è la critica ai metodi educativi tradizionali, spesso basati sulla rigidità del giusto/sbagliato. Lucangeli sottolinea come l’ambiente scolastico debba trasformarsi in un contesto in cui il bambino si senta libero di esplorare, sperimentare e correggersi senza timore di essere giudicato. L’errore non deve essere sanzionato, ma rielaborato per costruire nuove connessioni cognitive.

    Il libro offre spunti concreti per genitori e insegnanti, proponendo strategie per favorire un apprendimento positivo. La chiave sta nel rendere i bambini protagonisti attivi del loro sapere, stimolando la curiosità e il piacere della scoperta. Attraverso racconti ed esempi pratici, Lucangeli dimostra come un’educazione basata sull’accoglienza dell’errore possa portare a risultati sorprendenti in termini di motivazione e autostima.

    Perché leggere Se sbagli non fa niente?

    Perché è un testo che ribalta le convinzioni tradizionali sull’apprendimento e ci offre una prospettiva nuova e illuminante. È una lettura essenziale per chiunque abbia a cuore il benessere educativo e voglia comprendere come rendere la scuola un luogo in cui il fallimento non sia più vissuto con paura, ma con la consapevolezza che ogni errore è un passo in avanti verso la conoscenza.

  • Sovraccarico cognitivo e rendimento scolastico

    Sovraccarico cognitivo e rendimento scolastico

    Il sovraccarico cognitivo rappresenta una sfida significativa nell’era dell’informazione, influenzando vari ambiti della società, inclusa l’istruzione. La teoria del carico cognitivo, sviluppata da John Sweller negli anni ’80, sottolinea l’importanza di strutturare l’apprendimento in modo da rispettare i limiti della memoria di lavoro umana. Un eccesso di informazioni può compromettere la capacità degli studenti di elaborare e memorizzare efficacemente i contenuti, portando a frustrazione e riduzione delle performance accademiche.

    In Italia, l’uso precoce e intensivo di dispositivi digitali tra i giovani è in aumento. Secondo un rapporto di Save the Children, il 43% dei bambini tra i 6 e i 10 anni nel Sud e nelle Isole utilizza uno smartphone quotidianamente. Questa esposizione prolungata può contribuire al sovraccarico cognitivo, interferendo con la capacità di concentrazione e apprendimento. Uno studio condotto dall’Università Milano-Bicocca e SUPSI ha evidenziato una correlazione negativa tra l’uso intensivo dei media digitali e il rendimento scolastico, suggerendo che l’eccesso di stimoli digitali possa compromettere le performance educative

    La scuola italiana si trova quindi ad affrontare la sfida di integrare le tecnologie digitali nell’educazione senza sovraccaricare gli studenti. Nonostante l’adozione di strumenti digitali possa arricchire l’esperienza didattica, è fondamentale bilanciare l’uso della tecnologia con metodi tradizionali di insegnamento. Un approccio equilibrato potrebbe includere la promozione della metacognizione, ovvero la capacità degli studenti di riflettere sul proprio processo di apprendimento, e l’implementazione di pause regolari durante le attività didattiche per prevenire l’affaticamento mentale. Statistiche recenti indicano che il 36% dei lavoratori italiani fatica a disconnettersi dal lavoro a causa del sovraccarico cognitivo, una problematica che si riflette anche nel contesto educativo. La pandemia ha accentuato questo fenomeno, con un aumento significativo del tempo trascorso online sia per motivi professionali che personali. 

    In conclusione, è essenziale che il sistema educativo italiano riconosca e affronti il problema del sovraccarico cognitivo. Ciò implica una progettazione didattica che tenga conto dei limiti cognitivi degli studenti, l’adozione di strategie di insegnamento che promuovano un apprendimento profondo e significativo, e una riflessione critica sull’uso delle tecnologie digitali in aula. Solo attraverso un approccio consapevole e informato sarà possibile garantire un’educazione efficace e sostenibile per le future generazioni.

  • Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Selfie e identità: la riflessione di Giovanni Stanghellini

    Giovanni Stanghellini, filosofo e psichiatra di fama internazionale, è noto per la sua capacità di intrecciare psicopatologia, fenomenologia e antropologia in una riflessione profonda sulla condizione umana. Nel suo libro Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro, pubblicato nel 2017, l’autore esplora le dinamiche dell’identità e della percezione del sé in una società dominata dall’immagine e dalla rappresentazione virtuale. Il tema del selfie, inteso non solo come pratica tecnologica ma come fenomeno esistenziale, diventa il punto di partenza per un’indagine sulla costruzione dell’io attraverso lo sguardo altrui.

    L’opera si configura come un saggio di straordinaria attualità, in cui Stanghellini analizza la necessità dell’essere umano di essere visto e riconosciuto dagli altri, una condizione fondamentale per la formazione della propria identità. Il selfie, in questa prospettiva, non è un mero atto di narcisismo ma il sintomo di un bisogno profondo di conferma e legittimazione. Il libro affronta il tema con un linguaggio che fonde rigore accademico e accessibilità, rendendolo un’opera adatta sia agli studiosi di psicologia e filosofia sia a un pubblico più ampio, interessato a comprendere il peso dello sguardo sociale nella costruzione del sé.

