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  • PAURA: L’OMBRA CHE CI ABITA

    PAURA: L’OMBRA CHE CI ABITA

    Analisi antropologica, psicologica e sociale di un’emozione primordiale.

    DOVE NASCE LA PAURA
    La paura è un’emozione primaria e automatica che ha una funzione evolutiva di sopravvivenza. A livello neurobiologico, essa origina principalmente nell’amigdala, una struttura sottocorticale del sistema limbico, che si attiva in presenza (o previsione) di un pericolo.
    L’amigdala riceve segnali sensoriali grezzi dal talamo e può reagire prima ancora che la corteccia prefrontale — sede del pensiero razionale — abbia tempo di valutare la situazione. Questo meccanismo è stato confermato da Joseph LeDoux in numerosi studi di neuroscienze affettive, secondo cui la via “bassa” della paura consente una reazione immediata, ma spesso imprecisa.

    Egli sostiene che “la paura non ha bisogno del pensiero per nascere: è sufficiente il sospetto.”


    Uno studio della University of Wisconsin (2013) ha dimostrato che la stimolazione artificiale dell’amigdala nei ratti induceva una risposta di congelamento anche in assenza di minaccia reale, evidenziando come la paura sia neurobiologicamente automatica e difensiva.

    PERCHÉ PROVIAMO PAURA?

    Dal punto di vista evoluzionistico, la paura è servita a evitare predatori, pericoli ambientali, malattie e minacce sociali. Oggi, i pericoli fisici sono meno frequenti, ma le paure moderne si sono trasformate in paure sociali, economiche, esistenziali.

    Nel campo della psicologia cognitiva, la paura è legata a pensieri distorti, anticipatori o catastrofici. È ciò che alimenta i disturbi d’ansia, le fobie e gli attacchi di panico.

    Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2022)una persona su otto nel mondo soffre di disturbi d’ansia. Tra i giovani europei, l’ansia sociale colpisce circa il 20% degli adolescenti (Eurofound, 

    2023).

    PAURA E SOCIETÀ: COSTRUTTO CULTURALE E POLITICO

    In chiave sociologica, la paura è alimentata da un clima di incertezza sistemica. Viviamo in una società del rischio(Beck), in cui l’iper-esposizione ai media e la precarietà diffusa amplificano la percezione del pericolo.

    La paura sociale è anche un dispositivo di controllo: in tempi di crisi, può essere strumentalizzata da politica, economia e comunicazione. La pandemia da COVID-19 ha rappresentato un esempio paradigmatico, generando un aumento globale dei livelli di ansia e fobia sociale, come documentato in una meta-analisi del 2021 pubblicata su The Lancet.

    ANTROPOLOGIA DELLA PAURA

    Dal punto di vista antropologico, la paura è un’emozione universale ma codificata in modo diverso nelle varie culture. In molte società tradizionali, il timore non si concentra su eventi concreti, ma su entità invisibili, tabù, riti non compiuti.

    L’antropologa Mary Douglas ha osservato che “il pericolo è attribuito a ciò che viola l’ordine simbolico”, suggerendo che la paura nasce anche dalla perdita di senso e dal timore dell’anomalia culturale.


    PERCHÉ LA PAURA CI FA VIVERE MALE?

    La paura acuta è utile. Ma se cronicizzata, diventa disfunzionale. L’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) porta a un rilascio prolungato di cortisolo, che in eccesso può danneggiare l’ippocampo, alterare la memoria e abbassare la soglia di tolleranza allo stress (McEwen, 2007).

    Inoltre, la paura costante limita la libertà comportamentale e inibisce la capacità decisionale. In adolescenza, per esempio, può inibire la sperimentazione, la socializzazione e l’autonomia.

    STRUMENTI PER FRONTEGGIARE LA PAURA

    🔹 1. Psicoterapia e ristrutturazione cognitiva

    La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) aiuta a identificare e correggere le distorsioni cognitive che alimentano la paura. Gli studi di Aaron Beck e, più recentemente, quelli di David Clark e Paul Salkovskis hanno dimostrato un tasso di efficacia superiore al 70% nel trattamento delle fobie e dei disturbi d’ansia.

    🔹 2. Tecniche di regolazione fisiologica

    Pratiche come la respirazione diaframmatica, la coerenza cardiaca e la mindfulness-based stress reduction (MBSR)(Kabat-Zinn) mostrano effetti benefici sulla regolazione dell’attività amigdaloide.

    🔹 3. Relazioni protettive

    Il sostegno sociale, come dimostrato da uno studio longitudinale su oltre 5.000 individui (Harvard Study of Adult Development), riduce l’impatto delle paure croniche sul benessere psichico.

    🔹 4. Educazione emotiva

    L’alfabetizzazione emotiva nei contesti educativi è un antidoto potente. In Italia, i progetti MIUR legati alla prevenzione del disagio giovanile includono la gestione della paura tra le competenze socio-emotive.

    🔹 5. Esposizione graduale (Desensibilizzazione)

    Tecniche come l’Exposure Therapy e l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) permettono di disinnescare le memorie traumatiche, favorendo una rielaborazione sicura del ricordo.

    CONCLUSIONI

    La paura è una funzione essenziale dell’organismo umano. Tuttavia, nel contesto ipermoderno, rischia di diventare uno stato psichico pervasivo più che un’emozione momentanea. Comprendere dove nasce, come si manifesta e con quali strumenti affrontarla è oggi un’urgenza educativa, clinica e sociale.

