In una giornata come tante, due membri delle forze dell’ordine fermano un uomo che rifiuta le regole. Tentano di contenerlo, il Taser entra in azione: lo strumento “non letale” diventa letale. L’uomo muore, e con lui crolla anche la certezza di chi indossa la divisa.
Il paradosso è chiaro: chi serve lo Stato viene lasciato solo dallo Stato. Da garanti della sicurezza a imputati per omicidio colposo. Con le spese legali a carico e la percezione che la divisa, in fondo, sia un’armatura bucata.
✦ Ma qui va detto con chiarezza: non sono ammessi eccessi di forza, squilibri e arroganze che talvolta la divisa porta con sé quando viene indossata da chi fraintende il proprio ruolo. L’abuso di potere, l’uso sproporzionato della forza, l’arroganza istituzionale vanno condannati senza ambiguità. La società deve distinguere tra chi agisce per necessità e chi invece sfrutta l’uniforme come strumento di sopraffazione.
E allora la domanda resta: come possiamo chiedere sicurezza se non siamo disposti ad assumerci collettivamente le conseguenze di chi rischia la vita per garantirla? Celebriamo le forze dell’ordine come eroi, ma le abbandoniamo al primo errore. Condanniamo con forza ogni abuso, ma proteggiamo chi agisce correttamente, anche quando l’esito è tragico.
⟡ O lo Stato garantisce davvero protezione ai suoi uomini, oppure continueremo a recitare una farsa: la sicurezza “senza macchia” che non esiste. Dietro ogni uniforme c’è una persona. E prima di puntare il dito, dovremmo chiederci: chi protegge chi ci protegge?
L’equilibrio tra coniugalità e genitorialità secondo Minuchin
In psicologia familiare, il termine invischiamento – introdotto da Salvador Minuchin – descrive una condizione in cui i confini tra i membri della famiglia risultano sfumati, rendendo difficile la distinzione tra ruoli e identità. In queste situazioni, il legame genitori-figli diventa eccessivamente stretto e sostitutivo di quello coniugale.
La lezione clinica è chiara: senza un rapporto di coppia solido e differenziato, la genitorialità rischia di trasformarsi in terreno fragile, in cui i figli vengono caricati delle tensioni irrisolte degli adulti.
I figli come sintomo di un legame ferito
Gli studi sistemici mostrano che i bambini e gli adolescenti non sono mai portatori di un disagio isolato: essi riflettono, come uno specchio, la qualità dei legami che li hanno generati.
Un figlio con ansia da separazione spesso manifesta la paura non detta della coppia di lasciarsi.
Un’adolescente che si chiude in se stessa può rappresentare la distanza emotiva tra i genitori.
Una figlia che si pone come confidente del padre o della madre diventa custode inconsapevole di ferite coniugali.
Come scrive Minuchin: «Il sintomo individuale è l’eco di una relazione ferita» (1974).
Invecchiamento e nuove fragilità
Le dinamiche invischianti non scompaiono con l’età, anzi: durante l’invecchiamento emergono in modo più evidente. Una coppia che non ha coltivato il proprio rapporto rischia di vivere la vecchiaia come solitudine a due, rifugiandosi nei figli adulti. Al contrario, una coniugalità ben custodita permette di trasformare la terza età in una stagione di intimità rinnovata, memoria condivisa e trasmissione generativa.
Psicologia familiare: il compito della cura
Il lavoro dello psicologo familiare si concentra nel restituire alla coppia e alla famiglia confini chiari e ruoli sani. Gli obiettivi principali sono:
differenziare il legame coniugale da quello genitoriale;
liberare i figli dal peso delle fratture adulte;
ricostruire uno spazio affettivo che nutra tutti i membri senza invischiarli.
Solo così i figli non saranno più sintomo di una ferita, ma testimoni di una relazione integra e generativa.
Conclusione
La famiglia, per restare viva e vitale, deve saper coltivare legami forti ma non invischianti, confini chiari ma non rigidi, affetto intenso ma non totalizzante. In questo equilibrio, i figli crescono liberi, e i genitori scoprono che l’amore coniugale è la radice che sostiene ogni altra relazione.
