Autore: admin

  • Look per l’Esame di Maturità

    Look per l’Esame di Maturità

    L’identità passa anche attraverso la stoffa che scegliamo di indossare.” D.L.

    Un rito di passaggio, non una passerella

    L’esame di maturità non è solo una prova scolastica. È il primo vero rito di passaggio sociale e psicologico che traghetta lo studente dall’adolescenza alla giovane età adulta. In questo momento di esposizione pubblica — dove si affronta un’interrogazione di fronte a una commissione — l’abito non fa il monaco, ma certamente comunica chi sei e come ti poni nel mondo.

    Vestirsi in modo adeguato significa sapersi contestualizzare, comprendere che l’abbigliamento è parte del linguaggio non verbale che accompagna e rinforza il nostro messaggio.

    Non troppo eleganti, né trasandati: la via della sobrietà

    Gli studi di psicologia sociale (Argyle, 1988) dimostrano che l’abbigliamento influenza la percezione della credibilità, competenza e sicurezza di sé. Presentarsi in modo trasandato, o al contrario eccessivamente formale, può comunicare disorientamento, esibizionismo o insicurezza.

    La chiave è la sobrietà intelligente:

    • per i ragazzi, pantaloni lunghi (non strappati), camicia o polo, scarpe chiuse (no ciabatte o infradito);
    • per le ragazze, evitare eccessi (scollature, minigonne, trucco marcato), preferendo abiti freschi ma sobri.

    Vestirsi bene non significa rinunciare alla propria personalità, ma saperla incanalare in un contesto pubblico che richiede rispetto.

    Il corpo come messaggio: postura e presenza

    Oltre all’abbigliamento, il modo di stare seduti, lo sguardo e la postura parlano della maturità raggiunta. Un corpo che si presenta composto, ordinato, con uno sguardo presente e non sfuggente, comunica sicurezza e rispetto. Questo vale anche per la voce: tono, ritmo, chiarezza.

    Educare al “sapersi porre”: un compito anche per la scuola e la famiglia

    Nessuno nasce “imparato”. Sapersi porre in un contesto pubblico è una competenza educativa che si apprende, ed è responsabilità congiunta di scuola e famiglia. Troppo spesso, l’abito viene lasciato al caso o visto come un fatto privato. Ma l’abito è anche un fatto culturale: un esercizio di decentramento, di lettura dell’altro e del contesto.

    In sintesi

    • Vestirsi per l’esame significa mostrare rispetto per l’occasione.
    • È un esercizio di empatia situazionale, non un’imposizione.
    • È un primo passo per abitare con consapevolezza gli spazi sociali dell’età adulta.

    L’importanza psicologica del vestirsi bene

    Vestirsi in modo ordinato e rispettoso non serve solo a “fare buona impressione”, ma aiuta anche a consolidare un atteggiamento mentale di serietà, ordine e padronanza. Secondo uno studio condotto dall’Università del Wisconsin(2015), studenti che vestivano in modo più formale durante test orali mostravano un maggiore controllo cognitivo e minore ansia percepita.

    Inoltre, vestirsi bene per un’occasione formale rafforza l’identità adulta, promuovendo quel senso di autoefficacia di cui parla Albert Bandura nella sua teoria sull’apprendimento sociale.

    Conclusione: educare alla decenza, non al giudizio

    Educare al vestiario non è giudicare, ma allenare lo sguardo al contesto, affinché il corpo non sia mai fuori luogo rispetto al compito. In un tempo che tende a sfumare le differenze tra occasioni, è un atto pedagogico insegnare che ogni tempo ha un suo linguaggio, anche visivo.

  • Dormire nel letto della mamma in età scolare e adolescenza

    Dormire nel letto della mamma in età scolare e adolescenza

    Quando il lettone diventa rifugio: la parabola del cosleeping prolungato

    Il cosleeping, termine anglosassone che indica la condivisione del letto tra genitore e figlio, è una pratica diffusa in molte culture del mondo. Se nei primi mesi di vita può rappresentare un valido alleato per il legame di attaccamento e per la regolazione sonno-veglia del neonato, la sua persistenza in età scolare e, ancor più, in adolescenza, solleva interrogativi profondi in ambito psicologico e pedagogico.

    Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Developmental & Behavioral Pediatrics (Mileva-Seitz et al., 2016), il cosleeping nei primi due anni di vita non è associato a problematiche comportamentali, ma la sua prolungata estensione può interferire con lo sviluppo dell’autonomia psicologica e affettiva. In un’ottica evolutiva, il letto rappresenta non solo un luogo di riposo, ma anche un simbolo della progressiva separazione-individuazione tra madre e figlio.

    Cosleeping oltre l’infanzia: un segnale o una richiesta d’aiuto?

    Quando il cosleeping si estende oltre i 10-11 anni, spesso siamo di fronte a una regressione comportamentale o a un indicatore di insicurezza ambientale o fragilità emotiva. Non sono rari i casi in cui bambini già autonomi tornino a dormire con i genitori in concomitanza con eventi stressanti: separazioni, lutti, mobbing scolastico o ansia generalizzata.

    La letteratura clinica mostra che in alcuni adolescenti il desiderio di dormire con i genitori può nascondere disturbi d’ansia o una non corretta elaborazione del processo di separazione. Uno studio italiano condotto da Miano e colleghi (2020) ha riscontrato che il 14% degli adolescenti con disturbi del sonno presentava dipendenza da cosleeping, collegata a fattori di iperprotezione materna e ansia da separazione.

    Sviluppo dell’autonomia e funzione pedagogica del distacco

    Secondo la pedagogista e psicoanalista Françoise Dolto, «l’individuazione comincia nel corpo», e il letto rappresenta il primo confine tra il “sé” e l’“altro”. Lasciare che un adolescente condivida abitualmente il letto con un genitore equivale, in termini simbolici, a congelare la separazione necessaria allo sviluppo dell’identità.

    La pedagogia del sonno sottolinea la necessità di aiutare il bambino a elaborare il distacco in modo progressivo, strutturando routine del sonno rassicuranti ma orientate all’autonomia. Questo percorso va sostenuto precocemente: ritardare il distacco può rinforzare vissuti di dipendenza e inadeguatezza.

    Cosa fare se l’adolescente chiede ancora il lettone?

    Non è necessario stigmatizzare o colpevolizzare: l’adolescente che cerca il lettone sta esprimendo un bisogno emotivo, non un capriccio. Ma il bisogno va ascoltato per essere decodificato, non sempre assecondato.

    Interventi consigliati:

    • Esplorare le cause con delicatezza e attenzione clinica (es. paure, stress, lutti).
    • Rafforzare le competenze di autoregolazione affettiva (con psicoterapia o training di mindfulness).
    • Offrire alternative simboliche (come la condivisione di momenti serali, rituali di passaggio o ristrutturazioni dello spazio personale).
    • Attivare un percorso psicopedagogico familiare, che riconsideri i ruoli e le dinamiche affettive all’interno del nucleo.

    Una riflessione clinica

    Il cosleeping non è di per sé patologico, ma può diventarlo se interferisce con i processi di crescita psicologica. Ogni famiglia ha la propria traiettoria, ma l’obiettivo educativo è comune: rendere il figlio capace di stare nel mondo senza la necessità continua della presenza fisica del genitore.

    In definitiva, come affermava Winnicott, «Una madre è buona se riesce a rendersi superflua». E forse il letto vuoto, nella camera accanto, è il primo passo verso la presenza autentica, fatta di fiducia, e non di contiguità.

  • Quando il dolore esplode: il cervello del bullizzato che si vendica

    Quando il dolore esplode: il cervello del bullizzato che si vendica

    Dalla vittimizzazione all’odio agito: cosa accade nella mente di chi non ha mai potuto raccontare il proprio trauma.

    Il ciclo del dolore: quando la vittima diventa carnefice

    Esiste un paradosso spesso ignorato ma ben documentato dalla letteratura scientifica: molti bulli sono stati, in passato, vittime di bullismo. La psicologia evolutiva e le neuroscienze stanno contribuendo a spiegare questo passaggio inquietante da vittima a persecutore, tracciando i circuiti neurofisiologici della vendetta e dell’aggressività reattiva.

    Trauma precoce e plasticità sinaptica

    Secondo numerosi studi, le esperienze traumatiche precoci, come l’essere bullizzati, modificano profondamente l’architettura cerebrale. L’esposizione reiterata a minacce o umiliazioni attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA)in maniera cronica, con ipersecrezione di cortisolo e modifiche nei circuiti dell’amigdala, dell’ippocampo e della corteccia prefrontale.

