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  • Burnout scolastico: il peso invisibile del lavoro dietro le quinte

    Burnout scolastico: il peso invisibile del lavoro dietro le quinte

    Scuola e Burnout: sfide nascoste e soluzioni per il benessere di docenti e personale

    La scuola italiana è un microcosmo pulsante, un intreccio di storie professionali fatte di impegno, responsabilità e carichi stressogeni che spesso passano inosservati agli occhi esterni. I luoghi comuni spesso diventano lenti distorte per interpretare una realtà ben più complessa. L’immagine idealizzata del “dolce far niente” non collima con un contesto in cui il lavoro quotidiano si estende ben oltre le mura scolastiche e gli orari ufficiali. Una prova evidente di ciò è stata l’esperienza pandemica, durante la quale il personale docente e amministrativo ha dimostrato una straordinaria capacità di adattamento, gestendo la transizione alla didattica a distanza e rispondendo a un aumento esponenziale delle richieste di supporto tecnico e organizzativo da parte di studenti e famiglie.

    Questo scenario ha messo in luce l’importanza di un coordinamento efficace e la resilienza di chi opera quotidianamente nel mondo scolastico. Lontano dal mito delle lunghe ferie e dei privilegi, insegnanti e personale amministrativo affrontano un carico lavorativo che spesso non conosce orari. La ricerca scientifica conferma che il burnout scolastico è un fenomeno in crescita. Secondo un sondaggio del 2023 condotto dall’Associazione Italiana di Psicologia, il 62% degli insegnanti italiani si dichiara sopraffatto dalla pressione lavorativa.

    Negli ultimi decenni, il lavoro scolastico è cambiato profondamente. Le riunioni di dipartimento, i collegi dei docenti, i consigli di classe, i colloqui con i genitori, la preparazione delle lezioni e la correzione dei compiti occupano una parte significativa del tempo lavorativo, spesso ben oltre l’orario scolastico. Secondo un rapporto del MIUR del 2022, gli insegnanti italiani dedicano in media 15 ore settimanali ad attività extracurricolari, oltre alle lezioni in aula. A questi impegni si aggiungono le continue notifiche provenienti dal registro elettronico, che richiedono risposte tempestive anche nei giorni festivi. Tuttavia, normative come il Decreto Legislativo 66/2003, che recepisce la Direttiva 2003/88/CE sul diritto al riposo e al silenzio, sottolineano l’importanza di garantire periodi di pausa adeguati per tutelare il benessere dei lavoratori.

    L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce il burnout come una sindrome derivante da stress cronico sul luogo di lavoro che non è stato gestito con successo. Tra i sintomi principali si riscontrano esaurimento emotivo, ridotta efficacia professionale e atteggiamenti negativi o distaccati verso il lavoro. Studi di psicologia del lavoro, come quello di Maslach e Leiter, evidenziano che il burnout nasce spesso da un disallineamento tra le richieste lavorative e le risorse disponibili. Nel contesto scolastico, ciò si traduce in una crescente pressione per raggiungere risultati accademici, spesso senza adeguati supporti organizzativi. Secondo un rapporto dell’European Agency for Safety and Health at Work del 2022, circa il 40% degli insegnanti europei manifesta segni di burnout, con un picco tra coloro che operano nella scuola secondaria. Uno studio italiano condotto da Benevene et al. ha inoltre sottolineato come la percezione di scarso riconoscimento professionale sia uno dei principali fattori scatenanti.

    Nonostante le difficoltà, il lavoro dell’insegnante rimane fondamentale per la società. Ogni giorno, questi professionisti si confrontano con sfide educative e relazionali, cercando di costruire un ponte tra il sapere e le esigenze degli studenti. Tuttavia, è necessario sfatare alcuni miti: le ferie estive, spesso additate come un privilegio, sono rigidamente vincolate al calendario scolastico e comprendono attività di recupero e potenziamento per gli studenti. Dietro le quinte, il personale amministrativo svolge un ruolo cruciale per il funzionamento delle scuole. Durante la transizione alla digitalizzazione dei registri scolastici, molte segreterie hanno affrontato sfide come la formazione del personale e la gestione di sistemi informatici non sempre intuitivi, gestendo al contempo pratiche relative ai progetti, ai percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento e al supporto alla didattica. Questi professionisti rappresentano il motore invisibile che mantiene la scuola operativa. Tuttavia, anche per loro, il carico di lavoro e la pressione sono in aumento, con un incremento del 25% nelle pratiche gestite annualmente rispetto al 2015, secondo dati MIUR. Normative come il Decreto Legislativo 81/2008, che regola la sicurezza e la salute sul lavoro, offrono spunti per migliorare le condizioni lavorative, ma la loro applicazione pratica resta una sfida.

    Per affrontare il problema del burnout scolastico, è necessario adottare strategie mirate. Investire in programmi di formazione per insegnanti e personale amministrativo, con un focus sulla gestione dello stress e sul benessere psicologico, può fare la differenza. Ad esempio, il programma “Teacher Stress Reduction” implementato in Norvegia ha mostrato una diminuzione del 30% nei livelli di stress tra i partecipanti. Allo stesso modo, il progetto italiano “Mindfulness a scuola”, avviato nel 2020, ha riscontrato un aumento del 25% nella soddisfazione lavorativa tra i docenti coinvolti. Anche i workshop di intelligenza emotiva promossi dall’European School Network hanno avuto un impatto positivo, riducendo il burnout e migliorando l’efficacia professionale. Studi come quello di Jennings e Greenberg hanno dimostrato che interventi basati sulla mindfulness possono ridurre significativamente i livelli di stress degli insegnanti. La digitalizzazione efficiente, volta a semplificare i processi burocratici attraverso strumenti intuitivi, può rappresentare un elemento chiave per alleggerire il carico di lavoro. Creare sportelli di ascolto e supporto all’interno delle scuole è un’altra iniziativa cruciale: uno studio di Skaalvik e Skaalvik evidenzia come il supporto sociale sia un fattore protettivo contro il burnout. Inoltre, la redistribuzione dei carichi di lavoro e la consapevolezza del diritto al riposo, come stabilito dal Decreto Legislativo 66/2003, sono passi essenziali per garantire il benessere psicofisico dei lavoratori scolastici.