    Solo così potremo evitare che un meccanismo di difesa si trasformi in una trappola esistenziale.

  • Dove sono i Samaritani?

    Dove sono i Samaritani?

    La Chiesa alla prova della fraternità spezzata

    Ci si affanna nelle cattedrali e nelle parrocchie. Si prega, si canta, si marcia dietro stendardi e reliquie. Ma quando il fratello cade — e magari è proprio un sacerdote, uno che ha spezzato il pane e la Parola accanto a noi — allora spesso resta solo, gettato ai margini della strada, come l’uomo della parabola. E i primi a passare oltre, oggi come ieri, sono proprio coloro che conoscono le Scritture e officiano i culti.

    Il sacerdote malato, isolato, dimenticato, è una ferita viva nel corpo della Chiesa. E ciò che brucia di più non è solo la malattia o il dolore, ma l’abbandono da parte dei confratelli, dei cosiddetti “fratelli nel ministero”. Tutti troppo occupati, troppo assorbiti, troppo inseriti. Come se il Vangelo fosse una serie di impegni e non un’esistenza da condividere.

    Hans Urs von Balthasar scriveva:

    “Chi pretende di comprendere Cristo senza lasciarsi trafiggere da Lui, inganna sé stesso.”

    Ecco: la nostra Chiesa è diventata talvolta esperta nell’amministrare Cristo, ma lenta nel lasciarsi trafiggere dal dolore dell’altro. Abbiamo ridotto la koinonía a una parola di verbale pastorale. Eppure, senza fraternità reale, incarnata, non c’è comunità cristiana.

    Una spiritualità senza grembiule

    Don Tonino Bello ce lo ha insegnato con forza:

    “Il grembiule viene prima della stola.”

    Eppure, quante volte indossiamo la stola nei momenti pubblici, nei riti solenni, e poi ci dimentichiamo il grembiule della carità nel quotidiano? È proprio lì, nella corsia d’ospedale, nella casa silenziosa del prete anziano, nel dolore taciuto di un confratello ferito, che si misura l’autenticità della nostra fede.

    Abbiamo edificato una Chiesa che teme la vulnerabilità, che copre le ferite, che fugge dal pianto. Ma la Chiesa del Cristo crocifisso non può non essere anche la Chiesa del fratello sofferente. Dove sono i samaritani?

    Il grembiule oltre la stola: la profezia di don Tonino

    Don Tonino Bello non fu solo un vescovo della prossimità: fu un poeta del Vangelo incarnato. Tra le sue immagini più potenti c’è quella del grembiule, che egli opponeva alla stola non in termini di contrapposizione, ma di gerarchia evangelica. La stola è il segno del ministero, della sacralità liturgica; ma il grembiule — simbolo del servizio umile, dell’amore che si china — è l’indumento che Cristo indossa nel cenacolo, prima di ogni altra cosa.

    Scriveva:

    “Il grembiule non è un accessorio. È il paramento liturgico per eccellenza, quello senza il quale la stola rischia di diventare un ornamento vuoto, un segno sterile.”

    Nella visione di don Tonino, la stola riceve senso solo se attraversata dall’amore operoso del grembiule. È un grido contro ogni clericalismo, contro ogni ministero vissuto come potere o prestigio. E questa prospettiva è quanto mai urgente oggi, in una Chiesa che rischia di moltiplicare liturgie e appesantirsi di parole, ma impoverirsi di gesti reali.

    Il grembiule ci ricorda che non basta “fare” il prete, occorre essere fratelli. E la fraternità non si celebra a parole: si esercita chinandosi.

    Il paradosso della liturgia senza carità

    Ogni giorno celebriamo la memoria del Dio che si è fatto servo, che ha lavato i piedi ai suoi discepoli, che si è lasciato ferire per amore. Ma poi, nella pratica, il culto diventa più importante del cuore. Corriamo al tempio, ma evitiamo chi giace per terra.

    Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer parlava di “grazia a buon mercato”, e forse anche noi, nella Chiesa cattolica, abbiamo cominciato a distribuire “fraternità a buon mercato”: fatta di parole, di sorrisi istituzionali, di comitati. Ma quando il confratello crolla — perché è depresso, perché è stanco, perché è in crisi — allora il vuoto si fa silenzio assordante.

    Un esame di coscienza ecclesiale

    Che cosa sbaglia la Chiesa? Sbaglia quando dimentica che l’essenza del Vangelo non è la correttezza dottrinale né l’efficienza organizzativa, ma la prossimità. Cristo non ha lasciato un’agenda, ma una vita donata. La Chiesa sbaglia quando confonde la missione con l’ansia di visibilità, quando preferisce l’evento al volto.

    E noi? Noi cattolici sbagliamo quando ci accontentiamo di un cristianesimo da calendario liturgico, e non di una fede che scende per strada, che si ferma, che fascia le ferite.

    Il Buon Samaritano è l’icona eversiva di una Chiesa che non fugge. E Cristo — che nel Vangelo ci appare sempre accanto ai piccoli, ai poveri, ai feriti — ci interroga: dove siamo noi, davvero?

    Spiragli di speranza

    Eppure, non tutto è perduto. Ogni volta che un sacerdote si prende cura di un altro sacerdote, che un fedele va a trovare un parroco dimenticato, che una comunità si fa carico del dolore dell’altro, lì si ricrea la Chiesa delle origini, la koinoníadello Spirito.