    Il selfie come fenomeno esistenziale: narcisismo o bisogno di riconoscimento?

    Il selfie non è semplicemente un atto estetico o un’esibizione narcisistica, ma un fenomeno esistenziale profondo, strettamente legato alla costruzione dell’identità e al bisogno di riconoscimento. Giovanni Stanghellini analizza il ruolo dello sguardo altrui nella definizione del sé, mostrando come l’immagine che proiettiamo sia parte di un processo di autoaffermazione e di legittimazione sociale.

    L’essere umano è, per sua natura, un animale relazionale, la cui identità si forma attraverso l’interazione con gli altri. La fenomenologia e la psicopatologia ci insegnano che l’identità individuale non è un’entità chiusa e statica, ma una costruzione che avviene nel rapporto con il mondo e con gli altri. Il selfie, in questo contesto, rappresenta un dispositivo attraverso cui cerchiamo di rispondere alla domanda esistenziale “Chi sono io per gli altri?”.

    Il selfie come manifestazione della dialettica tra essere e apparire

    Il problema centrale del selfie risiede nella tensione tra autenticità e rappresentazione. Nell’epoca digitale, il volto non è più solo un riflesso dell’identità, ma un mezzo attraverso cui l’individuo si narra, si ricostruisce e si adatta alle aspettative altrui. Il selfie non è mai un’immagine neutra: ogni scatto è frutto di una selezione, di una posa studiata, di una precisa scelta comunicativa che ha come fine ultimo la validazione sociale.

    Stanghellini evidenzia come, dietro questa pratica, si nasconda un bisogno primordiale di essere visti. Il selfie non è solo un atto individuale, ma un fenomeno collettivo: scattare una foto di sé ha senso solo se esiste uno sguardo altro che la riconosca, la interpreti e la validi. In tal senso, la società digitale amplifica un meccanismo che, seppur presente da sempre nell’essere umano, assume oggi una nuova centralità.

    L’eccessiva ricerca di conferma può però condurre a una dissonanza tra l’immagine rappresentata e l’essenza autentica dell’individuo. La costruzione di un sé socialmente accettabile può diventare un limite, spingendo l’individuo a identificarsi con un’immagine artificiale piuttosto che con la propria interiorità. Questo scollamento tra essere e apparire può generare un profondo senso di vuoto esistenziale, creando dipendenza dalla continua approvazione esterna.

    La fragilità dell’Io nello specchio del selfie

    Dal punto di vista psicologico, il selfie diventa dunque un mezzo di gestione dell’insicurezza esistenziale. L’immagine condivisa diventa una sorta di scudo contro il timore di non essere abbastanza, un tentativo di plasmare la percezione di sé in base al feedback degli altri. In questo senso, il selfie può essere interpretato come una strategia di controllo identitario: attraverso la selezione delle immagini migliori, si costruisce una versione potenziata del sé, con lo scopo di rafforzare la propria autostima e ridurre l’ansia sociale.

    Tuttavia, questa ricerca di validazione esterna può facilmente trasformarsi in un circolo vizioso. Il bisogno costante di like, commenti e conferme diventa una misura del proprio valore, e il rischio è quello di legare la propria autostima a un riscontro effimero e instabile. Qui si inserisce la riflessione di Stanghellini sul selfie come paradosso: se da un lato è un tentativo di autoaffermazione, dall’altro può trasformarsi in una gabbia in cui l’individuo è costretto a reiterare la propria immagine ideale, con il timore costante di non essere all’altezza delle aspettative.

    Conclusione: il selfie come metafora della condizione umana

    Il selfie, nella lettura di Stanghellini, non è soltanto un’icona della società digitale, ma una vera e propria metafora della condizione umana. Esso riflette il desiderio innato di essere riconosciuti, la tensione tra autenticità e costruzione dell’immagine, la necessità di trovare un equilibrio tra il sé interiore e la sua rappresentazione esterna.

    L’opera di Stanghellini ci invita a riflettere sulla natura del nostro rapporto con l’immagine e con l’altro. La nostra identità è sempre il frutto di un’interazione, di uno scambio, di uno sguardo che ci restituisce chi siamo. Tuttavia, in un’epoca in cui la visibilità sembra essere diventata sinonimo di esistenza, è fondamentale interrogarsi su quanto di noi stessi stiamo sacrificando sull’altare della rappresentazione.

    Il selfie può essere uno strumento di espressione, ma anche una trappola. La sfida, allora, è imparare a usarlo senza smarrire la propria autenticità, a cercare il riconoscimento senza perdere il senso di sé, a guardarsi nello specchio digitale senza dimenticare che la vera essenza di un individuo non può mai ridursi a un’immagine.