    Il mondo della scuola è molto più complesso di quanto possa sembrare. Insegnanti e personale amministrativo lavorano con dedizione, affrontando sfide che spesso rimangono invisibili agli occhi esterni. Riconoscere queste difficoltà e intervenire con soluzioni concrete è essenziale per garantire un sistema scolastico sostenibile e una società che valorizzi il ruolo cruciale dell’educazione. Il recupero della dignità sociale di una professione nobile passa anche attraverso una remunerazione adeguata ai tempi e alle esigenze di una scuola che richiede un continuo aggiornamento. Gli stipendi degli insegnanti italiani risultano significativamente inferiori rispetto a quelli dei colleghi europei. Secondo il rapporto OCSE “Education at a Glance 2024“, il salario medio degli insegnanti italiani nel 2019 era di circa 31.950 euro annui, mentre in Germania si attestava intorno ai 47.250 euro e la media OCSE era di 42.300 euro. Questa disparità si accentua con l’avanzare della carriera. A fine servizio, un docente italiano della scuola secondaria di secondo grado percepisce in media poco più di 40.000 euro annui, contro i 48.876 euro della Spagna, i 55.497 euro del Portogallo e i 60.947 euro dell’Austria. Inoltre, l’Italia è tra i pochi Paesi europei in cui gli stipendi degli insegnanti sono diminuiti negli ultimi anni, registrando una riduzione dell’8% per tutti i livelli di istruzione. 

    Investire nella scuola e valorizzare chi vi lavora è essenziale, perché, come affermava John F. Kennedy, il nostro progresso come nazione dipende dal modo in cui valorizziamo l’educazione e coloro che la rendono possibile.

  • Narcisismo: il dilemma dell’ego e le sue radici psicologiche

    Narcisismo: il dilemma dell’ego e le sue radici psicologiche

    Cause e prevenzione del narcisismo

    Il narcisismo è un fenomeno complesso che si manifesta principalmente attraverso due forme: il narcisismo grandioso, contraddistinto da un senso di superiorità, e il narcisismo vulnerabile, caratterizzato da vergogna e ipersensibilità. Entrambe queste manifestazioni condividono una base comune: un’instabilità del senso di sé e un bisogno costante di validazione da parte degli altri. Secondo esperti come Frans Schalkwijk, questo comportamento può avere origine nell’infanzia, quando un bambino non riceve attenzione e comprensione sufficienti.

    Questa mancanza può portare a un modello di attaccamento insicuro, spingendo il bambino a sviluppare tratti di grandezza per compensare un vuoto emotivo oppure a ritirarsi dalle relazioni sociali. Il narcisista, nella vita adulta, tende a oscillare tra momenti di estrema sicurezza e profonde insicurezze, alimentando un circolo vizioso fatto di solitudine e dubbi. Psicologi come Eddie Brummelman e Martin Appelo spiegano che questa dinamica si traduce in un costante bisogno di ammirazione esterna e difficoltà a mantenere relazioni stabili.

    Nonostante l’opinione comune, non tutti i narcisisti soffrono di bassa autostima; il problema principale risiede nel loro senso di superiorità e nella continua ricerca di conferme da parte degli altri. Studi psicologici evidenziano che il narcisismo non è una semplice espressione di ego gonfiato, ma un meccanismo complesso, radicato nelle prime esperienze di vita e influenzato dalle dinamiche sociali.

    Per spiegare lo sviluppo di tratti narcisistici nei bambini, sono state formulate due teorie principali. La prima, di matrice psicoanalitica, attribuisce il fenomeno alla mancanza di calore genitoriale. La seconda, nota come teoria dell’apprendimento sociale, sostiene che il narcisismo possa derivare da comportamenti egocentrici incentivati dai genitori stessi.

    Comprendere queste dinamiche è essenziale per creare interventi terapeutici efficaci e per aiutare chi soffre di tratti narcisistici a migliorare le proprie relazioni e il proprio benessere emotivo.

    Come Prevenire il Narcisismo nei Bambini

    Prevenire tendenze narcisistiche nei bambini richiede un approccio educativo equilibrato, basato sull’attenzione incondizionata e su modelli di comportamento sani. Dimostrare amore e affetto senza condizioni, indipendentemente dai risultati ottenuti, è fondamentale per sviluppare una personalità equilibrata. È altrettanto importante evitare elogi eccessivi, lodando invece l’impegno e non solo i successi.

    Insegnare l’empatia è cruciale per aiutare il bambino a comprendere i bisogni degli altri e a sviluppare relazioni basate sul rispetto reciproco. Allo stesso tempo, stabilire limiti chiari e coerenti permette al bambino di apprendere il valore del rispetto per sé e per gli altri. I genitori dovrebbero evitare di confrontare il bambino con i coetanei, per prevenire sentimenti di inferiorità o superiorità, e insegnare l’importanza di accettare i fallimenti come opportunità di crescita.

    Incoraggiare il bambino a essere autentico, senza la necessità di impressionare gli altri, rafforza la fiducia in sé stesso. Modelli di comportamento che promuovono l’umiltà e l’autenticità possono essere di grande aiuto, così come offrire opportunità per socializzare e collaborare con gli altri. Prevenire il narcisismo non significa eliminare l’autostima, ma piuttosto promuovere un senso di sé che non dipenda esclusivamente dalla validazione esterna.