Il mind wandering — ovvero quando l’attenzione si sposta da ciò che stiamo facendo verso pensieri non correlati — è un fenomeno diffuso, ma ancora poco esplorato sui social in ambito scolastico. Si stima che studenti dedichino tra il 30% e il 50% del tempo cosciente a questo tipo di pensieri Wikipedia.
Alcuni momenti di “sogni a occhi aperti” possono addirittura favorire creatività, problem solving e memoria, specialmente se il contenuto è motivante Wikipedia.
Applicazione concreta: racconta come gestire questo fenomeno con tecniche di interazione attiva o pause mentali, trasformando una potenziale distrazione in opportunità didattica.
Cos’è il Mind Wandering
Il mind wandering è lo spostamento spontaneo dell’attenzione da un compito in corso verso pensieri interni non collegati al contesto. Esempio tipico: uno studente legge un brano di storia ma improvvisamente pensa al pomeriggio con gli amici.
Dal punto di vista neuropsicologico, è correlato all’attività della Default Mode Network (DMN), rete cerebrale che entra in funzione quando non siamo concentrati su stimoli esterni.
Effetti negativi in ambito scolastico
Perdita di informazioni: lo studente non assimila quanto spiegato.
Calano attenzione sostenuta e memoria di lavoro: ostacolando apprendimento strutturato.
Aumento dell’errore: soprattutto in attività che richiedono vigilanza (es. calcoli matematici).
Un esempio concreto: in un esperimento, studenti che vagavano con la mente durante la lettura ricordavano il 50% in meno del testo rispetto ai compagni attenti (Smallwood et al., 2008).
Benefici cognitivi del Mind Wandering
Non tutto è negativo: le fughe mentali hanno anche valenze evolutive e creative.
Creatività: durante divagazioni spontanee emergono connessioni nuove tra concetti.
Problem solving: a volte la soluzione arriva proprio nei momenti di “mente in pausa”.
Memoria prospettica: immaginare scenari futuri aiuta a pianificare.
Un esempio pratico: mentre lo studente si annoia, immagina un’app per studiare più facilmente. Quell’idea creativa nasce grazie al mind wandering.
Strategie didattiche per trasformare il fenomeno in risorsa
Pause guidate – introdurre brevi momenti di riflessione creativa in classe.
Didattica attiva – alternare spiegazioni frontali a domande stimolo e lavori di gruppo.
Micro-narrazioni – raccontare storie o aneddoti legati alla materia: agganciano l’attenzione e la canalizzano.
Tecniche metacognitive – insegnare agli studenti a riconoscere quando la mente “vaga” e a riportarla gentilmente sul compito.
Uso consapevole – trasformare le fughe mentali in brainstorming: “Chiudete gli occhi, immaginate una soluzione e poi condividiamola”.
Esempio di applicazione in aula
Un insegnante di scienze, spiegando l’ecosistema, concede due minuti di “immaginazione libera”: gli studenti devono pensare a come sarebbe la Terra senza alberi. Al termine, condividono le loro immagini mentali. Risultato? Maggiore coinvolgimento emotivo e consolidamento della conoscenza.
Conclusione
Il mind wandering non è un nemico da combattere, ma un fenomeno cognitivo da comprendere e incanalare. Nella didattica moderna, accettare che la mente degli studenti possa vagare significa riconoscere la natura dinamica del pensiero e sfruttarla per favorire creatività, motivazione e apprendimento significativo.
Come scriveva William James, padre della psicologia moderna: “La mente è come un uccello che vola di ramo in ramo: ciò che conta è che, prima o poi, torni a posarsi.”
Chi era davvero l’apostolo che consegnò Gesù? Un capro espiatorio universale, marchiato dalla storia… o un uomo fragile, divorato dal peso della colpa?
L’enigma dell’uomo più discusso della storia
Chi era davvero Giuda Iscariota, l’apostolo che consegnò Gesù? Traditore, vittima, capro espiatorio? La sua figura continua ad affascinare psicologi, filosofi, artisti e teologi. Da Dante a Dostoevskij, fino a Borges, Giuda rimane il volto oscuro della storia cristiana, “il condannato dall’umanità”.