  • San Valentino: il patrono degli innamorati

    San Valentino: il patrono degli innamorati

    L’origine della festa di San Valentino si perde in un intreccio di riti antichi e tradizioni che hanno segnato la storia dell’umanità, rivelando un percorso che unisce il fervore delle celebrazioni pagane e la profondità del simbolismo cristiano. Nella Roma antica, la Lupercalia veniva celebrata con una ritualità quasi mistica, un rito di purificazione e fertilità che apriva le porte alla rinascita della natura e al rinnovamento dell’anima. I Lupercàli (Lupercalia in latino) erano un’antica festività romana, celebrata nei giorni nefasti di febbraio, mese tradizionalmente dedicato alla purificazione. Il rito si svolgeva dal 13 al 15 febbraio in onore del dio Fauno.

    Secondo un’altra interpretazione, avanzata dallo storico Dionigi di Alicarnasso, i Lupercalia commemoravano il leggendario allattamento dei gemelli Romolo e Remo da parte di una lupa che aveva appena partorito. Un resoconto dettagliato di questa festività si trova nelle Vite parallele di Plutarco. Le celebrazioni si svolgevano nella grotta chiamata Lupercale, situata sul Palatino, dove, secondo la tradizione, Romolo e Remo sarebbero stati allevati dalla lupa prima di fondare Roma.

    Con l’avvento del Cristianesimo, le celebrazioni pagane vennero reinterpretate, e la figura di un martire coraggioso, che osò infrangere le rigide imposizioni dell’autorità imperiale celebrando unioni segrete, divenne il simbolo di un amore redentore e rivoluzionario. San Valentino è venerato dalla Chiesa Cattolica come martire cristiano, ed è considerato il patrono degli innamorati. Tuttavia, la sua figura storica è avvolta nel mistero e spesso confusa con altre omonime.

    Secondo la Passio Sancti Valentini, Valentino sarebbe stato un vescovo di Terni vissuto nel III secolo d.C., durante il regno dell’imperatore Claudio II il Gotico. La tradizione narra che fosse noto per il suo impegno nel celebrare matrimoni tra cristiani, nonostante le persecuzioni dell’epoca. Avrebbe anche benedetto le unioni tra giovani coppie, andando contro il decreto imperiale che proibiva i matrimoni per i soldati, considerati più valorosi se non sposati.

    Per la sua opera di evangelizzazione e per aver sfidato le autorità romane, Valentino venne arrestato e condannato a morte. Secondo la leggenda, prima della sua esecuzione avrebbe guarito la figlia cieca di un suo carceriere e le avrebbe scritto un biglietto firmato “Tuo Valentino”, da cui deriverebbe l’usanza degli auguri d’amore nel giorno della sua festa.

    San Valentino fu decapitato il 14 febbraio 273 d.C. e sepolto lungo la Via Flaminia. Il culto si diffuse rapidamente e nel 496 d.C. papa Gelasio I istituì ufficialmente la sua festa per sostituire i Lupercalia.

    Le sue reliquie sono conservate in diverse città italiane, tra cui Terni, dove è patrono, e Roma, nella Basilica di San Valentino. Il 14 febbraio è celebrato come il giorno degli innamorati, una tradizione che ha radici sia nella religione cristiana che nelle consuetudini medievali legate all’amore cortese.

    Studi interdisciplinari che spaziano dall’antropologia alle neuroscienze hanno dimostrato come l’amore sia radicato in meccanismi cerebrali ben definiti, capaci di innescare la produzione di neurotrasmettitori e ormoni che regolano il benessere emotivo e fisico. Questa sintesi tra tradizione e scienza conferisce alla festa di San Valentino una valenza profonda e ambivalente, in cui il sentimento si trasforma da ideale romantico a fenomeno misurabile, capace di resistere al tempo e alle convenzioni sociali. In un’epoca segnata dall’individualismo e dalla frenesia, il ricordo delle origini di questa celebrazione funge da monito: l’amore, nella sua essenza più pura, è una forza che illumina anche gli angoli più oscuri dell’esistenza, sfidando le tempeste del destino e offrendo una via di speranza e redenzione.

    San Valentino incarna il connubio tra spiritualità e sentimento, tra la tradizione cristiana e il significato universale dell’amore. Il suo culto, nato in un’epoca di persecuzioni e sacrificio, si è trasformato nei secoli in un simbolo di unione e affetto, mantenendo vivo il messaggio di altruismo e dedizione.

    Che si tratti di un amore romantico, familiare o universale, la sua figura ci ricorda che l’amore autentico è dono, impegno e speranza. Il 14 febbraio non è solo una celebrazione consumistica, ma un’occasione per riscoprire il valore profondo del legame con gli altri, costruito su fiducia, rispetto e sincera connessione dell’anima.

    Nel mondo frenetico di oggi, dove spesso i sentimenti vengono sminuiti o dati per scontati, questa ricorrenza ci invita a riflettere sull’importanza di amare con autenticità, senza paura e senza riserve. Perché, come scriveva Dante, “Amor che move il sole e l’altre stelle”, è la forza più grande e inesauribile dell’universo.