    Promuovere una genitorialità consapevole, basata sull’equilibrio tra affetto, regole chiare e incoraggiamento all’empatia, rappresenta una strategia efficace per favorire lo sviluppo emotivo dei bambini e prevenire tendenze narcisistiche.

  • Muscoli scolpiti e doping: una sfida per la salute dei giovani

    Muscoli scolpiti e doping: una sfida per la salute dei giovani

    Il mito del corpo perfetto domina il panorama sociale e mediatico. Immagini di fisici scolpiti come montagne russe, addominali d’acciaio e muscoli esaltati fino all’estremo si intrecciano con un fenomeno preoccupante: il doping. Questo problema in crescita, spesso ignorato o sottovalutato, riguarda giovani e adulti, dilettanti e professionisti. Secondo recenti stime, il mercato globale delle sostanze dopanti supera i 500 milioni di euro all’anno (Fonte: WADA, 2023), alimentato da ormoni, integratori e farmaci. Gli steroidi anabolizzanti rappresentano il prodotto più richiesto, perché rappresenta la via breve per ottenere rapidi aumenti di massa muscolare. Queste sostanze arrivano principalmente dal mercato asiatico, distribuite tramite dark web, social media e forum. Una ricerca condotta dall’Agenzia Mondiale Antidoping (WADA) evidenzia che almeno un bodybuilder su tre utilizza regolarmente sostanze illecite (WADA, Rapporto Annuale 2022). Tuttavia, il doping non è limitato al body-building: anche in sport come golf, tiro con l’arco o tiro a segno, si fa uso di betabloccanti e ansiolitici per ridurre l’ansia da prestazione.

    Tra i giovani, il mito del corpo perfetto è fortemente alimentato dai social media e dagli standard estetici imposti dalla cultura contemporanea. Uno studio pubblicato su “Journal of Adolescent Health” (Smith et al., 2021) ha rivelato che il 20% degli adolescenti ritiene necessario fare uso di doping per raggiungere il successo sportivo. Molti ragazzi assumono queste sostanze senza consapevolezza dei rischi. Tra i più comuni troviamo gli steroidi anabolizzanti che causano squilibri ormonali, infertilità e danni epatici (National Institute on Drug Abuse, 2023), gli ormoni della crescita (GH), legati a diabete e problemi cardiaci, e gli sciroppi energizzanti con estratti di ipofisi bovina, potenzialmente responsabili di malattie neurologiche come la variante umana della mucca pazza (European Food Safety Authority, 2022).

    Il termine “doping” deriva probabilmente dall’antico uso del “Dop”, un estratto eccitante utilizzato nelle cerimonie religiose da popolazioni dell’Africa sud-orientale. Tuttavia, l’uso di sostanze per migliorare le prestazioni risale a tempi ancora più antichi: nelle prime Olimpiadi, alcuni atleti usavano pozioni per aumentare la resistenza (Goldstein, “Doping in Antiquity”, 2020). Oggi, però, la situazione è radicalmente cambiata. In una palestra su sei (Ministero della Salute, 2023), circolano sostanze dopanti, e l’accesso a questi prodotti è più facile che mai, soprattutto grazie alla rete.

    Il doping non si limita a migliorare la massa muscolare o la forza. In molti sport si utilizzano anche diuretici, per perdere peso rapidamente o mascherare altre sostanze nelle analisi (WADA, 2022), alcalinizzanti (come bicarbonato di sodio), per aumentare la resistenza all’acido lattico, ma con effetti collaterali come problemi intestinali, e betabloccanti, per ridurre i tremori e l’ansia, comuni in sport di precisione. Queste pratiche mettono a rischio non solo la salute fisica, ma anche quella mentale, favorendo lo sviluppo di ossessioni compulsive legate alla ricerca di perfezione (APA, 2023).

    La soluzione non è demonizzare lo sport, ma educare a una pratica sana e consapevole. Genitori, educatori e allenatori devono promuovere valori come etica, responsabilità e benessere psico-fisico, opponendosi al culto dell’apparenza a tutti i costi. I giovani devono comprendere che il successo non è solo il risultato estetico o sportivo, ma anche il rispetto per la propria salute e per gli altri. Campagne informative, promosse da scuole e associazioni sportive, possono fare la differenza. Programmi come “Youth Against Doping” (Erasmus+, 2023) offrono risorse utili per sensibilizzare giovani e genitori sui pericoli delle sostanze illecite.

    Il doping rappresenta una sfida complessa che richiede una risposta collettiva. Educare sui rischi, fornire supporto psicologico e creare un ambiente sportivo positivo sono passi essenziali per proteggere le nuove generazioni.

  • L’innamoramento: scienza, psicologia e mistero di un sentimento universale

    L’innamoramento: scienza, psicologia e mistero di un sentimento universale

    L’innamoramento è un fenomeno complesso che si manifesta spesso in modo inaspettato, come un evento improvviso e travolgente. A livello culturale, l’amore romantico è una costruzione prevalentemente occidentale, radicata nella mitologia greca e sviluppatasi nel Romanticismo dell’Ottocento. In altre culture, come quella indiana o cinese, l’amore viene concepito diversamente: come un sentimento che si costruisce nel tempo attraverso affetto e interessi condivisi, oppure come mezzo di trascendenza spirituale, come nel Tantrismo.  

    Dal punto di vista biochimico, l’innamoramento è un processo che coinvolge rapidamente il cervello: bastano pochi istanti per innescare una complessa attività neurologica. Studi dimostrano che entro 20 centesimi di secondo dall’incontro con una persona attraente, il cervello attiva specifiche aree che rilasciano neurotrasmettitori come dopamina, noradrenalina e feniletilamina, responsabili di euforia, eccitazione e benessere. Successivamente, entrano in gioco ormoni come l’ossitocina e la vasopressina, che favoriscono il legame emotivo e la stabilità della relazione.  