    Uno studio pionieristico di Teicher et al. (2003) ha evidenziato che i bambini vittime di abusi o esclusione sociale presentano una riduzione del volume dell’ippocampo e un’iperattivazione dell’amigdala, associata a ipervigilanza e iperreattività agli stimoli sociali percepiti come minaccia.

    Il ruolo dell’amigdala e del sistema limbico

    L’amigdala, nucleo chiave nella gestione della paura e dell’aggressività, nei soggetti bullizzati tende a reagire in modo eccessivo a stimoli sociali ambigui, sviluppando una forma di “bias dell’intenzione ostile” (Hostile Attribution Bias), secondo cui anche situazioni neutre vengono interpretate come potenzialmente minacciose (Dodge et al., 1990).

    La corteccia prefrontale mediale, deputata all’inibizione comportamentale e al controllo emotivo, risulta meno efficiente nel modulare queste risposte limbiche, specialmente in soggetti che non hanno avuto esperienze relazionali correttive e contenitive.

    Neurobiologia della vendetta

    Un esperimento condotto da de Quervain et al. (2004) con risonanza magnetica funzionale ha dimostrato che l’atto di vendicarsi attiva il nucleo caudato e il putamen, regioni coinvolte nel circuito della ricompensa dopaminergica. In altre parole, la vendetta può generare piacere neurochimico, come una sorta di compensazione biologica al dolore patito.

    Perché diventano bulli?

    La sofferenza emotiva interiorizzata senza possibilità di elaborazione può convertirsi in aggressività reattiva o proattiva, come forma di regolazione disfunzionale del Sé. I bambini che subiscono bullismo e non ricevono supporto psicologico adeguato sviluppano spesso modelli relazionali basati sul dominio o sulla sottomissione, come descritto dalla teoria dell’attaccamento disorganizzato (Lyons-Ruth, 1999).

    Vendetta come strategia del Sé ferito

    Quando la vittima non viene ascoltata, non trova simbolizzazione del dolore, non riceve protezione né strumenti per elaborare, l’unica via percepita come riscatto può diventare l’agito violento. Non si tratta di “follia improvvisa”, ma della cristallizzazione di un Sé frantumato che restituisce al mondo la propria sofferenza sotto forma di distruzione.

    Questo processo è noto anche in ambito clinico come disforia post-traumatica, e include:

    • depersonalizzazione,
    • distacco affettivo,
    • cinismo difensivo,
    • costruzione di un’identità vendicativa.

    Un caso di cronaca: la vendetta post-traumatica

    Un caso emblematico è quello di Will Cornick, adolescente inglese che nel 2014 uccise la propria insegnante con 7 coltellate. L’analisi forense rivelò una storia di bullismo scolastico prolungato, con conseguente ritiro sociale, ossessione per la vendetta e progressiva disconnessione empatica. La CTU (Criminal Trial Unit) parlò di “aggressività vendicativa con componenti narcisistiche”, alimentata da sentimenti di impotenza e desiderio di riscatto sociale.

    In generale, i casi di cronaca ci mostrano come l’odio, quando incubato nell’infanzia, può diventare una “memoria emotiva tossica” che il cervello conserva come ferita aperta. Se non curata, può diventare agita. Le neuroscienze oggi ci danno gli strumenti per prevedere e prevenire. Spetta a noi usarli.

  • L’intestino come secondo cervello: impatti sullo sviluppo cognitivo

    L’intestino come secondo cervello: impatti sullo sviluppo cognitivo

    Il cervello viscerale

    Da qualche anno, l’affermazione secondo cui “l’intestino è il nostro secondo cervello” ha smesso di appartenere al linguaggio metaforico ed è divenuta oggetto di solide conferme scientifiche. Il sistema nervoso enterico (SNE), una rete complessa di oltre 500 milioni di neuroni distribuiti nella parete intestinale, ha dimostrato di avere un’autonomia funzionale e una profonda capacità di dialogo bidirezionale con il sistema nervoso centrale (SNC) attraverso l’asse intestino-cervello.

    Come spiega Michael Gershon, pioniere nel campo della neurogastroenterologia e autore del libro “The Second Brain”(1998), l’intestino è capace di prendere decisioni indipendenti, regolare l’umore e influenzare persino lo sviluppo cognitivo. Ma quanto è vera questa affermazione? E in che modo questa scoperta si interseca con l’età evolutiva e con i disturbi dell’apprendimento?