    Occorre una conversione pastorale che non sia solo programmatica ma spirituale, fraterna, empatica.
    Occorre tornare a lavare i piedi.

    Perché “da questo sapranno che siete miei discepoli: se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13,35).

  • Diamante o carbone

    Diamante o carbone

    La forma che decidiamo di dare alla luce

    Nel cuore delle scelte umane vibra una tensione silenziosa, una dialettica tra possibilità e rinuncia, tra luce e materia, tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere. Pavel Florenskij, genio dell’intelligenza mistica e scientifica, ci ha insegnato che la forma è luce che si trattiene, che prende corpo. In uno dei suoi passaggi più folgoranti, suggerisce che la verità non è data, ma formata: come un raggio che attraversa un prisma, si distingue in mille sfumature a seconda dell’angolo da cui lo si osserva.

    In questa lente, ogni nostra decisione diventa il punto focale in cui la luce si condensa. E a ben guardare, ogni scelta è una metamorfosi silenziosa: potremmo restare carbone, o farci diamante. Non per valore intrinseco, ma per pressione, per pazienza, per interiorità.

    Il peso delle decisioni: la geologia dell’anima

    Il carbone e il diamante, come noto, condividono la stessa origine chimica: entrambi sono forme allotropiche del carbonio. Ma ciò che li distingue è l’intensità delle condizioni cui sono sottoposti. Il carbone è materia che ha scelto il riparo, il nascondimento. Il diamante, al contrario, è il risultato di una compressione estenuante, di un buio millenario, di una fedeltà a sé stessi nonostante tutto.

    Così anche le scelte umane si configurano non tanto come atti volitivi episodici, ma come sedimentazioni, strati di coscienza accumulati nel tempo, decisioni che assumono forma. Ogni rinuncia, ogni passo in avanti, ogni sosta è una firma esistenziale.

    L’angolo da cui guardi fa la luce che vedi

    Florenskij amava dire che l’occhio interiore non vede la realtà, ma una realtà filtrata dalla disposizione del cuore. Come il prisma scompone la luce, così ogni nostro “sguardo” mentale può trasformare un problema in occasione, una sconfitta in radice di sapienza. Non è un ingenuo ottimismo, ma un realismo spirituale: il mondo non cambia, cambiamo noi nel guardarlo.

    La depressione, la crisi, il lutto, l’abbandono – tutte queste sono esperienze che possono generare carbone o, in certi casi, produrre diamante. Non per automatismo, ma per scelta della forma da dare a ciò che ci accade. Il dolore, come insegna anche Viktor Frankl, può essere trasformato in significato. Ma solo se scelgo di farlo.

    Psicologia delle forme: come modelliamo il senso

    Nella psicologia esistenziale, ogni scelta è un atto creativo. Il soggetto non subisce il mondo, lo interpreta, lo forma, lo colora con la propria struttura di senso. È questa l’eredità più profonda di Florenskij: la verità non è un dato neutro, è una presenza che si plasma nella coscienza attraverso le forme che le diamo – etiche, estetiche, spirituali.

    Dare forma al dolore, alla gioia, alla perdita, alla colpa, significa non lasciarli liquefare nel caos del non senso. È come scolpire la luce. Alcuni si pietrificano nelle loro esperienze; altri, con mani tremanti, le trasformano in cattedrali invisibili.

    Diamante e carbone: due modi di attraversare il buio

    La vera domanda non è “Cosa mi è successo?”, ma “Cosa ho deciso di fare con ciò che mi è successo?”. In questo senso, non esistono davvero traumi che non possano essere integrati, né felicità che durino senza forma. Ogni esistenza si gioca nella costanza con cui scegliamo se rimanere materia opaca o farci trasparenza solida.

    Diamante e carbone non sono che due facce della stessa possibilità: la nostra. Entrambi vivono nel sottosuolo della nostra anima. Ma solo uno riflette la luce, perché ha deciso di attraversarla.

    Conclusione: la scelta come opera d’arte

    Ogni vita è una scultura. A volte levighiamo il dolore, altre volte lo abbandoniamo grezzo. Ma nulla è inutile, se lo scegliamo davvero. In un tempo dove tutto sembra deciso dal caso o dall’impulso, riscoprire la sacralità della scelta diventa un atto rivoluzionario.

    Siamo ciò che decidiamo di diventare. E ogni nostra decisione è un modo di scolpire la luce.

  • Studenti Muti all’Esame: Ribellione o Fallimento Educativo?

    Studenti Muti all’Esame: Ribellione o Fallimento Educativo?

    Quando il silenzio fa rumore: l’esame di maturità come teatro della crisi educativa

    Il recente fenomeno del “silenzio alla maturità”, messo in atto da alcuni studenti come forma di boicottaggio simbolico dell’Esame di Stato, rappresenta ben più di un atto di ribellione generazionale: è la spia evidente di un disagio sistemico, profondo, stratificato. Non siamo di fronte a semplici episodi isolati, ma a una forma estrema di disaffezione che, pur minoritaria, interpella la scuola e la società nel suo complesso.

    Un fallimento educativo travestito da protesta

    Quando uno studente decide di non rispondere, di non partecipare, di tacere per protesta, non sta solo criticando una prova d’esame. Sta denunciando un’intera architettura scolastica che, a suo dire, non lo ha ascoltato, né formato pienamente. È il sintomo di un fallimento educativo che ha smarrito l’orizzonte della motivazione, della relazione formativa, del significato del merito.