    Anche i feromoni, messaggeri chimici mediati dall’olfatto, giocano un ruolo nella scelta del partner, agendo a livello inconscio e influenzando le preferenze basate sulla compatibilità genetica. Il bacio, comportamento universale e complesso, amplifica questi segnali biochimici e contribuisce all’eccitazione e al rafforzamento del legame.  

    La psicologia interpreta l’innamoramento in molteplici modi. Freud lo descrive come un meccanismo inconscio legato al bisogno di sicurezza e riproduzione, mentre Jung lo considera una forma di trascendenza, capace di far evolvere l’individuo a un livello superiore. Altre teorie, come quelle di Wilhelm Reich, attribuiscono all’amore e all’intimità un ruolo liberatorio, capace di rilasciare energia psichica e connettere l’individuo con il cosmo.  

    Alcuni approcci spirituali ed esoterici vedono l’innamoramento come il risultato di una connessione predestinata tra le anime. Secondo queste prospettive, gli incontri significativi non sarebbero casuali, ma frutto di un disegno evolutivo in cui ogni relazione offre opportunità di crescita personale.  

    L’energia sessuale, parte integrante dell’innamoramento, è descritta come una forza creativa primaria, capace di favorire lo sviluppo personale e il benessere psico-fisico. Tuttavia, è importante considerare questa energia come uno strumento per esplorare sé stessi, piuttosto che cercare una perfezione esterna idealizzata nell’altro.  

    In conclusione, l’innamoramento è un fenomeno multidimensionale, che intreccia aspetti biologici, psicologici, culturali e spirituali. Comprendere queste dinamiche può aiutare a vivere le relazioni in modo più consapevole, valorizzando ogni incontro come un’opportunità di connessione e crescita.

  • Dipendenza da internet: impatti psicologici e come superarla

    Dipendenza da internet: impatti psicologici e come superarla

    La dipendenza da Internet, tecnicamente definita Internet Addiction Disorder (IAD) o Disturbo da Dipendenza da Internet, rappresenta un fenomeno in continua espansione, soprattutto tra gli adolescenti. Si tratta di una dipendenza comportamentale caratterizzata da un utilizzo eccessivo, incontrollato e compulsivo della rete, con conseguenze negative sulla vita personale, sociale, scolastica e lavorativa. Sebbene non sia ancora ufficialmente riconosciuta come disturbo a sé stante nel DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), la IAD è oggetto di numerosi studi scientifici, che ne evidenziano l’impatto crescente nella società digitale. Altri termini utilizzati in ambito scientifico per descrivere questa problematica includono Problematic Internet Use (PIU), Compulsive Internet Use (CIU) e, per specifici casi legati ai videogiochi, Gaming Disorder, quest’ultimo già riconosciuto come patologia dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nella classificazione ICD-11. 

    Negli adolescenti, il fenomeno della dipendenza da Internet si sta diffondendo con caratteristiche quasi epidemiche. Secondo Federico Tonioni, responsabile del primo ambulatorio italiano dedicato a questo disturbo presso il Policlinico Gemelli di Roma, molti giovani sviluppano un rapporto malsano con il web, soprattutto attraverso un uso compulsivo di social network come Facebook, Instagram, TikTok e chat. Questo tipo di comportamento, definito anche “binge digitale“, è caratterizzato da sessioni di connessione prolungate e incontrollate che riducono la capacità di interazione reale. Il web tende a privilegiare relazioni duali e virtuali, che spesso sostituiscono il dialogo diretto e l’incontro personale, con conseguenti difficoltà nello sviluppo di relazioni autentiche e nel rafforzamento dell’identità personale.  

    Dal punto di vista clinico, i sintomi della dipendenza da Internet sono simili a quelli di altre dipendenze comportamentali. I soggetti colpiti possono manifestare craving (desiderio incontrollabile di connettersi), irritabilità e disagio quando non hanno accesso alla rete, oltre a impulsività e compromissione delle capacità cognitive. Questo disturbo è spesso associato ad altri problemi psichiatrici, tra cui depressione, ansia sociale, disturbi di rabbia e dipendenza da sostanze. Studi neuroscientifici, come quelli pubblicati sull’American Journal of Psychiatry, hanno dimostrato che l’abuso della rete altera il sistema di ricompensa del cervello, favorendo una ricerca continua di gratificazione immediata, tipica delle interazioni virtuali come i “like” e i commenti sui social media.  

    In adolescenza, la situazione si complica ulteriormente a causa della delicata fase di sviluppo identitario. L’immersione nel mondo virtuale, descritta dal filosofo Jean Baudrillard come un’esperienza in cui “ci si tuffa” senza confrontarsi con la realtà, può confondere i giovani su chi sono realmente e su chi vogliono diventare. La sperimentazione di identità virtuali in questa fase della vita può aumentare il rischio di alienazione sociale e ostacolare la costruzione di un progetto personale radicato nella realtà.  

    La prima ricerca sistematica sul fenomeno, condotta dalla dottoressa Kimberly Young nel 1996, ha evidenziato come l’abuso della rete possa provocare isolamento sociale e una significativa riduzione della qualità della vita. Da allora, la comunità scientifica ha approfondito lo studio della IAD e delle sue varianti, proponendo trattamenti basati su approcci multidisciplinari che coinvolgono psicologi, psichiatri e pedagogisti. Interventi educativi e terapeutici mirano ad aiutare i giovani a sviluppare un uso consapevole e moderato della rete, promuovendo al contempo il recupero delle relazioni reali e il rafforzamento dell’autostima.  