  • Pornodipendenza: strategie e consigli per superare la dipendenza

    Pornodipendenza: strategie e consigli per superare la dipendenza

    Il consumo di materiale pornografico può trasformarsi in un comportamento compulsivo, portando a una progressiva perdita di controllo e a conseguenze negative sulla sfera personale, affettiva e lavorativa. L’uso ossessivo di pornografia, spesso accompagnato da un aumento della tolleranza e da una continua ricerca di stimoli sempre più intensi, può generare insoddisfazione e senso di colpa, creando un circolo vizioso dal quale risulta difficile uscire.

    Molti individui affetti da questa problematica riferiscono di dedicare diverse ore al giorno alla visione di contenuti espliciti, sacrificando tempo che potrebbe essere destinato ad altre attività. La dipendenza può portare a difficoltà nelle relazioni interpersonali, calo delle prestazioni lavorative e sintomi di astinenza nel momento in cui si tenta di interrompere il comportamento. Spesso, il riconoscimento del problema avviene solo quando le circostanze esterne – come una convivenza o una maggiore esposizione alla vita sociale – impediscono di soddisfare il bisogno compulsivo in modo indisturbato.

    Gli studi condotti nell’ambito della psicoterapia e delle neuroscienze applicate suggeriscono che una percentuale compresa tra il 3% e il 5% degli uomini soffra di una forma di dipendenza dalla pornografia. Anche le donne possono esserne colpite, sebbene in misura minore, con una prevalenza stimata attorno all’1%. Le differenze di genere sono attribuibili a un minor consumo di contenuti pornografici da parte del pubblico femminile, come dimostrano diverse indagini statistiche. Tuttavia, il fenomeno è spesso sottostimato: il senso di vergogna associato a questa problematica induce molte persone a non cercare aiuto, rendendo difficile una quantificazione precisa del disturbo.

    Fino a pochi anni fa, la dipendenza da pornografia non era ufficialmente riconosciuta come una condizione clinica. Solo con l’introduzione dell’ICD-11 nel 2022, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato questo disturbo all’interno della categoria più ampia dei “disturbi da comportamento sessuale compulsivo“, includendolo accanto alla dipendenza da sesso, al cybersex e ad altre forme di compulsione legate alla sessualità. Questo riconoscimento ha suscitato un acceso dibattito nella comunità scientifica: alcuni esperti temevano che la definizione potesse portare a una patologizzazione eccessiva di un comportamento considerato normale, mentre altri sottolineavano la necessità di identificare un quadro clinico chiaro per coloro che soffrono di questa condizione.

    La maggior parte delle persone che consuma pornografia non sviluppa una dipendenza. Tuttavia, quando il consumo diventa pervasivo e interferisce con la vita quotidiana, si può parlare di un vero e proprio disturbo comportamentale. I criteri diagnostici includono la perdita di controllo, l’incapacità di ridurre o interrompere il consumo nonostante le conseguenze negative, e l’aumento progressivo della quantità e dell’intensità del materiale visionato. In alcuni casi, questa escalation può condurre all’esposizione a contenuti sempre più estremi, fino alla pornografia violenta.

    Le opinioni degli studiosi sulla classificazione di questo disturbo sono divergenti. Alcuni lo collocano tra i disturbi del controllo degli impulsi, insieme a condizioni come la cleptomania e la piromania. Altri ritengono che la dipendenza da pornografia abbia più affinità con le dipendenze comportamentali, come il gioco d’azzardo patologico e la dipendenza da videogiochi. Tra i sintomi più frequenti si riscontrano pensieri ossessivi sul materiale pornografico, astinenza caratterizzata da irrequietezza e disagio psicologico, e tentativi ripetuti ma infruttuosi di interrompere l’abitudine.

    Il consumo eccessivo di pornografia può avere ripercussioni anche sul piano fisico. Uno studio condotto dall’Università di Anversa nel 2021 ha evidenziato una possibile correlazione tra l’uso smodato di pornografia e problemi di disfunzione erettile nei giovani uomini sotto i 35 anni. Tuttavia, la relazione causale non è ancora stata chiarita: se da un lato si ipotizza che l’abuso di materiale pornografico possa influenzare negativamente la risposta sessuale nella realtà, dall’altro è possibile che soggetti già affetti da problemi sessuali ricorrano al porno come forma di compensazione.

    La dipendenza da pornografia segue un meccanismo simile a quello di altre dipendenze: la necessità di stimoli sempre più forti porta a un aumento del consumo, con una progressiva assuefazione e una ridotta capacità di provare piacere. Il fenomeno è paragonabile all’alcolismo, dove si passa da un consumo moderato a dosi sempre più elevate per ottenere lo stesso effetto. La crescente sensibilizzazione su questa problematica ha reso possibile lo sviluppo di percorsi terapeutici mirati, basati su approcci cognitivo-comportamentali, supporto psicologico e, nei casi più gravi, interventi farmacologici volti a modulare gli impulsi compulsivi.