Profilo psicologico di Giuda
La psicologia moderna legge in Giuda una personalità lacerata da profonde tensioni. Da un lato l’idealismo politico e religioso, dall’altro la delusione per un Messia che non rispondeva alle attese. Il tradimento può essere interpretato come una forma estrema di dissonanza cognitiva: amare e odiare, seguire e distruggere, sperare e disperarsi. Alcuni clinici ipotizzano tratti borderline: incapacità di reggere la frustrazione, oscillazione tra idealizzazione e svalutazione, esplosioni impulsive.
Dimensione psichiatrica: il peso della colpa
Il suicidio di Giuda, narrato nei Vangeli e ripreso nel libro degli Atti con il riferimento al campo di sangue (Akeldamà), evidenzia un quadro di verosimile depressione maggiore con colpa persecutoria. Il gesto non libera: lo precipita nell’abisso dell’auto-condanna. In termini clinici, Giuda rappresenta l’archetipo dell’atto impulsivo irreversibile, dove alla rabbia subentra un dolore insopportabile, senza possibilità di rielaborazione.
Antropologia del tradimento: il capro espiatorio
Per l’antropologia Giuda diventa il capro espiatorio universale. René Girard ricorda che “la violenza si placa quando trova una vittima”. L’umanità ha bisogno di incarnare il male in un volto riconoscibile, e Giuda diventa quel volto. Eppure, dietro il “traditore” c’è un uomo che ha viaggiato accanto a Cristo, ascoltato le parabole, condiviso il pane. Un uomo che ha baciato il Maestro con un gesto che ancora scuote la storia.
Giuda nell’arte e nella letteratura
La figura di Giuda ha attraversato secoli di interpretazioni.
Dante Alighieri lo colloca nell’Inferno, nel cuore ghiacciato della Giudecca, dilaniato da Lucifero stesso.
Fëdor Dostoevskij lo vede come simbolo della libertà tragica, capace di scegliere anche contro il bene.
Jorge Luis Borges scrive che “nessuno è tanto straniero a noi quanto colui che crediamo irrimediabilmente perduto”, aprendo alla possibilità di vedere Giuda come specchio della nostra stessa fragilità.
Il condannato dall’umanità
Giuda Iscariota è il volto ambiguo dell’uomo spezzato, che incarna insieme il peccato e la disperazione. Non è solo “il traditore”, ma l’archetipo della nostra capacità di cedere al male pur amando il bene. Guardarlo non significa giustificarlo, ma riconoscere che ogni essere umano porta in sé il rischio del proprio Akeldamà.
“Meglio il deserto che la lite? La Bibbia e la psicologia spiegano”.
“Meglio abitare nel deserto che con una donna litigiosa e irascibile” (Proverbi 21,19).
Questo proverbio biblico, apparentemente duro e intriso di un contesto patriarcale, porta in sé una verità universale: la conflittualità persistente in una relazione è un veleno lento. Se nella tradizione sapienziale ebraica l’immagine del deserto evocava isolamento e privazione, qui diventa paradossalmente preferibile rispetto alla convivenza con una persona — moglie o marito che sia — la cui costante ostilità logora la serenità domestica.
Il conflitto cronico e il danno psicologico
La psicologia delle relazioni insegna che il conflitto non è di per sé patologico: può persino essere un motore di crescita, se gestito in modo costruttivo. Tuttavia, quando la tensione diventa cronica, la coppia entra in un ciclo di difesa–attacco che altera profondamente il clima emotivo. John Gottman, uno dei massimi studiosi della relazione di coppia, ha evidenziato che il disprezzo, la critica costante e la mancanza di ascolto sono i principali predittori della rottura. A lungo andare, la convivenza in un ambiente così carico di frustrazione può condurre a disturbi d’ansia, somatizzazioni e perfino depressione.
La radice emotiva della litigiosità
Spesso, dietro l’irascibilità si celano ferite antiche: stili di attaccamento insicuri, vissuti di abbandono, paure di perdita. L’aggressività verbale può essere il linguaggio distorto di un bisogno di vicinanza, espresso però in forma di controllo o accusa. Un “deserto” emotivo può crearsi anche dentro la relazione stessa, quando il partner si sente invisibile o non riconosciuto.