    In conclusione, la dipendenza da Internet rappresenta una delle maggiori sfide per la società contemporanea. Il riconoscimento della sua natura tecnica e scientifica è essenziale per sviluppare strategie preventive e terapeutiche efficaci. Solo attraverso un approccio integrato sarà possibile aiutare le nuove generazioni a trovare un equilibrio tra la dimensione virtuale e quella reale, riducendo il rischio di alienazione e promuovendo una crescita personale sostenibile e autentica.

  • “Siblings e neurodiversità: la sfida invisibile e il cammino verso la resilienza familiare”

    “Siblings e neurodiversità: la sfida invisibile e il cammino verso la resilienza familiare”

    La sofferenza familiare che deriva dalla gestione di un figlio neurodiverso rappresenta un’esperienza complessa che mette a dura prova la capacità di resilienza delle famiglie. Sul piano emotivo, questo dolore si configura come un’esperienza totalizzante, che modifica radicalmente le dinamiche relazionali e impone un riadattamento costante. La neurodiversità, termine introdotto da Thomas Armstrong per descrivere la diversità neurologica come elemento naturale della condizione umana, viene oggi interpretata non come un deficit, ma come un’opportunità per comprendere la varietà e la complessità del cervello umano. Tuttavia, l’ecosistema familiare spesso si trova in una situazione di stress cronico che coinvolge tutti i suoi membri, inclusi i fratelli e le sorelle dei bambini con disabilità, noti come siblings

    I siblings, come dimostrato da numerosi studi, tra cui quelli condotti da Meyer e Vadasy (2008), sperimentano un doppio carico emotivo: da un lato devono far fronte al senso di abbandono derivante dall’attenzione dei genitori focalizzata sul fratello con disabilità, dall’altro affrontano un’eccessiva responsabilizzazione che accelera il loro sviluppo psicologico in direzione di un’adultizzazione precoce. La letteratura psicologica evidenzia come tali dinamiche possano portare a sentimenti di gelosia, rabbia e tristezza, che, se non riconosciuti e gestiti, possono evolvere in ansia, depressione e difficoltà di adattamento sociale. Studi di Fisman e Wolf (1991) hanno evidenziato che i siblings di bambini con autismo o altre forme di disabilità tendono a sviluppare livelli elevati di empatia, ma anche un rischio maggiore di disagio emotivo rispetto ai coetanei. 

    Dal punto di vista neurobiologico, il continuo stato di stress può influenzare lo sviluppo delle aree cerebrali legate alla regolazione emotiva, come evidenziato dalle ricerche di Gunnar e Quevedo (2007), che sottolineano il ruolo dell’ambiente familiare nella modulazione della risposta allo stress. Per questo motivo, è fondamentale adottare un approccio sistemico che includa l’intera famiglia, promuovendo interventi psicoeducativi mirati non solo al bambino con disabilità, ma anche ai siblings. 

    Un esempio efficace di supporto è rappresentato dai programmi di intervento specifici per siblings, come il Sibshop Program sviluppato da Don Meyer, che mira a fornire un contesto sicuro per condividere esperienze, sviluppare competenze sociali e costruire reti di supporto tra pari. Tali interventi si sono dimostrati efficaci nel ridurre i livelli di stress e nel migliorare il benessere emotivo, come riportato da interventi documentati nel Journal of Pediatric Psychology (Dyke et al., 2009). Inoltre, è cruciale promuovere il dialogo aperto in famiglia, affinché i siblings possano esprimere liberamente le proprie emozioni e sentirsi inclusi in un progetto condiviso.

    Il compito dei professionisti, in questo contesto, è di sensibilizzare le famiglie sull’importanza di bilanciare le attenzioni, fornire sostegno psicologico e offrire strumenti per affrontare i bisogni di tutti i membri, senza trascurare l’importanza di momenti dedicati esclusivamente ai siblings. Solo attraverso un approccio globale, basato su evidenze scientifiche e su un profondo rispetto per la complessità delle relazioni familiari, è possibile trasformare le sfide della neurodiversità in opportunità di crescita e resilienza per l’intero nucleo familiare.

  • “L’amicizia autentica: il tesoro perduto nel mondo digitale”

    “L’amicizia autentica: il tesoro perduto nel mondo digitale”

    Danilo Littarru

    Nei tempi attuali, la parola amicizia è fortemente inflazionata e svilita nella sua portata reale, e i social sono la cartina di tornasole che ben dimostrano ciò, e che richiamano altresì la necessità di fermarsi un attimo per capirne l’importanza e la soavità del termine. La parola amicizia esprime un concetto maturo e profondo, sminuito, spesso, dalla banalità dell’uso quotidiano che ne facciamo. I numeri altisonanti di amicizie virtuali, talvolta, non rendono merito all’aspetto valoriale dell’amicizia.

    Turkle, psicologo sociale del Massachusetts Institute of Technology, nel libro Alone Togetherbasandosi su una ricerca fatta per quindici anni basata sull’osservazione dei bambini e delle interazioni degli adulti con la tecnologia, arriva alla conclusione che stiamo perdendo il significato della voce umana. Il termine “amico” è da ricondurre direttamente al latino amicus che ha la stessa radice di amare per cui significa letteralmente “colui che si ama”. L’amore amicale è proprio quello che i greci chiamerebbero φιλία (philia), un sentimento fraterno, assolutamente disinteressato, un’affinità che costruisce e ricostruisce continuamente lo stesso rapporto e che accresce le vite degli attori coinvolti.