    Affrontare la dipendenza dalla pornografia richiede una presa di coscienza e un supporto adeguato. La ricerca continua a esplorare strategie di trattamento efficaci, con l’obiettivo di fornire strumenti utili a chi si trova intrappolato in un ciclo compulsivo difficile da spezzare.

  • Don Bosco: il pedagogo della previdenza

    Don Bosco: il pedagogo della previdenza

    Giovanni Bosco, meglio conosciuto come Don Bosco, nacque il 16 agosto 1815 a Castelnuovo d’Asti, oggi Castelnuovo Don Bosco, in una famiglia contadina segnata dalla perdita prematura del padre. Cresciuto in condizioni di indigenza, sviluppò una forte vocazione religiosa che lo portò a diventare sacerdote nel 1841. Fin dall’inizio del suo ministero, si dedicò all’educazione e al sostegno dei giovani più bisognosi, in un’epoca in cui l’industrializzazione e i mutamenti sociali stavano creando un forte disagio tra i ragazzi delle classi popolari.

    Nel 1859 fondò la Congregazione Salesiana, ispirata alla figura di San Francesco di Sales, con l’obiettivo di offrire istruzione e formazione cristiana ai giovani, specialmente ai più emarginati. L’innovazione del suo metodo educativo, noto come il “Sistema Preventivo”, si basava su tre principi cardine: ragione, religione e amorevolezza. A differenza di altri approcci educativi dell’epoca, spesso repressivi, Don Bosco puntava sulla prevenzione dell’errore attraverso l’affetto, la presenza costante degli educatori e la costruzione di un ambiente sereno e stimolante. Secondo la sua visione, l’educazione doveva formare “buoni cristiani e onesti cittadini“, combinando istruzione, formazione professionale e valori morali.

    L’opera salesiana si espanse rapidamente, dando vita a scuole, oratori, centri di formazione professionale e missioni in tutto il mondo. Attualmente la Congregazione Salesiana conta oltre 14.000 religiosi presenti in 134 paesi, con una rete educativa che include più di 5.500 istituzioni tra scuole, centri di formazione e oratori, servendo milioni di giovani. L’influenza pedagogica di Don Bosco continua a essere un punto di riferimento nell’ambito educativo e sociale, con un impatto significativo su programmi di prevenzione della devianza minorile, dell’abbandono scolastico e della formazione professionale.

    I Salesiani operano attivamente in contesti difficili, supportando ragazzi in situazioni di povertà e disagio, offrendo opportunità di crescita personale e lavorativa, promuovendo al contempo una visione dell’educazione centrata sulla fiducia e sull’inclusione.

  • Pedagogia innovativa: il sistema educativo finlandese

    Pedagogia innovativa: il sistema educativo finlandese

    Il sistema scolastico finlandese è considerato uno dei più avanzati e inclusivi al mondo, grazie a un approccio pedagogico che mette al centro il benessere degli studenti, l’equità e l’apprendimento personalizzato. La Finlandia ha rivoluzionato l’educazione tradizionale, spostando l’attenzione dai risultati accademici standardizzati al potenziamento delle capacità individuali e alla crescita olistica di ciascun alunno. Questo modello educativo, caratterizzato da un’elevata autonomia sia per gli insegnanti che per gli studenti, promuove la curiosità, il pensiero critico e la creatività. 

    Tra i principi fondamentali vi è la convinzione che l’istruzione non debba essere competitiva, ma inclusiva, favorendo la collaborazione e il rispetto reciproco. Le scuole finlandesi offrono ambienti di apprendimento accoglienti, con orari flessibili e ampie pause, per ridurre lo stress e garantire un equilibrio tra studio e vita personale. Grazie all’insegnamento interdisciplinare e alla formazione eccellente degli insegnanti, il sistema finlandese ha raggiunto risultati straordinari, diventando un esempio globale di pedagogia innovativa e sostenibile.