    Microbiota e cervello: un’alleanza neurochimica

    Il sistema nervoso enterico comunica costantemente con il cervello attraverso vie neuroendocrine, immunitarie e metaboliche. Un ruolo cruciale è giocato dal microbiota intestinale, cioè l’insieme di trilioni di microrganismi simbionti che abitano il nostro apparato digerente.

    Numerosi studi, tra cui quelli pubblicati su Nature Reviews Neuroscience (Cryan & Dinan, 2012), hanno dimostrato che batteri intestinali possono produrre neurotrasmettitori come serotonina, dopamina e GABA, influenzando direttamente i processi cognitivi, l’umore e le risposte allo stress. È noto che oltre il 90% della serotonina, neurotrasmettitore chiave per la regolazione dell’umore e dell’attenzione, viene sintetizzato proprio a livello intestinale.

    Sviluppo cognitivo e asse intestino-cervello

    Durante l’età evolutiva, l’equilibrio del microbiota riveste un’importanza decisiva. I primi mille giorni di vita sono considerati una “finestra critica” per lo sviluppo neuropsicologico: uno studio del 2019 condotto dalla Harvard Medical School (Clarke et al.) ha mostrato che alterazioni precoci del microbiota sono associate a maggiore rischio di disturbi del linguaggio, disattenzione e difficoltà di memoria di lavoro.

    Un microbiota disbiotico, ovvero sbilanciato, può contribuire a un’aumentata permeabilità intestinale (”leaky gut”), attivando risposte immunitarie sistemiche e neuroinfiammazione, meccanismi frequentemente osservati in soggetti con ADHD, DSA e disturbi dello spettro autistico.

    Implicazioni nei disturbi dell’apprendimento

    Un articolo pubblicato su Frontiers in Psychiatry (2020) ha evidenziato come alcuni profili neuroevolutivi, inclusi i disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), siano associati a alterazioni nell’asse intestino-cervello, con implicazioni sul piano dell’autoregolazione emotiva, del controllo inibitorio e della flessibilità cognitiva.

    In particolare, bambini con dislessia o disortografia mostrano spesso anche disturbi gastrointestinali funzionali, come stipsi cronica o dolori addominali ricorrenti. È ipotizzabile, secondo il modello proposto da Mayer et al. (2015), che l’attivazione costante dell’amigdala attraverso segnali viscerali comprometta l’ottimale funzionamento dei circuiti frontali preposti all’attenzione e alla pianificazione.

    Interventi integrati: psicologia e nutrizione

    Una nuova frontiera della psicologia dell’età evolutiva è rappresentata dall’integrazione tra interventi psicoeducativi e modulazione del microbiota, attraverso l’alimentazione o l’uso di probiotici selettivi (psychobiotics). Uno studio del 2021 dell’Università di Firenze ha dimostrato che l’assunzione di Lactobacillus rhamnosus ha migliorato la qualità del sonno e la performance cognitiva in bambini con difficoltà di apprendimento.

    Questo dato conferma la necessità, per lo psicologo clinico, di valutare lo stato gastrointestinale come parte integrante del bilancio neuropsicologico, soprattutto in età evolutiva.

    Conclusione: un approccio bio-psico-intestinale

    La neuropsicologia moderna non può più ignorare l’interconnessione tra cervello e intestino. Il “secondo cervello” rappresenta non solo un organo di supporto, ma un attore primario nello sviluppo affettivo, cognitivo e comportamentale.

  • Grafomotricità automatica: perché disegniamo mentre ascoltiamo?

    Grafomotricità automatica: perché disegniamo mentre ascoltiamo?

    Grafomotricità automatica: un linguaggio secondario del cervello

    Chi non ha mai firmato il proprio nome distrattamente durante una telefonata, scarabocchiato margini di un foglio in riunione, o disegnato figure geometriche mentre ascolta una lezione? Questi gesti appartengono a ciò che in neuropsicologia viene definito automatismo grafomotorio: una risposta motoria a uno stimolo cognitivo, spesso inconscia, che rivela molto di più di quanto sembri.