Dal proverbio alla terapia: uscire dal deserto interiore
L’uscita non è quasi mai la fuga fisica — purtroppo, come spesso accade nella realtà, molte coppie restano insieme in un clima tossico. Piuttosto, occorre un lavoro consapevole:
Comunicazione non violenta, per trasformare accuse in richieste chiare e rispettose.
Psicoterapia di coppia, per ricostruire fiducia e sicurezza affettiva.
Autoconsapevolezza emotiva, perché la pace interiore è la premessa per una pace condivisa.
Il proverbio ci ammonisce con forza: vivere nel “deserto” è una condizione dura, ma a volte il silenzio arido è meno tossico del rumore costante del conflitto. La sfida, oggi, è trasformare quel deserto in un giardino, lavorando sulle radici invisibili della litigiosità.
Il termine doom-scrolling — coniato in ambito mediatico ma ormai acquisito dal lessico psicologico — indica l’atto compulsivo di scorrere senza sosta contenuti negativi su social network e portali di notizie. Una pratica apparentemente passiva, ma che, a livello neurofisiologico, può innescare una catena di reazioni con conseguenze tangibili sul tono dell’umore e sulla salute mentale.
Uno studio della Texas Tech University (2022) ha documentato come l’esposizione prolungata a notizie allarmistiche comporti un aumento dei livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, e una riduzione della Heart Rate Variability (HRV), un parametro biometrico correlato alla resilienza psicologica.
Perché ci intrappola
Il fenomeno si fonda su due pilastri neuropsicologici:
Attivazione cronica dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA): il cervello interpreta il flusso ininterrotto di notizie negative come una minaccia costante, attivando la risposta di allarme in modo protratto.
Bias di negatività: come dimostrato da Baumeister et al. (2001), la mente attribuisce maggiore peso e salienza emotiva agli stimoli negativi rispetto a quelli positivi, distorcendo la percezione della realtà e predisponendo all’ansia.
La conseguenza è un loop emotivo in cui l’utente, pur avvertendo malessere, continua a cercare informazioni disturbanti, alimentando inconsapevolmente uno stato di vigilanza ansiogena.
Effetti psicologici documentati
Peggioramento del tono dell’umore e incremento della sintomatologia depressiva
Irritabilità e insonnia dovute all’iperattivazione del sistema limbico
Riduzione delle capacità attentive per saturazione cognitiva
Ritiro sociale in favore di un consumo solitario e compulsivo di contenuti
Uno studio pubblicato su Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking (2021) ha confermato la correlazione tra consumo eccessivo di notizie negative online e aumento significativo di ansia generalizzata.
Strategie di prevenzione
Definire limiti temporali (es. 15-20 minuti al giorno di fruizione informativa)
Selezionare fonti attendibili per ridurre esposizione a contenuti sensazionalistici
Integrare “positive news” e letture neutrali nel proprio feed
Praticare mindful scrolling: osservare consapevolmente le proprie reazioni emotive durante la navigazione
Come osserva Daniel Levitin, neuroscienziato e autore di The Organized Mind:
“Il cervello è una macchina predittiva: saturarlo di negatività significa programmare le sue aspettative sul peggio.”
Dietro le grandi teorie della mente, si celano spesso conseguenze familiari drammatiche, perfino paradossali. L’amore, declinato in termini teorici, può trasformarsi in un progetto da perseguire, anziché in una relazione da vivere.
Quando i padri della psiche ferirono i propri figli
La storia della psicologia e della psichiatria è costellata di figure geniali che hanno rivoluzionato il pensiero umano. Ma quando la teoria scavalca l’affetto, il rapporto genitoriale rischia di trasformarsi in un campo sperimentale, con esiti profondamente traumatici per chi vi nasce dentro.
Sigmund Freud – L’amore filtrato dalla teoria
Freud ha ridefinito la comprensione dell’inconscio, ma la sua relazione con i figli, in particolare con Anna, resta un esempio ambiguo. Anna è per Freud “la cara e unica figlia” ma non fu non solo figlia, ma anche discepola, custode e prosecutrice della dottrina paterna. La loro vicinanza intellettuale è stata interpretata da alcuni storici come una forma di simbiosi che limitò la libertà identitaria di Anna, costretta a vivere sotto l’ombra ingombrante del padre.