    Caratteristiche della pedagogia finlandese

    1. Apprendimento personalizzato
      Gli insegnanti finlandesi adottano un approccio individualizzato, adattando i metodi educativi alle esigenze specifiche di ogni studente. Viene data grande importanza alla diversità, con l’obiettivo di garantire pari opportunità a tutti, indipendentemente dalle capacità o dal background socio-economico.
    2. Flessibilità e autonomia
      Gli studenti sono incoraggiati a sviluppare un pensiero critico e a prendere decisioni autonome. Le lezioni integrano attività pratiche e interdisciplinari, spesso legate alla vita reale, per stimolare curiosità e creatività.
    3. Focus sul benessere
      Il sistema educativo finlandese considera il benessere emotivo e psicologico una priorità. Le scuole offrono ambienti accoglienti, con orari meno stressanti e pause frequenti per favorire la concentrazione e ridurre l’ansia.
    4. Qualità degli insegnanti
      Gli insegnanti sono altamente qualificati: è richiesta una laurea magistrale, e solo il 10% dei candidati viene ammesso ai corsi universitari di formazione. Gli educatori ricevono grande rispetto sociale, al pari di medici e avvocati.
    5. Valutazione non competitiva
      La Finlandia riduce al minimo l’uso di test standardizzati. Le valutazioni si concentrano sul progresso individuale piuttosto che sul confronto tra studenti, favorendo una competizione sana e costruttiva.
    6. Inclusione delle famiglie
      I genitori sono considerati partner attivi nel processo educativo. La comunicazione scuola-famiglia è costante e orientata al supporto reciproco.
    7. Apprendimento interdisciplinare
      Dal 2016, la Finlandia ha introdotto l’“insegnamento basato sui fenomeni” (phenomenon-based learning), che sostituisce in parte le materie tradizionali con progetti interdisciplinari che trattano temi complessi come l’ambiente, la tecnologia o la società.

    Risultati concreti

    • Secondo i risultati PISA, la Finlandia eccelle in lettura, matematica e scienze.
    • Gli studenti finlandesi riportano alti livelli di soddisfazione e bassi tassi di stress.
    • L’abbandono scolastico è tra i più bassi d’Europa, mentre il livello di alfabetizzazione è tra i più alti al mondo.

    Un modello per altre nazioni?

    Nonostante il successo del sistema finlandese, trasferirlo in altri contesti richiede considerazioni culturali e strutturali. Ad esempio, l’alto livello di fiducia sociale e il benessere economico della Finlandia facilitano l’implementazione di questo modello. Tuttavia, principi come la personalizzazione, l’importanza del benessere e il focus sulle competenze trasversali possono essere adattati con successo in molte scuole del mondo.

  • AUSCHWITZ E LA MEMORIA: un viaggio nel cuore della storia

    AUSCHWITZ E LA MEMORIA: un viaggio nel cuore della storia

    Era un’estate torrida quando varcai i cancelli di Auschwitz per la prima volta. Ricordo il calore soffocante e il cielo limpido, ma anche una sensazione di inquietudine che cresceva a ogni passo. La scritta “Arbeit macht frei” campeggiava sopra l’ingresso come un’ombra oscura. Non era solo un viaggio, ma un confronto diretto con il passato più buio dell’umanità. Mi tornò in mente il racconto di un caro amico, sopravvissuto ai campi, che una volta mi disse: “Non è il freddo o la fame che ricordi, ma il silenzio che ti avvolge e ti toglie ogni speranza.” Quel silenzio lo avrei percepito anch’io durante la mia visita.
    Camminando sul ciottolato del campo, circondato da pietre luttuose che delimitavano gli spazi, percepii un silenzio tombale.

    Quel silenzio, interrotto solo dal lieve scricchiolio dei passi sul terreno, sembrava amplificare un’eco di dolore mai sopito. Le mura scure delle baracche, i fili spinati che tagliavano il cielo, e il vento che soffiava tra le strutture come un sospiro lontano contribuivano a creare un’atmosfera surreale, quasi irreale. Ogni angolo sembrava parlare, sussurrando storie di sofferenza e resistenza che si intrecciavano nel silenzio opprimente. Era un silenzio che non solo accompagnava i passi dei visitatori, ma sembrava amplificare un grido di dolore che ancora echeggiava. Il tempo sembrava essersi fermato, rallentato per contemplare l’eco di sofferenze indicibili. Ogni angolo del campo trasudava dolore: un dolore che si percepiva nei poster con i volti smunti dei prigionieri, nelle baracche sovraffollate, nei letti a castello che ospitavano fino a 14 persone, nei passi di chi, in un’altra epoca, aveva marciato verso la morte senza una piena consapevolezza di quanto stesse accadendo.

    Quell’illusione di un destino meno crudele, alimentata da promesse vuote, fu il più grande tradimento. Le camere a gas, tra cui una ancora intatta, rivelavano l’atrocità di un inganno mortale. Il gas Zyklon B penetrava dall’alto, mietendo vite in un’agonia di sofferenza. L’odore acre e il gelo spirituale di quei luoghi sembravano riempire l’aria, ricordando che in quei forni crematori non furono bruciati solo corpi, ma anche speranze, sogni e l’umanità stessa.

    Una domanda senza risposta
    Mentre lasciavo Auschwitz, un’unica domanda continuava a risuonare nella mia mente: Perché. Come è stato possibile che il mondo intero sia rimasto a guardare mentre milioni di vite venivano spezzate? In quegli anni, le tensioni geopolitiche e il silenzio di molti governi contribuirono a lasciare campo libero all’orrore. La conferenza di Evian del 1938, ad esempio, dimostrò l’indifferenza internazionale verso i rifugiati ebrei, un segnale inquietante della mancanza di interventi concreti. Questo silenzio pesa ancora come un macigno sulla coscienza collettiva. Come è stato possibile permettere che accadesse tutto questo? Perché nessuno fermò questa tragedia prima che fosse troppo tardi? Domande che restano sospese nel tempo e nello spazio, a cui ogni generazione è chiamata a rispondere attraverso la memoria e la testimonianza.