    Il vero problema non è il gesto eclatante, bensì ciò che lo precede: un’intera narrazione scolastica che, per molti, è percepita come alienante, impersonale, distante dalla realtà. La scuola valutativa, performativa, standardizzata, sembra perdere contatto con la sua vocazione originaria: educare alla responsabilità, al pensiero critico, alla cittadinanza.

    Il ministro Valditara e il giro di vite: una risposta necessaria?

    Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha annunciato una stretta disciplinare a partire dal prossimo anno, con l’introduzione della bocciatura automatica per chi si sottrae volontariamente all’Esame di Stato. Una misura forte, che trova giustificazione nel bisogno di ripristinare l’autorevolezza dell’istituzione scolastica e tutelare il valore del titolo di studio.

    Pur concordando con la necessità di difendere la dignità del sistema formativo, è fondamentale non confondere la fermezza con la rigidità. La repressione, da sola, non educa: deve essere accompagnata da una riflessione profonda sulle carenze pedagogiche che portano alcuni giovani a compiere simili gesti.

    I precedenti pericolosi: legittimare l’antimerito?

    Un esame boicottato non è un semplice “no” al sistema: è un gesto che rischia di legittimare l’antimeritocrazia e l’irresponsabilità diffusa. Quando il merito è svilito, quando il percorso scolastico viene visto come qualcosa da aggirare anziché da affrontare, si mina la credibilità dell’intero sistema educativo.

    Educare significa anche chiedere conto, stimolare la consapevolezza del valore dello studio e della fatica formativa. La scuola non è un contenitore neutro: è un laboratorio etico, dove si sperimenta l’impegno, si affrontano le difficoltà, si costruisce l’identità adulta.

    Luci di speranza: un’educazione che deve (ri)cominciare

    Non tutto è perduto. Questa protesta, se letta con intelligenza pedagogica, può trasformarsi in un’occasione di autoriflessione collettiva. Gli studenti che scelgono il silenzio andrebbero interrogati, ascoltati, compresi. Ma anche accompagnati a riscoprire il valore dell’impegno, della parola, della costruzione del sapere.

    È necessario promuovere una riforma culturale prima ancora che normativa: valorizzare la relazione educativa, ridefinire la valutazione in termini formativi, creare ambienti scolastici che siano davvero “luoghi di senso”. Non serve un esame più facile, serve un percorso scolastico più giusto, più significativo, più umano.

    Conclusione: tra fermezza e ascolto, la scuola può ancora educare

    La maturità non può diventare un palcoscenico per proteste autoreferenziali, né un tribunale ideologico contro l’intero sistema scolastico. Ma può e deve essere un punto di ripartenza. Serve una scuola che non premi il silenzio, ma che insegni ad abitare la parola, anche quella critica, con coraggio e competenza. Perché educare non significa solo trasmettere nozioni, ma accendere coscienze.

  • 📖 Sbilico: Quando la mente deraglia

    📖 Sbilico: Quando la mente deraglia

    Il romanzo Sbilico di Luca Pierantozzi si presenta al lettore come un esercizio di equilibrio sull’orlo del precipizio psichico, un’opera disturbante e lirica che penetra con chirurgica delicatezza nell’universo adolescenziale attraversato dal disagio mentale. Non siamo di fronte a una narrazione tradizionale: Sbilico è un manoscritto emotivo sfilacciato, una cartella clinica redatta in versi, una confessione interiore che sfugge alla diagnosi e si consegna nuda alla pagina.

    Il protagonista, Edoardo, è un ragazzo fragile, ipersensibile, a tratti visionario. Intelligente, poetico, eppure irriducibilmente alienato, Edoardo abita la soglia tra la realtà e la sua deformazione: ogni elemento del suo mondo si frantuma in percezioni alterate, in pensieri ossessivi, in paure che prendono corpo. Il lettore viene trascinato dentro una mente sbilenca, dissestata, che non riesce più a orientarsi nei territori del quotidiano. E qui la scrittura di Pierantozzi è mirabile: l’andamento sincopato, la punteggiatura che si disgrega, il ritmo spezzato della narrazione mimano esattamente il funzionamento di un pensiero disturbato, rendendolo non solo comprensibile ma, in certi momenti, dolorosamente condivisibile. Pierantozzi – insegnante e poeta – dimostra una straordinaria competenza pedagogica e psichiatricaSbilico è letteratura, ma è anche osservazione clinica, denuncia educativa, grido pedagogico. Edoardo è un adolescente la cui identità viene erosa da un contesto familiare ambiguo, da una scuola incapace di contenere e riconoscere le sue differenze, da un mondo adulto che oscilla tra la paura e l’indifferenza.

    👁️‍🗨️ Una narrativa del sintomo: tra psicopatologia e poesia

    Il romanzo affronta, senza mai nominarle in modo diretto, tematiche afferenti alla schizofrenia precoce, ai disturbi dell’umore, alle fasi dissociative dell’adolescenza. Ma lo fa con uno stile che ricorda i grandi maestri della letteratura del disagio: Sbilico sembra voler dialogare silenziosamente con Memorie di un malato di nervi di Schreber, con le visioni di Alda Merini, con il realismo tragico di Silvia Plath. La follia non è esibita, ma suggerita, come una fenditura ontologica nell’essere stesso del protagonista.