Carl Gustav Jung – Il doppio volto del padre-visionario
Jung alternava intensi momenti di affetto a lunghi periodi di assenza emotiva, preso da viaggi e ricerche. I suoi figli, pur vivendo in una famiglia agiata, raccontarono di una figura paterna distante e centrata su se stessa. L’uso del proprio mondo onirico come fonte di ispirazione lo portava spesso a un distacco dalla concretezza affettiva quotidiana.
Jacques Lacan – Il carisma che schiaccia
Lacan, genio e provocatore della psicoanalisi, visse una vita privata segnata da relazioni conflittuali. Sua figlia Judith, divenuta a sua volta psicoanalista, descrisse un padre magnetico ma imprevedibile, capace di grandi gesti affettivi e di altrettanto brusche rotture. La sua “scena familiare” era un palcoscenico dove il linguaggio, più che l’ascolto, regnava sovrano.
John B. Watson – Il comportamento al posto dell’affetto
Watson, padre del comportamentismo, consigliava affetto ridotto, rigide routine, e l’educazione dei bambini come “mini-adulti”. Il celebre esperimento di Little Albert —condizionato a temere un topo bianco — non solo si pone in netto contrasto con l’empatia, ma ha generato paure durature. I suoi figli, cresciuti in un clima emotivamente controllato, hanno sofferto depressione, e uno di loro si è suicidato: un tragico contrappasso a un’educazione spersonalizzante.
Harry Harlow – L’ossessione per l’esperimento a ogni costo
Harlow fece vivere scimmie neonate in isolamento estremo, usando dispositivi crudele come la “gabbia della desolazione” o la “trappola da stupro”. Il risultato fu il modello di un abuso scientifico, che ha lasciato cicatrici nei primati e sollevato profonde riflessioni etiche.
R. D. Laing – L’anti-psichiatria che distrusse la propria famiglia
Laing teorizzava che la follia era una reazione logica a un contesto sociale malato, ma in famiglia fu distante e assente. Suo figlio Adrian osservò: “È ironico che mio padre fosse noto come psichiatra familiare, benché non avesse nulla che vedere con la propria famiglia”. Sua figlia Fiona fu ricoverata per schizofrenia, un’altra figlia morì giovane, e un altro figlio morì di infarto in isolamento emotivo.
Jean Piaget
I suoi studi sullo sviluppo cognitivo presero forma grazie alle osservazioni sui propri figli. Considerati come “piccoli sperimentatori”, costituirono il materiale empirico primario per la sua teoria costruttivista. Trasformò i figli in soggetti di ricerca più che in semplici bambini da accudire.
Considerazione finale
L’amore “teorizzato” non basta, quando predomina la proiezione di un modello ideale. Questi psicologi, pur rivoluzionari nel pensiero, hanno dimostrato quanto sia facile tradire l’essenza dell’affettività familiare. Il genitore, sotto il peso della propria dottrina, può diventare osservatore e sperimentatore anziché custode di umana delicatezza. Il risultato? Relazioni afflitte dalla freddezza, dall’assenza di vero ascolto e dall’incapacità di accogliere l’unicità emotiva del figlio. Freud, Jung e Lacan — così come altri giganti della psiche — hanno mostrato che l’intelligenza teorica non vaccina contro gli errori affettivi. Quando il figlio diventa proiezione di un ideale o incarnazione di un teorema, il genitore abdica al compito primario: proteggere e nutrire senza condizioni. L’amore, filtrato da un’ossessione dottrinaria, si inquina e perde il suo potere terapeutico, trasformandosi in un dispositivo di controllo. E così, dietro le mura domestiche, i grandi costruttori di teorie hanno talvolta distrutto ciò che affermavano di voler guarire: l’anima fragile di chi amavano.
Quando la fame diventa una trappola emotiva ed educativa.