    Primo Levi e il dovere della memoria
    Primo Levi, con le sue parole, ci ha ammonito: “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Auschwitz non è solo un luogo fisico, ma un simbolo della malvagità a cui l’essere umano può arrivare se dimentica i valori di rispetto e dignità. Questo monito resta attuale davanti alle crisi umanitarie contemporanee, come i conflitti armati che vedono civili innocenti privati dei loro diritti fondamentali, o l’odio che si manifesta attraverso il razzismo e l’intolleranza ancora oggi presente in molte società. La memoria è l’unico antidoto contro il rischio che simili atrocità possano ripetersi.

    Ogni visita ad Auschwitz è un invito a riflettere. Vi invito a visitare questo luogo di memoria o a documentarsi di più sulla Shoah. Solo comprendendo l’orrore di quanto è accaduto possiamo impegnarci a costruire una società basata sul rispetto, sulla dignità e sulla pace. Il passato ci parla: ascoltiamolo. Non possiamo cancellarlo ma possiamo imparare da esso per costruire un futuro migliore. Ricordare è un dovere morale: è il modo in cui possiamo rendere giustizia a chi ha sofferto e garantire che la storia non si ripeta. Auschwitz non è un parco a tema: è un monito eterno, un grido di dolore che ci impone di non dimenticare mai.

  • Sostegno al disagio emotivo nei bambini: interventi efficaci per la scuola

    Sostegno al disagio emotivo nei bambini: interventi efficaci per la scuola

    Mio figlio Giacomo, frequenta la 3 elementare, e da qualche settimana si rifiuta di andare a scuola. Quando riusciamo a convincerlo siamo costretti a riprenderlo anzitempo per via di nausea e mal di pancia. Il tutto è coinciso con il cambio della maestra. Mi ha riferito che non ama particolarmente i modi bruschi e aggressivi della nuova maestra. Io non so che fare. Come mi dovrei comportare? M. Z.

    Carissima lettrice, per comprendere la psicologia di un bambino occorre inquadrare il problema nel suo insieme e capire quali siano le cause scatenanti del malessere. Le risposte che un bimbo da non sono mai casuali, ma sono attivazioni di un sistema di difesa. Relativamente ai malesseri, occorre, innanzi tutto scartare cause organiche, e poi concentrarsi su quelli che sono gli aspetti emotivi e psicologici. Decisamente c’è una causa originaria e propenderei per ricercarla nell’ambiente in cui il bambino passa ben 5-6 ore della sua giornata. Davanti alla difficoltà, scattano dei meccanismi che portano alla fuga, con le classiche somatizzazione da ansia che lei riferisce. Senz’altro il cambio di maestra può non aver favorito, anzi, se poi lei mi dice che ha modi bruschi, che tende ad urlare, questo fa la differenza. Ciascun bambino ha una sua sensibilità, le sue fragilità, le sue insicurezze, e nel momento in cui subiscono un trattamento aggressivo, finiscono col sentirsi schiacciati, vivendo tale situazione in modo traumatico, con evidenti ricadute sullo sviluppo psicofisico.

    Il problema di Giacomo ci rimanda ad un altro problema più importante: il ruolo dell’insegnante nella relazione educativa con i suoi alunni. Reputo che un insegnante, a maggior ragione delle scuole elementari, debba avere il necessario equilibrio, la dovuta serenità per lavorare con i bambini. Deve avere quel fascino che porta gli alunni ad aprirsi ad una relazione valorizzante che potenzi risorse e i talenti di ciascuno. L’insegnamento non è solo un meccanico passaggio di informazioni, ma è una relazione tra due esseri umani. La cura, che sia una preoccupazione, o accudire il progetto di una vita altrui, è responsabilità che diventa il paradigma dell’amore stesso, di un amore concreto e tangibile che si esperisce nella relazione quotidiana. Occorre essere predisposti, ecco perché sarebbe auspicabile che i docenti fossero sottoposti a test di personalità, per comprendere se hanno l’effettiva passione e inclinazione per l’insegnamento, e dovrebbero essere scelti non solo in base a criteri conoscitivi ma anche emotivi.

    Se nell’insegnamento si perde la portata “carismatica” si perde l’essenza stessa dell’insegnamento. Purtroppo, siano abituati a privilegiare l’aspetto “conoscitivo” a discapito di quello “emotivo”. Un insegnante che non riesce a sviluppare empatia, che non tiene conto della portata dell’intelligenza emotiva, non dovrebbe svolgere quella professione e stare a stretto contatto con gli alunni. È risaputo che l’intelligenza emotiva resta una componente fondamentale nello sviluppo della psiche umana ed è una chiave per entrare in comunicazione con l’altro. Le emozioni svolgono un ruolo decisivo nella biografia esistenziale di un individuo, in particolare nell’età evolutiva, in quanto influenzano il comportamento e interferiscono in maniera determinante nei processi di apprendimento.