    Ricorda la scrittrice Dacia Maraini che un rapporto d’amicizia che sia fra uomini o donne, è sempre un rapporto d’amore. E in una carezza, in un abbraccio, in una stretta di mano a volte c’è più sensualità che nel vero e proprio atto d’amore. Il tema dell’amicizia è stato motivo d’ispirazione per molti letterati, poeti ed artisti. Tutto questo perché i rapporti umani segnano la nostra vita e fanno parte del nostro cammino emotivo e di crescita personale. Sosteneva Epicuro: “Di tutte le cose che la saggezza procura per ottenere un’esistenza felice, la più grande è l’amicizia”. Nella Sacra Scrittura, troviamo diversi passaggi sull’amicizia, celeberrimi sono i passi del Siracide (6,14-15) in cui si recita: Un amico fedele è rifugio sicuro: chi lo trova, trova un tesoroL’amico fedele è un balsamo nella vita. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è misura per il suo valore. L’autenticità di una amicizia è allora data dalla possibilità di essere e sentirsi se stessi, accettati senza riserve. Secondo Cicerone siamo nati affinché ci fosse fra tutti un legame, e l’amicizia altro non è che una armonia di tutte le cose umane e divine, unite con la benevolenza e l’affetto. Ciò che cementa questo legame è la ricerca della virtù nell’altro. Non basta passare del tempo assieme per essere amici, frequentare gli stessi luoghi, avere gli stessi interessi, o fingersi “amico” per interesse, in un’ottica di tornaconto personale, perché così si svilirebbe l’essenza stessa dell’amicizia.

    L’amicizia richiede la capacità di ascolto empatico, fondato sulla comprensione reale della persona e non un ascolto apatico, in cui l’interesse è concentrato sui fatti e sulle idee piuttosto che sulla comprensione. Da quanto emerso, appare evidente l’enorme distanza tra l’amicizia reale e quella virtuale, dove il concetto stesso di amicizia risulta liquefatto e svuotato di significato. Si tende infatti a definire “amici” anche persone sconosciute, con cui si condividono superficialmente intimità e aspetti personali.

    La quantità spesso non va a braccetto con la preziosità, per questo, quando si finisce per chiamare amico ogni persona che neppure si conosce, trovo che ci sia una reale e malsana banalizzazione dell’amicizia stessa. Rimbalza ancora una volta la domanda che Seneca pone, nel De vita beataPerché non cercare un bene da potersi intimamente sentire, piuttosto che uno da mettere in vetrina? Amicizia resta la parola più ricercata e al contempo più mendicata sul web, in una dinamica di avere o togliere che spiazza e provoca ad una riflessione profonda.

    Educare al senso dell’amicizia diventa oggi più che mai importante, affinché, soprattutto i giovani possano superare la logica numerica delle amicizie virtuali come patente che legittima il prestigio sociale. Trascendere gli steccati che la virtualità comporta il recupero del senso della voce umana, e ci riabitua ad addomesticarci, proprio come ricorda Antoine de Saint-Exupéry nel Il Piccolo PrincipeNon si conoscono che le cose che si addomesticano. Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico, addomesticami!

  • “Adolescenza e suicidio: capire il dolore per prevenire il gesto estremo”

    “Adolescenza e suicidio: capire il dolore per prevenire il gesto estremo”

    La solitudine, l’incomunicabilità, i conflitti interiori e le relazioni familiari difficili rappresentano esperienze comuni nell’adolescenza, una fase delicata di transizione verso l’età adulta. Tuttavia, in alcuni casi, questo percorso incontra ostacoli insormontabili, che possono culminare in un gesto estremo: il suicidio. Un dramma che attraversa silenziosamente il tessuto sociale e che spesso sfugge alla comprensione collettiva.

    Quando il dolore interiore diventa insopportabile, gli affetti, le amicizie e le passioni perdono significato, e il suicidio diventa l’unica via percepita per sfuggire alla sofferenza. Questo gesto, pur nella sua estrema drammaticità, rappresenta spesso un grido d’aiuto, un ultimo tentativo di comunicare un disagio profondo e radicato. Come rileva l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), il suicidio è attualmente la terza causa di morte tra gli adolescenti e i giovani (15-29 anni). In Italia, secondo i dati ISTAT più recenti, i suicidi costituiscono il 12% delle morti in questa fascia d’età, una cifra che richiede una riflessione urgente e mirata.

    Il suicidio adolescenziale è il risultato di una complessa interazione tra fattori personali, familiari e ambientali. Tra i principali fattori di rischio emergono:

    1. Condizioni psicopatologiche: Depressione maggiore, disturbi d’ansia, disturbo bipolare e disturbi della personalità sono frequentemente associati al rischio di suicidio.
    2. Eventi traumatici: Abusi, violenze, lutti o separazioni familiari possono generare un trauma emotivo difficile da elaborare.
    3. Disfunzioni familiari: Rapporti conflittuali, mancanza di supporto emotivo e comunicazione inefficace sono elementi spesso ricorrenti nei casi di suicidio giovanile.
    4. Fattori socio-ambientali: Il bullismo, il cyberbullismo e la pressione accademica contribuiscono ad alimentare il senso di inadeguatezza e isolamento.
    5. Fragilità narcisistica: Gli adolescenti con un forte bisogno di rispecchiamento e conferma da parte degli altri possono sviluppare una vulnerabilità acuta quando queste aspettative vengono deluse.

    In molti casi, i suicidi non sono gesti improvvisi ma conseguenza di un processo che lascia segnali evidenti. Tra questi menzioniamo i:

    Segnali verbali: Frasi come “Non ce la faccio più” o “La vita non ha senso” possono essere un allarme.

    Cambiamenti comportamentali: Isolamento, perdita di interesse per attività amate, calo nel rendimento scolastico o cambiamenti drastici nell’umore.

    Comportamenti a rischio: Automutilazioni, abuso di sostanze o condotte pericolose.

    La prevenzione è un elemento cruciale nella lotta contro il suicidio adolescenziale. Secondo l’OMS, il 90% dei suicidi potrebbe essere prevenuto attraverso interventi tempestivi. Quali le strategie chiave? Eccone alcune:

    Educazione e sensibilizzazione: Promuovere campagne che riducano lo stigma verso il disagio mentale e incoraggino la ricerca di aiuto.