Un disordine genetico con profonde ricadute psicoeducative
La Sindrome di Prader-Willi (PWS) è una malattia genetica rara, con una prevalenza stimata di 1 su 10.000-30.000 nati(Butler et al., 2019), causata da un’anomalia sul cromosoma 15 (delezione paterna o disomia uniparentale materna). Sebbene la diagnosi sia oggi precoce grazie ai test genetici, le implicazioni cliniche, psicologiche ed educative rimangono estremamente complesse.
Uno dei tratti distintivi della sindrome è la iperfagia compulsiva, ovvero un desiderio incontrollabile di cibo, che compare già tra i 2 e i 6 anni e tende a persistere a vita. Questo impulso non è attribuibile a semplice golosità, ma a un malfunzionamento dell’ipotalamo, area cerebrale deputata alla regolazione della fame e della sazietà.
La fame che non si placa: una prigione interna
A differenza della fame fisiologica, che cessa una volta ristabilito l’equilibrio energetico, nella PWS essa è continua, estenuante, inesorabile. Come ricorda lo psicologo clinico Dykens (2008), “vivere con la Prader-Willi è come essere eternamente affamati: una tortura invisibile”.
Questa fame cronica conduce facilmente a forme gravi di obesità infantile, con gravi complicazioni cardiovascolari e respiratorie. Ma la vera trappola è sul piano affettivo: il cibo diventa un sostituto relazionale, un anestetico emotivo, una costante nella costruzione dell’identità.
Educare tra contenimento e riconoscimento
L’approccio educativo con bambini affetti da PWS richiede una pedagogia dell’ambivalenza: contenere senza mortificare, regolare senza umiliare. Le famiglie si trovano spesso in bilico tra l’ansia di controllo e il senso di colpa.
Il controllo ambientale (chiusura di dispense, diete rigide, supervisione costante) è necessario ma può alimentare dinamiche di frustrazione e isolamento. Serve una rete educativa capace di integrare contenimento e compassione, lavorando anche sulla competenza emotiva, sull’autostima e sull’autonomia residua.
Disturbi del comportamento e profilo cognitivo
Accanto all’iperfagia, la sindrome di Prader-Willi comporta ritardo cognitivo lieve-moderato, ipotonia muscolare, deficit attentivi, disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo e comportamenti oppositivi-provocatori.
Secondo uno studio condotto da Sinnema et al. (2011), oltre il 70% dei bambini con PWS manifesta sintomi psichiatrici clinicamente rilevanti, con un’elevata incidenza di disturbi dell’umore, rigidità cognitiva e crisi comportamentali.
Tutto ciò rende imprescindibile il coinvolgimento di neuropsichiatri infantili, educatori specializzati e psicologi dell’età evolutiva.
Una sindrome che interroga la società
La PWS è anche una metafora estrema del nostro rapporto col desiderio, dove la fame non è solo corporea ma simbolica: fame di attenzione, di accudimento, di riconoscimento. Come scrive lo psichiatra Armando Ferrari, “Ogni corpo che eccede nasconde una psiche che chiede di essere ascoltata”.
Serve una comunità educante capace di andare oltre la medicalizzazione, che dia senso, voce e dignità alla fragilità. Gli interventi efficaci sono quelli multidimensionali e coordinati, dove l’alleanza scuola-famiglia-servizi è costante e mirata.
Conclusioni
Educare un bambino con la sindrome di Prader-Willi significa entrare in un campo di forze emotive ed etiche: cibo e affetto, regola e libertà, controllo e amore. Non esistono protocolli universali, ma la personalizzazione degli interventi è oggi la chiave per migliorare qualità della vita e benessere psicologico.
Il sacro nel silenzio: la spiritualità neurodivergente
Nel panorama della psicologia contemporanea, sta emergendo un tema ancora poco esplorato ma fondamentale: la relazione tra neurodivergenza e spiritualità. Sempre più persone nello spettro autistico, con ADHD, disprassie o difficoltà di elaborazione sensoriale, mostrano di vivere forme profondamente autentiche e originali di spiritualità.
Non si tratta solo di una diversa modalità di credere, ma di un vero e proprio altro linguaggio del sacro: più intuitivo che razionale, più viscerale che dogmatico, più contemplativo che discorsivo.