    Il nome “Sbilico” non è casuale: indica una postura esistenziale inclinata, un’oscillazione continua tra polarità psichiche, tra desiderio e paura, lucidità e delirio, desiderio d’amore e orrore del legame. L’autore non concede al lettore facili certezze o redenzioni: non c’è un lieto fine, né una risoluzione terapeutica, ma solo l’accettazione tragica della complessità mentale umana.

    🧠 Una lettura terapeutica per adulti disattenti

    Per genitori e insegnanti, Sbilico rappresenta uno strumento di sensibilizzazione potente: ci ricorda quanto l’adolescente, oggi più che mai, sia una creatura liminare, affacciata su abissi che spesso gli adulti si ostinano a ignorare. La scuola, nel romanzo, è specchio della cecità istituzionale: più che un luogo di crescita, appare come un meccanismo di esclusione, incapace di accogliere chi non rientra negli standard cognitivi ed emotivi.

    Lo sguardo dell’autore è però sempre carico di pietas educativa: Edoardo non è un “caso”, ma un’anima. È una voce che chiede ascolto, contenimento, interpretazione. Ed è qui che il romanzo si offre come materiale vivo per chi opera nella relazione d’aiuto: psicologi scolastici, educatori, clinici dell’età evolutiva, counselor, potranno riconoscere nelle pagine di Sbilico una drammatizzazione letteraria dei vissuti che ogni giorno si incontrano nei corridoi dei licei, nelle stanze della psicoterapia, negli occhi dei ragazzi che non riescono a stare “in asse”.

  • Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

    Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

    Il mito delle 5 ore: quanto apprendono davvero gli studenti?

    L’architettura oraria della scuola italiana — mediamente composta da cinque moduli da 60 minuti — risale a modelli educativi del primo Novecento. Oggi, le neuroscienze dimostrano che questo assetto è incompatibile con il funzionamento neurobiologico dell’attenzione umana, soprattutto in età evolutiva.

    Uno studio pubblicato su Teaching of Psychology (Wilson & Korn, 2007) ha evidenziato come il picco di attenzione si raggiunga nei primi 10-15 minuti di una lezione, per poi declinare drasticamente. Dopo 30 minuti, il cervello è già in fase di disimpegno. A 45 minuti, l’apprendimento è minimo, salvo nei casi in cui si introducano variazioni di stimolo, pause o metodi attivi.

    Quanto si trattiene dopo una giornata scolastica?

    Secondo la curva dell’oblio di Ebbinghaus, senza rinforzo:

    • Dopo 24 ore, si dimentica il 70% delle nozioni ricevute.
    • Dopo una settimana, resta meno del 10%.

    Questi dati sono stati confermati da ricerche più recenti sull’apprendimento, come quelle condotte da John Dunlosky e Elizabeth Bjork: la ripetizione distribuita, il recupero attivo e il testing effect sono decisivi per il consolidamento in memoria a lungo termine.

    Dalla lezione trasmissiva alla didattica neurocompatibile

    L’inadeguatezza del modello lezione-spiegazione-interrogazione ha portato a una nuova pedagogia delle neuroscienze. La cosiddetta neurodidattica propone formati brevi, modulari e multisensoriali, con momenti di rielaborazione attiva.

    Tra le alternative già in sperimentazione:

    • Spaced Learning (UK, progetto dell’OECD): lezioni da 20 minuti, interrotte da 10 minuti di attività motorie o ludiche. Risultato: +17% di ritenzione a lungo termine.
    • Metodo CLIL e flipped classroom: lo studente è al centro del processo, attivo nella costruzione di significato. Il docente diventa mediatore e facilitatore cognitivo.
    • Metodo finlandese: lezioni da 45 minuti, con pause ogni 15, alto uso di outdoor education. Secondo PISA 2022, la Finlandia è tra i Paesi con migliori risultati in reading e problem-solving.
    • Scuole senza voti (Germania, Olanda): il focus si sposta su feedback qualitativi e sviluppo metacognitivo.

    Progetti pilota italiani

    In Italia, alcune esperienze pionieristiche stanno tracciando nuove vie:

    • Istituto Comprensivo di Trento 7, con il progetto “Tempo modulato”: lezioni da 30 minuti, alternate a momenti di scrittura cooperativa, coding, attività teatrali.
    • Scuole Senza Zaino: al centro la responsabilizzazione dello studente e la progettualità personale.
    • “Didattica del silenzio” di Franco Lorenzoni, Casa-laboratorio di Cenci: stimolazione dell’intelligenza emotiva, non solo cognitiva.

    Quale futuro per la didattica?

    Occorre ripensare radicalmente la scansione temporale dell’apprendimento:

    • Moduli di 20-25 minuti con frequenti pause attive
    • Integrazione di attività motorie e manipolative
    • Valutazioni formative e non solo sommative
    • Ambienti di apprendimento flessibili e neuroergonomici

    La scuola del futuro dovrà essere bio-compatibile, adattata al ritmo cerebrale e non viceversa.

  • Serie sul bullismo: da ‘Adolescents’ a ‘The Glory’

    Serie sul bullismo: da ‘Adolescents’ a ‘The Glory’

    “The Glory e Adolescents: cosa ci insegnano davvero le serie sul dolore adolescenziale?”