    Supporto psicologico: Offrire accesso agevole a servizi di consulenza e terapia, con particolare attenzione a scuole e comunità.

    Monitoraggio e ascolto: Formare educatori, genitori e operatori sanitari a riconoscere i segnali di disagio e a intervenire tempestivamente.

    Costruzione di resilienza: Insegnare agli adolescenti a gestire lo stress, sviluppare un’autostima solida e costruire relazioni positive.

    Le neuroscienze offrono una prospettiva preziosa per comprendere i meccanismi alla base del suicidio adolescenziale. Studi recenti hanno evidenziato come disfunzioni nella regolazione emotiva e nei circuiti della ricompensa (coinvolgenti strutture come l’amigdala e il sistema limbico) possano contribuire alla vulnerabilità al suicidio. Tecniche come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) e la mindfulness, supportate da dati neuroscentifici, si sono dimostrate efficaci nel migliorare la regolazione emotiva e ridurre il rischio suicidario.Il suicidio adolescenziale è un fenomeno complesso che richiede un approccio integrato, in cui la prevenzione, il supporto psicologico e la sensibilizzazione giocano un ruolo centrale.

    Riconoscere i segnali di allarme, promuovere un dialogo aperto sul disagio mentale e facilitare l’accesso a interventi mirati sono passi essenziali per affrontare questa emergenza sociale. Ogni vita salvata rappresenta una vittoria non solo per l’individuo, ma per l’intera comunità.

    1. La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

      La difficoltà di memorizzare: neuroscienze e neuropsicologia ci possono aiutare. Come? 

      Gent.mo Professore, ho insegnato per 40 anni in un liceo. Negli ultimi anni ho riscontrato negli alunni la difficoltà di memorizzazione delle nozioni. A distanza di 50 anni ricordo ancora le poesie insegnatemi nelle elementari. Esiste una causa e degli strumenti che possano compensare questa difficoltà? Marcello

      Parto da una premessa. Lei mi parla dei tempi andati, percepisco una certa nostalgia e struggenza, come è giusto che sia, però dobbiamo prendere atto che i tempi attuali sono terribilmente differenti e terribilmente difficili. Il cambio generazionale è violento, da un biennio all’altro ci troviamo dinanzi a ragazzi che arrivano con scarse basi di scolarizzazione, con problemi comportamentali, con certificazioni che attestano disturbi dell’apprendimento e bisogni educativi speciali,

      Quasi ogni giorno siamo costretti a chiamare le ambulanze per un pronto intervento per attacchi di ansia e panico. I tempi che furono non possono essere un metro di paragone con la generazione attuale. Troppe cose son cambiate nel frattempo, in primis la famiglia, la visione della scuola e dell’insegnante, e soprattutto non siamo ancora preparati a contenere e ad educare ad uso corretto delle tecnologie informatiche. Proprio su quest’ultimo aspetto, recenti studi sottolineano che oramai ci siamo abituati a vivere con la certezza che le risposte che ci servono sono a portata di un clic, concependo il web come una memoria esterna alternativa. Quando ci manca una informazione o non ricordiamo qualcosa, ci viene in aiuto Mister Google. Siamo cresciuti nel trovare la strada che ci porta a trovare l’informazione a noi utile, ma rispetto a qualche decennio fa, memorizziamo molto meno alcune informazioni. Secondo una ricerca dell’Università di Fairfield, è un fenomeno che sembra estendersi anche alle immagini: persino fare fotografie può ridurre i ricordi delle immagini viste. La memoria, se non viene allenata, al pari della muscolatura, tende ad inflaccidirsi, per questo resta fondamentale un training continuo. Oggi, come sottolinea A. Keen, in ‘The Internet is Not the Answer‘, (Internet non è la risposta) allenamento e rigore mentale sono andati perduti.

      Spesso capita di trovare un numero consistente di allievi che nonostante si applichino nello studio non riescano a ricordare, né ad esprimerle compiutamente ciò che hanno studiato. Dopo la fatica, i risultati non sempre sono commisurati allo sforzo e producono risultati scadenti, creando scoraggiamento e sconforto. Neuroscienze e neuropsicologia, che da anni studiano il fenomeno, danno delle risposte in merito, soprattutto sullo studio della memoria nelle sue varie manifestazioni, ma come spesso succede le conoscenze che emergono, rimangono confinate nel ristretto ambito clinico-riabilitativo, per pochi eletti, e non giungono alla destinazione interessata e coinvolta per prima: la scuola.  

      André Rey, nel 1958 ha strutturato una prova che consente di misurare esattamente l’abilità chiamata prova di apprendimento verbale. Al soggetto è presentata una lista di 15 parole che deve cercare di ricordare al termine di ogni presentazione, per 5 volte registrando quanti elementi vengono ricordati. Successivamente il soggetto viene distratto con attività spaziali e dopo 15 minuti gli viene chiesto di ripetere la lista.La curva di apprendimento, in genere, mostra un rapido incremento nel numero di parole ricordate dopo la seconda somministrazione. Il numero di parole cresce fino ad avvicinarsi a 15 al quarto tentativo e spesso tutte le parole vengono ricordate all’ultima ripetizione. Dopo 15 minuti la maggior parte delle persone ricorda l’intera lista senza difficoltà. Ecco dunque un aspetto interessante che deve farci riflettere: nonostante la fase di apprendimento della lista di parole, il recupero a distanza delle informazioni apprese può essere inefficiente: l’immagazzinamento funziona, ma il ricordo no. Siffatta prova conferma quello che a volte si verifica nell’apprendimento scolastico, ovvero, informazioni che al termine del pomeriggio di studio sembravano immagazzinate, dopo qualche ora non sono più recuperabili. Può esistere apprendimento senza ricordo?  Le neuroscienze ci aiutano indicandoci che l’aspetto importante è capire se il soggetto non ricorda o non immagazzina. Sovente si immagazzina ma non si ricorda, e questa è una situazione che trova un trend più frequente nelle nuove generazioni.