Quando il divino si manifesta senza parole
Le caratteristiche neurodivergenti, spesso ridotte a “sintomi” o “deficit” in ambito clinico, possono aprire soglie inedite dell’esperienza spirituale. L’ipersensibilità ai suoni, alla luce, ai colori, alle vibrazioni, porta molte persone a vivere una sorta di mistica sensoriale, in cui il divino si manifesta nell’eccesso del reale.
Come scrive il teologo Jean Vanier:
“Coloro che non possono parlare sono spesso coloro che sanno ascoltare Dio più a fondo di chiunque altro.”
Mistica atipica o spiritualità autentica?
Alcuni approcci della psicologia transpersonale (Lukoff et al., 1998) sostengono che esperienze spirituali intense, comunemente associate a stati psicotici o dissociativi, possano invece rappresentare forme legittime di trascendenza per persone neurodivergenti. Il problema non sta nell’esperienza in sé, ma nel modo in cui viene interpretata dal contesto clinico e sociale.
La spiritualità neurodivergente ci chiede di ripensare la diagnosi, ma anche la teologia esperienziale, aprendoci a nuovi modi di nominare e abitare il Mistero.
Una Chiesa che includa davvero: segni, tempi, corpi e silenzi
La sfida più profonda non è solo culturale o psicologica, ma ecclesiale. Una Chiesa realmente inclusiva non si limita ad accogliere “con pazienza”, ma trasforma se stessa per essere casa comune anche per chi non parla, non segue i rituali, o manifesta la propria fede in modi non convenzionali.
Come ha ricordato Papa Francesco:
“La Chiesa è chiamata a essere casa di tutti. Nessuno escluso. Nessuno.”
Una liturgia dal linguaggio plurale
La Messa e i riti sacramentali presuppongono spesso una comprensione verbale e simbolica non sempre accessibile alle persone neurodivergenti. Serve invece una pastorale neuroinclusiva, che utilizzi:
il linguaggio dei segni (LIS) per rendere accessibile la liturgia;
supporti visivi, simbolici e tattili;
adattamenti dei tempi (messe brevi, con pause, spazi di decompressione sensoriale);
attenzione al non verbale: silenzi, gesti, sguardi.
La spiritualità nei tempi altri
Le persone neurodivergenti vivono il tempo in modo diverso. Un bambino con autismo può non comprendere la struttura di una Messa, ma percepire in profondità la sacralità di una luce accesa, di un canto, di un abbraccio. La Chiesa deve imparare a scandire il tempo del culto con i tempi dell’anima, anche quando questi non sono lineari.
Accogliere senza giudizio
Ancora oggi, famiglie con figli neurodivergenti raccontano di essere guardate con fastidio o sospetto durante le celebrazioni. Il rumore, il movimento, l’imprevedibilità vengono letti come “disturbo” anziché come diversa partecipazione.
Ma non si tratta solo di tollerare: si tratta di trasformare la comunità in uno spazio sacramentale di accoglienza.
“La differenza non è un ostacolo alla fede. È il suo volto più umano.” (D. Littarru)
Educare all’invisibile
Educatori, catechisti, parroci e operatori pastorali necessitano di formazione teologica e psicologica specifica. Serve una catechesi che non insegni solo i contenuti, ma alleni lo sguardo a riconoscere il sacro nell’altro. Anche (e soprattutto) quando l’altro è fragile, silenzioso, inquieto o disorganizzato.
Insegnare che Dio abita il diverso, significa umanizzare la fede.
Conclusione
La neurodivergenza, lungi dall’essere un ostacolo alla fede, è una lente attraverso cui riscoprire la profondità della spiritualità cristiana. È tempo che la Chiesa — liturgia, catechesi, comunità — si lasci interpellare da questi nuovi linguaggi del sacro.
Perché Dio non parla solo nelle Scritture, ma anche nel silenzio di chi non può leggere, nel movimento di chi non riesce a star fermo, nell’ipersensibilità di chi “sente” tutto.