    Da Adolescents a The Glory: lo spettacolo del trauma, l’epica della vendetta

    L’universo delle serie tv contemporanee – e in particolare Adolescents (Francia, 2019) e The Glory (Corea del Sud, 2022-2023) – è diventato un laboratorio narrativo dove si esplora il dolore adolescenziale con una crudezza che a tratti turba, a tratti seduce. Ma cosa accomuna due prodotti tanto distanti per cultura, estetica e registro?

    L’uno, un documentario che accompagna per cinque anni due ragazze nel loro percorso di crescita, è una lente sociologica sul disagio quotidiano. L’altro, una serie di fiction, è un’esplosione stilizzata di violenza psicologica, bullismo estremo e vendetta catartica. Eppure, a ben vedere, Adolescents e The Glory parlano della stessa ferita: la costruzione dell’identità sotto il peso dell’umiliazione e dell’indifferenza adulta.

    Il trauma come architrave narrativa

    In entrambi i casi, il trauma non è solo un tema, ma il vero motore drammaturgico. Non assistiamo semplicemente a una cronaca del dolore adolescenziale, ma alla sua estetizzazione. The Glory, in particolare, trasforma il trauma in un’ossessione ipnotica, rendendolo oggetto di uno sguardo voyeuristico e al tempo stesso catartico. La protagonista, Moon Dong-eun, non chiede pietà: architetta una vendetta chirurgica. E lo spettatore applaude.

    In Adolescents, la vendetta non arriva. Ma resta la stessa sensazione: l’istituzione scolastica è assente, la famiglia spesso inconsapevole o impotente. È l’adolescente a portare il peso del mondo, in solitudine.

    Perché ci attraggono queste storie?

    Queste serie non solo ci intrattengono. Ci parlano. Anzi, ci mettono a nudo. Il successo di The Glory – oltre 437 milioni di ore visualizzate nel mondo (fonte: Netflix, 2023) – mostra quanto la società globale si identifichi nel bisogno di giustizia, anche se privata. Ma ciò che più inquieta è la legittimazione implicita: lo spettatore non condanna la protagonista, parteggia per lei. E in questo, la serie diventa specchio di una società incapace di perdonare, ma abilissima nell’architettare punizioni narrative.

    Adolescents, al contrario, ci chiede di guardare senza filtri. Ci costringe a sopportare il tempo lungo dell’attesa, della trasformazione, dell’inadeguatezza.

    Spunti di riflessione per genitori ed educatori

    1. Il bullismo non è fiction. Le scene estreme di The Glory non sono frutto di pura invenzione: la stessa sceneggiatrice, Kim Eun-sook, ha dichiarato di essersi ispirata a reali episodi di cronaca scolastica sudcoreana. Secondo i dati dell’OECD (2023), il 23% degli studenti in Corea ha subito atti di bullismo fisico o verbale. In Italia, i numeri non sono meno inquietanti: ISTAT 2021 riporta che oltre il 22% degli adolescenti è stato vittima di atti di prevaricazione.
    2. Il silenzio degli adulti. Entrambe le opere denunciano, in modo implicito o esplicito, la latitanza delle figure adulte: genitori distratti, insegnanti inerti, dirigenti scolastici complici. Un dato su cui riflettere seriamente, poiché suggerisce che non esiste trauma giovanile senza corresponsabilità adulta.
    3. Vendetta o giustizia riparativa? L’epica della vendetta affascina, ma educa? Lo spettatore che si identifica nella vendetta rischia di rinunciare alla cultura del perdono e della riparazione. In questo senso, The Glory lancia una sfida etica: possiamo davvero celebrare la giustizia quando somiglia alla vendetta?

    Conclusione: lo schermo come specchio pedagogico

    Nel loro linguaggio visivo e narrativo, Adolescents e The Glory parlano anche agli adulti: ai genitori che non ascoltano, agli insegnanti che non vedono, agli psicologi che arrivano tardi. Ma soprattutto agli educatori – in senso lato – che hanno ancora il compito di costruire contesti in cui l’identità adolescenziale possa svilupparsi senza dover attraversare il deserto dell’umiliazione.

    Guardare queste serie con occhi critici, insieme ai propri figli o studenti, può diventare un’occasione educativa. Purché si abbia il coraggio di porre le domande giuste: chi sono io in questa storia? E cosa avrei fatto se fossi stato lì?

  • Adolescenti senza riposo: la nuova epidemia del sonno interrotto

    Adolescenti senza riposo: la nuova epidemia del sonno interrotto

    Il sonno degli adolescenti: un problema sottodimensionato

    Dormire male o troppo poco non è più un’eccezione tra i giovani, ma una condizione diffusa che mina salute, apprendimento e sviluppo psico-affettivo. Oggi, i disturbi del sonno in adolescenza rappresentano una vera emergenza clinico-educativa. L’alterazione dei ritmi circadiani, l’abuso di dispositivi digitali e una società sempre più performativa stanno trasformando il sonno in un lusso biologico.

    Qualità del sonno in declino: cosa accade nel cervello

    La riduzione delle ore di sonno e l’alterazione del ritmo circadiano influiscono direttamente sulla regolazione di importanti neurotrasmettitori, tra cui serotonina, dopamina e melatonina. Studi condotti dal National Sleep Foundation e pubblicati su Sleep Health (2021) evidenziano che il ritardo della fase del sonno (DSPD – Delayed Sleep Phase Disorder) è sempre più comune: gli adolescenti tendono ad addormentarsi dopo mezzanotte e a svegliarsi con fatica, in una dissincronia biologica con gli orari scolastici.