      Il problema è risolvibile, con strumenti compensativi, che sovente restano sconosciuti agli stessi insegnanti. Ad uno studente che ha davvero problemi a ricordare una formula o una regola, basta dargli il magazzino delle formule e delle regole a disposizione e lui supererà le sue difficoltà. Gli strumenti ci sono, occorre un utilizzo corretto senza preconcetti di sorta.

    2. Intelligenza artificiale e scuola: opportunità o minaccia per i docenti?

      Intelligenza artificiale e scuola: opportunità o minaccia per i docenti?

      L’alone di diffidenza che aleggia sulla scuola è oggi più che mai fitto. Ormai da decenni dibattiti, confronti, manifestazioni di protesta, scioperi, indicano una sofferenza congenita della scuola italiana accusata di non essere più al passo con i tempi, e ritenuta da più parti come un’agenzia incapace di educare, prima ancora di istruire. Non si ricorda un ministro che, subentrato a quello precedente, non abbia portato modifiche o novità, provvedendo ad elaborare e varare la propria ipotesi di “riforma” istituzionale, ad una visione propria, non agevolando un’azione educativa e ristrutturattiva del sistema capace di progettualità rinnovata e condivisa.

      Appare indispensabile trovare nuove strategie educative, per far riacquisire quel ruolo fondamentale che la scuola ha da sempre ricoperto, far riscoprire l’importanza dell’insegnante, restituendoli quel ruolo professionale e sociale, offeso da banali e diffusi luoghi comuni, sovente screditanti, che provocano una distorsione delle reali difficoltà.  Ammesso che le difficoltà si intersecano su vari fronti, (dall’architettura scolastica che andrebbe rivista, alla messa in sicurezza degli edifici, al curriculo formativo, alle retribuzioni dei docenti) occorre ripartire da una formazione e da una selezione più attenta di chi ha una responsabilità e un ruolo così decisivo nella crescita di bambini e ragazzi.

      Forse, parlare di formazione ed educazione dei formatori, può sembrare retrogrado, se ci mettiamo a confronto con realtà diverse dalle nostre. In Nuova Zelanda, da circa un anno, in una scuola elementare, tiene banco il Prof. Will, non un docente in carne ed ossa ma un avatar, un software di Intelligenza Artificiale. (Questa iniziativa fa parte del programma “Be Sustainable with Energy“, promosso dall’azienda energetica Vector in collaborazione con la società di intelligenza artificiale Soul Machines. Gli studenti interagiscono con Will tramite computer, tablet o smartphone, partecipando a lezioni e verifiche interattive).

       La sua funzione, è quella di umanizzare l’intelligenza artificiale per migliorare l’umanità. L’apporto di ricercatori, neuroscienziati, psicologi e pensatori innovativi, è finalizzato a ripensare al rapporto-connessione con le macchine, creando umani artificiali incredibilmente realistici, emotivamente sensibili con personalità e carattere che consentono alle macchine di interagire. Secondo lo storico contemporaneo e vice-rettore dell’Università di Buckingham, Sir Anthony Seldon, che si occupa di educazione, gli avatar saranno destinati a breve a scalzare i docenti umani tra meno di 10 anni. Anche la scuola, verrebbe dunque macinata dal fenomeno della robotizzazione del lavoro, aprendo scenari nuovi e fino a qualche decennio fà impensabili e a mio parere inquietanti.

      Al di là dei punti di forza dell’informatizzazione dei sistemi lavorativi, la domanda che dobbiamo porci è relativa a quale uomo del futuro stiamo costruendo o vogliamo costruire. È bene rimarcare che non esiste tecnologia che possa dotare una macchina “intelligente” di autocoscienza e di emozioni, in grado di superare e schiacciare l’uomo. Nel futuro prossimo si investiranno ingenti risorse per migliorare e perfezionare l’intelligenza artificiale e robotica ma è necessario e doveroso, circoscrivere un quadro etico-antropologico e giuridico che tuteli fortemente l’uomo, e nella fattispecie, non ci si dimentichi, in nome di un progresso arrogante, dell’apporto dato dal sapere umanistico e da quel linguaggio sequenziale e analitico, che è stato alla base del pensiero occidentale per circa duemila centocinquanta anni di storia.

      La virtute e canoscenza, che Dante cita nel XXVI canto dell’inferno, richiama all’essere virtuosi nelle totalità delle dimensioni della personalità per riappropriarsi dell’incalcolabile sapere accumulato dagli uomini nel corso dei millenni. Forse la scuola del futuro dovrebbe ripartire da qui, ri-attivando e rafforzando quel dinamismo dell’ex-ducere che richiede di tirar fuori il meglio dai ragazzi con la testimonianza e l’esempio di insegnanti-educatori equilibrati e consapevoli, per favorire la ricerca, il discernimento, la scoperta finalizzata a tessere e costruire virtù e saperi. La missione della scuola, non è allora giudicare, scrutinare, ma istituire processi di formazione “sartoriali”, dare forma generativa all’esistenza giovane, oggi appiattita da modelli stereotipati ed uniformanti dove le specificità tendono ad appiattirsi. Ripartendo dalla condivisione di obiettivi, di metodi, di strategie, forse si può intavolare un discorso che sappia ribaltare le logiche puntiformi del qui e ora e possa aprirsi ad orizzonti ricchi di valore e di senso.  I giovani, come amava ricordare Joseph Joubert hanno più bisogno di esempi che di critiche.