La cecità dell’incompetente: quando il sapere manca, ma la presunzione abbonda
“Il problema dell’umanità è che gli ignoranti sono pieni di certezze, e gli intelligenti pieni di dubbi.” — Bertrand Russell
Nel panorama delle distorsioni cognitive, poche sono così insidiose e attuali come l’effetto Dunning-Kruger, che potremmo definire come l’arroganza dell’ignoranza. È quel paradosso per cui le persone meno competenti in un ambito tendono a sopravvalutare in maniera drastica le proprie abilità, mentre gli esperti — consci della vastità del sapere — mostrano maggiore umiltà epistemica.
Origine e fondamento scientifico
Il fenomeno prende il nome dai ricercatori David Dunning e Justin Kruger della Cornell University, che nel 1999 pubblicarono uno studio divenuto iconico nel Journal of Personality and Social Psychology. Attraverso una serie di esperimenti su abilità logiche, linguistiche e umoristiche, scoprirono che gli individui meno performanti non solo erano inconsapevoli della propria incompetenza, ma si stimavano ben al di sopra della media.
Il motivo? La mancanza di competenza impedisce non solo l’esecuzione corretta di un compito, ma anche la valutazione critica del proprio operato. In altri termini, l’ignoranza stessa ostacola la percezione della propria ignoranza.
La curva dell’illusione: una topografia del sapere malinteso
Il percorso psicologico tracciato da Dunning e Kruger può essere rappresentato graficamente attraverso una curva a “U” invertita che descrive tre fasi emblematiche:
Il picco dell’arroganza (Monte Stupidità): chi sa poco, si crede esperto.
La valle dell’umiltà: acquisendo nuove competenze, ci si accorge dell’abisso del non-sapere.
Il pendio della consapevolezza: solo con la padronanza si raggiunge una fiducia giustificata e sobria.
Questa topografia del sapere evidenzia un punto cruciale: la conoscenza autentica è umile, mentre la superficialità è chiassosa e assertiva.
Applicazioni concrete: dalla medicina ai social media
L’effetto Dunning-Kruger non è un sofisma da salotto accademico. È una dinamica osservabile quotidianamente:
In ambito sanitario, dove “dottori da Google” contestano diagnosi fondate su anni di studio e clinica.
Nel mondo digitale, in cui la disinformazione dilaga per bocca di chi ha letto una fonte ma ne ignora il contesto.
Nel management, dove l’autostima scollegata dalla competenza mina la qualità decisionale.
Uno studio del 2006 (Ehrlinger et al.) ha confermato che i soggetti meno esperti mostrano una resistenza significativa al feedback correttivo, proprio perché privi degli strumenti metacognitivi per riconoscere i propri limiti.
Perché accade? Le radici neuropsicologiche del bias
Il bias Dunning-Kruger si innesta in meccanismi neurocognitivi profondi. La metacognizione — ossia la capacità di pensare al proprio pensiero — è essenziale per autoregolarsi, correggersi e apprendere. Quando questa funzione è immatura o poco sviluppata, il soggetto non possiede il “metasguardo” per valutarsi realisticamente.
Inoltre, il bisogno psicologico di autostima e coerenza interna spinge a rigettare ogni informazione dissonante con l’immagine positiva di sé.
Conseguenze sociali e culturali
In un’epoca di ipersemplificazione e verità on demand, l’effetto Dunning-Kruger è uno dei principali fertilizzanti della pseudoscienza, del populismo e della sfiducia nelle élite culturali.
La proliferazione dell’“esperto fai-da-te” rischia di delegittimare il sapere fondato, generando un ecosistema culturale in cui l’opinione personale vale quanto un dato oggettivo.
Coltivare l’umiltà cognitiva: un dovere educativo
L’antidoto a questo bias non è la derisione dell’incompetente, bensì l’educazione metacognitiva, che forma individui capaci di porsi domande sulla validità del proprio sapere.
Come sottolineava Socrate:
“So di non sapere”: è questo il primo passo verso la saggezza.
In ambito clinico e pedagogico, la promozione di strategie riflessive e feedback consapevoli può facilitare la crescita personale, professionale e relazionale.
In sintesi
L’effetto Dunning-Kruger è un bias che porta gli incompetenti a sopravvalutarsi.
Ha basi metacognitive e radici psicologiche profonde.
È osservabile in ogni ambito sociale, dall’educazione alla sanità.
Si combatte con consapevolezza, formazione e umiltà intellettuale.