    Secondo uno studio pubblicato su Applied Cognitive Psychology da Jackie Andrade (2009), i partecipanti che scarabocchiavano mentre ascoltavano una registrazione noiosa ricordavano il 29% in più dei contenuti rispetto a coloro che ascoltavano passivamente. Il gesto grafomotorio agisce quindi come modulatore dell’attenzione, fungendo da canale espressivo alternativo ma non competitivo rispetto all’elaborazione verbale.

    Disegnare per non distrarsi: il paradosso dell’attenzione divisa

    Nel contesto scolastico, osservare un alunno che disegna mentre l’insegnante spiega può suscitare l’impressione di distrazione. In realtà, il cervello, in situazioni di sovraccarico cognitivo, può attivare circuiti sensomotori paralleli per mantenere viva l’attenzione. È quanto suggeriscono studi sull’attività del Default Mode Network (DMN), un sistema cerebrale coinvolto nella divagazione mentale e nella creatività spontanea. Disegnare può modulare l’attività di questo network, mantenendola su livelli compatibili con l’ascolto attivo (Smallwood & Schooler, 2015).

    In particolare nei soggetti con uno stile di apprendimento visivo o cinestetico, il gesto grafico è una strategia adattiva per elaborare e trattenere informazioni. Lo “scarabocchio” non è solo segno di disattenzione, ma una forma arcaica di traduzione del pensiero in traccia, un gesto psico-corporeo di grounding cognitivo.

    Firma automatica e disegni ripetitivi: tra identità e regolazione

    Quando ripetiamo la nostra firma distrattamente, stiamo affermando la nostra identità in un contesto che ne richiede presenza. Il gesto automatico della firma è un esempio di schema motorio altamente consolidato, che si attiva nei momenti di noia, attesa o tensione. Per il cervello, ripetere tale gesto equivale a riconnettersi a sé stessi, in un contesto momentaneamente depersonalizzante.

    Gli scarabocchi ripetitivi, come spirali, onde o motivi geometrici, possono anche costituire un meccanismo di autoregolazione emozionale. Secondo una ricerca pubblicata nel Journal of Behavioral and Brain Science (Chen et al., 2021), l’attività motoria fine ha effetti calmanti sul sistema limbico, con un impatto positivo sulla gestione dell’ansia e sull’autoregolazione comportamentale.

    Disegnare in classe: esclusione o risorsa?

    La scuola tende spesso a reprimere i comportamenti “non convenzionali” come il disegno durante le lezioni. Eppure, gli studi di Joel Mortensen (2018) evidenziano che gli alunni che integrano l’atto grafico durante l’ascolto mostrano una migliore comprensione globale dei concetti, soprattutto in contesti teorici astratti. Il gesto grafico può infatti fungere da ponte tra il registro emotivo e quello cognitivo, rendendo più accessibile l’elaborazione concettuale complessa.

    Conclusione: la mano pensa

    Il cervello non è un’entità isolata, ma una struttura incarnata. La mano, nel suo gesto grafico, è una sua estensione. Scrivere, disegnare o firmare distrattamente mentre ascoltiamo non è solo un residuo motorio, ma un attributo cognitivo. Nella sua apparente inutilità, l’automatismo grafomotorio rappresenta un sofisticato meccanismo di adattamento neuropsicologico.

  • Nel primo bacio, la nascita del cervello affettivo

    Nel primo bacio, la nascita del cervello affettivo

    “Ogni bacio che sfiora la pelle del neonato è una sinapsi che si accende nel cervello dell’amore.”

    Il miracolo sinaptico del primo bacio

    Il bacio che una madre imprime sulla fronte o sulla guancia del neonato subito dopo la nascita non è soltanto un gesto d’affetto: rappresenta, in termini neurobiologici, una miccia che innesca un’elaborazione multisensoriale sofisticata, finalizzata all’attaccamento e alla sopravvivenza. Questo evento attiva circuiti cerebrali ancestrali che modellano il futuro sviluppo affettivo e neurochimico del bambino.

    Attivazione multisensoriale: olfatto, udito, tatto

    Fin dalla nascita, il neonato è dotato di un sistema olfattivo sorprendentemente maturo. Studi su neonati umani e modelli animali (Schaal et al., 2020; Sullivan et al., 2019) hanno dimostrato che già nelle prime ore di vita i neonati preferiscono l’odore del liquido amniotico e del seno materno. L’atto del bacio, spesso accompagnato da vocalizzazioni dolci e familiari, integra stimoli olfattivi e uditivi che si consolidano nel sistema limbico come tracce mnestiche precoci.