    Inoltre, la fase REM – cruciale per la consolidazione mnemonica ed emotiva – risulta frammentata e insufficiente. L’eccessiva esposizione alla luce blu dei dispositivi elettronici inibisce la secrezione di melatonina, l’ormone che regola l’addormentamento. Ciò comporta un aumento significativo di irritabilità, calo dell’attenzione, disturbi del comportamento e sintomatologie ansioso-depressive.

    Conseguenze cliniche e scolastiche

    Uno studio dell’Università di Bologna (2023), condotto su un campione di oltre 3.000 adolescenti italiani, ha evidenziato che il 61% riferisce stanchezza cronica, il 39% disturbi dell’umore e il 22% un peggioramento del rendimento scolastico. I disturbi del sonno sono stati correlati anche all’aumento del rischio suicidario, secondo un’indagine longitudinale del CDC Youth Risk Behavior Survey (2020-2023).

    Gli adolescenti insonni tendono a sviluppare più frequentemente condotte a rischio (uso di sostanze, guida pericolosa, autolesionismo), in una spirale che autoalimenta l’instabilità emotiva.

    Scenari futuri e modelli di intervento

    Alla luce di questi dati, le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità invitano a una revisione dei tempi scolastici, suggerendo l’inizio delle lezioni non prima delle 9:00. Alcuni paesi come Finlandia e Canada hanno già sperimentato con successo tali modifiche, riportando miglioramenti nel benessere e nell’apprendimento.

    In ambito clinico, si stanno sperimentando nuovi approcci:

    • Terapie cronobiologiche: utilizzo di luce naturale artificiale per rieducare il ritmo circadiano.
    • Interventi psicoterapeutici cognitivo-comportamentali specifici per l’insonnia (CBT-I).
    • Supplementazioni di melatonina a basso dosaggio, sotto stretto controllo medico.
    • Educazione al sonno come parte del curriculum scolastico, con progetti pilota già attivi in Emilia-Romagna e Trentino-Alto Adige.

    Centri specializzati e servizi attivi

    In Italia esistono alcuni poli d’eccellenza per la diagnosi e il trattamento dei disturbi del sonno in età evolutiva:

    • Centro di Medicina del Sonno dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (Roma): valutazioni polisomnografiche e ambulatorio per disturbi del sonno in età evolutiva.
    • IRCCS Eugenio Medea (Bosisio Parini – LC): interventi multidisciplinari su bambini e adolescenti con insonnia primaria e secondaria.
    • Centro Regionale per i Disturbi del Sonno dell’Ospedale Maggiore di Bologna: orientato anche all’età adolescenziale.
    • Clinica del Sonno di Milano (Fondazione Mondino): eccellenza in diagnosi del ritardo di fase e disturbi associati a patologie neurologiche.
    • Servizi di Neuropsichiatria Infantile territoriali, oggi in fase di potenziamento grazie al PNRR e alle nuove linee guida regionali.

    Conclusione

    Il sonno degli adolescenti non può più essere un dettaglio secondario. È una necessità biologica, un indicatore di salute mentale, e un prerequisito per l’apprendimento e lo sviluppo.

    L’insonnia adolescenziale non va confusa con la pigrizia. È un campanello d’allarme neurobiologico. Riconoscerla e trattarla significa sostenere lo sviluppo cognitivo, prevenire possibili disagi psicologici.

  • “Esame di Stato: è tempo di cambiare”

    “Esame di Stato: è tempo di cambiare”

    Quando un percorso si gioca in ore: un sistema da ripensare

    La prova finale della scuola superiore italiana – l’Esame di Stato – è spesso vissuta dagli studenti più come un giudizio sommario che come una celebrazione di un percorso formativo. Dopo cinque anni di studio, crescita, ostacoli superati, difficoltà familiari o personali, la valutazione viene compressa in una manciata di ore, in un contesto altamente ansiogeno, dove il rischio di inciampare è reale.

    Secondo i dati dell’ISTAT 2023, oltre il 71% degli studenti lamenta un senso di sproporzione tra l’impegno profuso durante l’intero ciclo scolastico e la modalità con cui si chiude il percorso. Il problema non è solo psicologico, ma pedagogico e valutativo.

    Una passerella, non un tribunale: cambiare prospettiva

    Si fa sempre più largo la proposta di ripensare l’Esame di Stato come una “passerella formativa”, un momento non di selezione, ma di valorizzazione del percorso compiuto. Un colloquio che tenga conto non solo delle conoscenze, ma anche delle competenze trasversali: emotive, relazionali, progettuali.

    Molti pedagogisti parlano di valutazione narrativo-riflessiva, dove lo studente racconta la propria evoluzione cognitiva ed emotiva, e non è giudicato su uno scritto che spesso ripropone modelli scolastici vetusti, anacronistici, decontestualizzati.

    Quesiti troppo distanti: il problema della distanza scuola-realtà

    Molte delle tracce proposte nelle prove scritte sono percepite come lontane dalla vita degli studenti, talvolta forzatamente retoriche o culturalmente decontestualizzate. Si dimentica che la scuola è lo specchio della società, e un esame dovrebbe essere il luogo in cui si misurano anche capacità di analisi, empatia, senso critico.