    La correlazione e le connessioni tra sistemi cognitivi e sistemi emotivi, sono state avvallate anche da recenti scoperte neuroscientifiche, e, fatto salvo ciò, si può dedurre che l’azione educativa, soprattutto scolastica, non può mirare al solo potenziamento delle funzioni cognitive tralasciando lo sviluppo di quelle emotive. Sarebbe auspicabile che la scuola attuasse interventi educativi mirati al potenziamento delle funzioni emotive, perché un basso livello di intelligenza emotiva implica gravi rischi nell’età evolutiva, quali attacchi di rabbia che possono sfociare in comportamenti devianti, depressioni, attacchi di panico, disturbi alimentari. Per questo è fondamentale che le emozioni vengano considerate nelle pratiche educative e nell’apprendimento come una pietra miliare a cui fare sempre riferimento. Giacomo, in questa fase di difficoltà, ha necessariamente bisogno di un supporto psicologico, attraverso cui far emergere qual è il disagio che vive a scuola. Non abbia timore di parlarne con l’insegnante, anzi essendo una delle attrici coinvolte, è doveroso interpellarla, senza alcun timore riverenziale. Nella logica delle cose, noi affidiamo in un continuum i nostri figli alla scuola, ci impegniamo a farli crescere e maturare in un ambiente familiare sereno, ma se poi lo sforzo viene vanificato da urla e aggressività, occorre essere chiari e decisi, per far capire che così si sta stravolgendo la vera missione della scuola. Con le urla si perde quella necessaria autorevolezza che consente al bambino di vedere la propria maestra come punto di riferimento: l’antitesi dell’educazione. Sia determinata su questi passaggi.

  • Autolesionismo: quando una lametta lenisce il dolore

    Autolesionismo: quando una lametta lenisce il dolore

    Dottor Littarru, stiamo vivendo un periodo di angoscia e sconforto. Abbiamo scoperto che nostra figlia Martina, 16 anni, sta praticando gesti di autolesionismo. Mi sento profondamente delusa e sopraffatta dal senso di colpa. Forse siamo stati troppo rigidi e direttivi come genitori. Cosa possiamo fare? Perché un adolescente arriva a massacrarsi in quel modo? F.P.

    Gentile lettrice, La ringrazio per avermi scritto.

    È del tutto comprensibile il vostro stato d’animo di fronte a una situazione così delicata. Purtroppo, i dati recenti evidenziano un aumento significativo dei comportamenti autolesionistici tra gli adolescenti. Secondo la Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (SINPIA), si è registrato un incremento del 27% di atti autolesionistici rispetto al periodo pre-Covid-19.

    L’autolesionismo può manifestarsi attraverso tagli, bruciature o altre lesioni autoindotte. Spesso, questi gesti sono una risposta a emozioni travolgenti come ansia, angoscia o depressione. Studi indicano che circa il 30-40% degli adolescenti riferisce di procurarsi lesioni con una certa regolarità, e nell’80-85% dei casi è presente una forma di depressione sottostante.

    È fondamentale riconoscere che l’autolesionismo rappresenta un segnale di disagio profondo e può essere un precursore di comportamenti suicidari. Nel 2023, Telefono Amico Italia ha ricevuto oltre 7.000 richieste di aiuto legate a pensieri suicidari, evidenziando la gravità del fenomeno.

    Per affrontare questa situazione con sua figlia, le suggerisco di:

    • Promuovere il dialogo aperto: Crei un ambiente in cui sua figlia si senta al sicuro nell’esprimere i propri sentimenti senza timore di giudizio.
    • Offrire supporto emotivo: Dimostri comprensione e affetto, facendole sapere che non è sola nel suo percorso.
    • Evitare pressioni eccessive: Le aspettative troppo elevate possono aumentare il senso di inadeguatezza; cerchi di essere paziente e comprensiva.
    • Limitare l’uso eccessivo di dispositivi digitali: L’uso prolungato di smartphone e social media è stato associato a un aumento dell’isolamento e del disagio psicologico tra i giovani.
    • Consultare un professionista: Un neuropsichiatra infantile o uno psicologo specializzato in età evolutiva può fornire un supporto adeguato e interventi mirati.

    Ricordi che, come affermava Virgilio, Omnia vincit amor: l’amore vince ogni cosa. Con pazienza, ascolto e supporto incondizionato, potrà aiutare sua figlia a ritrovare un equilibrio e a riscoprire la bellezza della vita. Non esiti a chiedere aiuto ai professionisti, perché nessun genitore è tenuto ad affrontare da solo un percorso così complesso.

    Ogni piccolo passo avanti sarà un segnale di speranza, e insieme, con il giusto supporto, potrete superare questa fase difficile.

    Un cordiale saluto. D.L.