    Questa sinergia attiva l’amigdala e l’ippocampo, aree cruciali per la memoria affettiva. Il neonato “riconosce” la madre tramite il suo odore (produzione di feromoni e secrezioni sebacee), il tono della voce (prosodia) e la temperatura cutanea del bacio. È la base di quello che Bowlby definì sistema di attaccamento, oggi supportato da evidenze neurobiologiche.

    La cascata biochimica: ossitocina, dopamina e oppioidi endogeni

    Il bacio materno stimola nel neonato il rilascio di ossitocina, il neuropeptide dell’amore e della connessione, prodotto dall’ipotalamo e secreto dalla neuroipofisi. L’ossitocina è implicata nella regolazione dell’attaccamento sociale, riduce il cortisolo (ormone dello stress) e promuove la regolazione parasimpatica.

    Un esperimento del Karolinska Institutet (Uvnäs-Moberg et al., 2021) ha mostrato come anche nei primissimi momenti post-partum, i livelli di ossitocina aumentino significativamente nei neonati esposti al contatto pelle-a-pelle e al bacio materno. Questo aumento favorisce la sincronizzazione biologica e affettiva tra madre e bambino, fenomeno noto come coregolazione.

    In parallelo, vengono rilasciate dopamina (sistema mesolimbico), implicata nel piacere e nella motivazione, e beta-endorfine, che modulano il dolore e inducono stati di benessere profondo. Il bacio, dunque, diventa il primo “farmaco naturale” capace di regolare la neurofisiologia del neonato.

    Voce e sincronia affettiva: il canto della madre come imprinting acustico

    Le ricerche di Trevarthen e Malloch (2017) sull’intersoggettività primaria dimostrano che la voce materna, specie se cantilenante (infant-directed speech), attiva precocemente la corteccia uditiva del neonato e genera un sincronismo neuronale tra i due cervelli. Il bacio, spesso accompagnato da parole dolci, rafforza questa connessione, amplificando la plasticità sinaptica nella corteccia prefrontale, sede dell’integrazione sociale ed emotiva.

    Plasticità neuronale e memoria implicita

    Il primo bacio non viene “ricordato” in senso autobiografico, ma si imprime nelle memorie implicite del sistema limbico, dando forma a schemi relazionali profondi. Secondo un lavoro di Tronick e Beeghly (2022), queste prime interazioni sensoriali sono le fondamenta delle rappresentazioni interne di sé e dell’altro.

    Nel cervello neonatale, ancora in pieno sviluppo, il contatto affettivo promuove l’espressione genica di fattori neurotrofici come il BDNF (Brain-Derived Neurotrophic Factor), essenziale per la maturazione sinaptica e la connettività cerebrale.

    Conclusione: un gesto arcaico per un futuro neuro-affettivo

    Il primo bacio materno non è soltanto un gesto simbolico: è un atto neurochimico, un imprinting sensoriale e affettivo che modella il cervello del neonato. In quel contatto, si intrecciano biologia ed emozione, in un dialogo silenzioso tra due esseri umani appena uniti dal vincolo della vita.

  • Quando la notte parla: sogni e sonnambulismo

    Quando la notte parla: sogni e sonnambulismo

    Il parlare nel sonno: un enigma della coscienza notturnaParlare nel sonno, o somniloquio, è una parasonnia benigna che colpisce circa il 5% degli adulti e fino al 50% dei bambini (Ohayon et al., 1997). Può manifestarsi come borbottii indistinti, frasi brevi o veri e propri dialoghi coerenti, spesso durante fasi di sonno profondo non-REM (N3), ma anche nel sonno REM, la fase dei sogni vividi.

    Ricordiamo ciò che diciamo nel sonno?

    La risposta è quasi sempre no. Il parlare nel sonno avviene senza coscienza vigile, e raramente il soggetto conserva memoria di quanto pronunciato. Uno studio pubblicato su Sleep Medicine Reviews (2017) ha rilevato che oltre l’85% dei soggetti non ricorda alcun episodio, a conferma della dissociazione tra attività verbale automatica e consapevolezza. Il cervello, in queste fasi, può attivare aree motorie del linguaggio (come Broca) senza coinvolgere la corteccia prefrontale, responsabile della coscienza e dell’autocontrollo.