    Nel 2024, un’indagine del Censis ha evidenziato come il 62% dei maturandi ritenga “poco utili” o “non aderenti alla realtà” i temi proposti alla prima prova.

    Come si fa maturità altrove: uno sguardo europeo

    PaeseNome dell’EsameModalità
    FranciaBaccalauréatEsami orali e scritti, valutazione del percorso e delle soft skills dal 2021
    GermaniaAbiturProve scritte e orali, rilevanza del voto dell’ultimo anno scolastico
    Regno UnitoA-LevelsEsami centrati su tre materie scelte, forte peso alla valutazione continua
    FinlandiaYlioppilastutkintoEsami scritti digitali, molta flessibilità, focus su competenze personali
    SpagnaEvaluación de BachilleratoEsami centralizzati, parte dei voti viene dal rendimento scolastico

    Nota: I modelli più avanzati (Francia, Finlandia) stanno spostando il focus su colloqui individualizzati, dossier esperienziali, e prove che integrano competenze trasversali e digitali.

    Progetti pilota: c’è chi ci prova già in Italia

    • Scuola-Campus (Trento): alcune scuole sperimentano da anni una tesi finale discussa in modalità colloquiale, integrata da video e project work.
    • Liceo delle Scienze Umane “G. Bruno” (Roma): ha avviato un progetto di maturità riflessiva, con rubriche valutative che includono intelligenza emotiva, cooperazione e resilienza.
    • Progetto #CompetenzeChiave (MIUR): ha tracciato linee guida per una valutazione orientata a competenze europee chiave per l’apprendimento permanente.

    Conclusione: la maturità deve diventare un’opportunità educativa, non un trauma

    Un esame dovrebbe riconoscere la complessità di ogni studente e misurare ciò che davvero conta: capacità di apprendere, di riflettere, di relazionarsi con il mondo. Serve coraggio politico, visione pedagogica e una scuola che si emancipi dal culto della prestazione per abbracciare quello della formazione integrale.

  • La grammatica smarrita dell’amicizia

    La grammatica smarrita dell’amicizia

    L’amicizia: tra parola inflazionata e assenza reale

    “Amico” è oggi tra le parole più abusate e svuotate di senso. Un’etichetta generica per ogni contatto, ogni follower, ogni reazione sui social. L’amicizia è diventata una grammatica smarrita, una lingua dimenticata, fondata più sul consumo emotivo che sulla relazione autentica.

    Eppure, l’etimologia stessa di “amicus” richiama l’amare, l’accogliere, l’essere per. Ma dove si colloca oggi questa forma antica di prossimità? Forse proprio nell’abbandono di chi resta solo nel momento più vulnerabile. Come nel caso di Mariano, ragazzo di 16 anni, morto qualche giorno fa in una lingua di spiaggia a Cagliari, dopo aver passato la serata in compagnia di “amici” e poi lasciato solo, non aspettato, non soccorso. Nessuna sa, nessuno vuole raccontare cosa sia realmente successo. Un muro di omertà che lascia tutti interdetti. Mentre le indagini vanno avanti, a noi resta l’amaro in bocca e tanti interrogativi sulle modalità di gestione delle relazioni.

    Heidegger e il concetto di “esser-con”

    Nel suo capolavoro Essere e TempoMartin Heidegger introduce il concetto di Mitsein, l’esser-con, come categoria ontologica dell’esistenza umana. L’amicizia, in questa prospettiva, non è un optional affettivo, ma una condizione fondamentale del nostro essere al mondo. È un “esserci” per l’altro, non invadente ma discreto, non funzionale ma condiviso.

    In tempi di connessioni digitali e disconnessioni emotive, l’amicizia vera si misura nella capacità di stare, di ascoltare senza offrire soluzioni, di abitare il silenzio con l’altro. L’amico non si chiede “cosa posso fare per te”, ma “posso essercicon te?”. È questo il vero antidoto alla superficialità.

    L’amicizia come dialogo educativo

    In ambito pedagogico, l’amicizia può diventare metodo di educazione affettiva, modello di coesistenza, stile di cura. Non si tratta di un legame orizzontale privo di autorevolezza, ma di una relazione generativa, dove il dialogo non è solo scambio di parole, ma esperienza trasformativa.

    Un’educazione che non si limiti al controllo, ma si fondi sull’alleanza relazionale, sulla capacità di creare spazi di verità e di fragilità condivisa. Dove l’altro non è oggetto da correggere, ma soggetto da accompagnare.

    L’abbandono: il contrario dell’amicizia

    L’abbandono non è solo fisico: è assenza emotiva, è delega, è il “non ho tempo” che si fa cronico. È lì che si tradisce l’esserci. E quando ciò accade in contesti educativi, scolastici o familiari, le ferite si fanno profonde.

    Ogni ragazzo lasciato solo nella propria crisi, ogni adulto non ascoltato nel dolore, è una frattura nella grammatica dell’amicizia.

    Ritrovare la lingua del cuore

    Rieducare all’amicizia significa restaurare la grammatica dell’anima. Insegnare ai nostri giovani che l’amicizia non si misura in emoji o visualizzazioni, ma in ore donate, in gesti taciuti, in cammini condivisi.

    È tempo di far tornare l’amicizia ad essere presenza reale e non icona sbiadita. Di restituirle la sua potenza educativa e ontologica. Di riscoprirla, infine, non come stato d’animo, ma come scelta di esserci.