    Il sonnambulismo: agire senza coscienza

    Diversamente dal somniloquio, il sonnambulismo (sleepwalking) è una parasonnia più complessa, che include movimenti motori coordinati come alzarsi dal letto, camminare, persino mangiare o scrivere. Colpisce fino al 17% dei bambini e il 4% degli adulti (Zadra & Pilon, 2011), soprattutto durante il sonno NREM.

    Chi ne soffre appare sveglio, ma è in realtà in uno stato di coscienza dissociata: il cervello profondo (tronco encefalico, talamo) è attivo, mentre la neocorteccia è inibita. Il soggetto non sogna in quel momento, né ricorda l’episodio al risveglio.

    Tutti sognano? E cosa ricordiamo?

    La neurofisiologia del sogno è un campo in continua evoluzione. Grazie a tecniche di neuroimaging e EEG, oggi sappiamo che tutti sognano, anche se non tutti ricordano.

    Uno studio del 2023 del Lyon Neuroscience Research Center ha identificato un’area chiave: la giunzione temporo-parietale. Nei “grandi ricordatori di sogni”, questa zona mostra maggiore connettività durante il sonno REM (Eichenlaub et al., NeuroImage, 2023). Il ricordo del sogno è dunque legato a una maggiore attività cerebrale nei micro-risveglinotturni.

    Memoria onirica e contenuto

    Il 95% dei sogni viene dimenticato entro 10 minuti dal risveglio (Crick & Mitchison, 1983). Tuttavia, se il sogno è emozionalmente intenso, o se il risveglio avviene durante la fase REM, la probabilità di ricordarlo aumenta. I sogni sono spesso narrativi, simbolici e legati a contenuti emotivamente salienti. Studi recenti (Nir & Tononi, Trends in Cognitive Sciences, 2020) ipotizzano che sognare serva a integrare esperienze emotive nella memoria a lungo termine.

  • Tiroide e adolescenza: il cuore silenzioso dello sviluppo

    Tiroide e adolescenza: il cuore silenzioso dello sviluppo

    Un piccolo organo, un grande impatto

    La ghiandola tiroidea, posta alla base del collo, è una delle registe più silenziose e fondamentali dell’equilibrio psico-fisico in adolescenza. Il suo funzionamento influenza il metabolismo basale, la maturazione cerebrale, l’umore, la termoregolazione, il battito cardiaco e persino il ciclo mestruale. Eppure, i suoi disturbi sono frequentemente misconosciuti o scambiati per “normali” variazioni adolescenziali, col rischio di sottovalutare quadri clinici potenzialmente invalidanti.

    Perché è cruciale monitorare la tiroide negli adolescenti

    L’adolescenza è un periodo di intensa trasformazione: il corpo accelera, la mente si espande, e l’identità si costruisce. In questo contesto, anche lievi disfunzioni tiroidee possono produrre scompensi sistemici:

    • Ipotiroidismo: può manifestarsi con rallentamento del pensiero, stanchezza cronica, aumento ponderale, bradicardia, pelle secca, irregolarità mestruali e scarso rendimento scolastico. Spesso viene confuso con depressione o demotivazione.
    • Ipertiroidismo: si presenta con agitazione, insonnia, tachicardia, calo ponderale, ansia e alterazioni del comportamento. È spesso mal interpretato come semplice iperattività o reattività adolescenziale.

    Secondo uno studio del 2023 pubblicato su The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolismcirca il 3-4% degli adolescenti europei presenta una forma subclinica di disfunzione tiroidea, spesso non diagnosticata. In Italia, una casistica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (2022) ha rilevato che 1 adolescente su 10 con disturbi psicoemotivi presentava alterazioni del TSH senza una diagnosi endocrinologica precedente.

    Meccanismi di interazione e scompenso

    I meccanismi con cui la tiroide influisce sull’organismo sono molteplici e complessi:

    • Asse ipotalamo-ipofisi-tiroide: regola la produzione ormonale e può essere alterato dallo stress psicosociale tipico dell’età evolutiva.
    • Influenza sul SNC: l’ormone tiroideo T3 agisce su recettori neuronali modulando vigilanza, memoria e umore (Rivas & Naranjo, Front. Neurosci., 2021).
    • Interazioni con il ciclo mestruale: l’ipotiroidismo può causare dismenorrea, amenorrea e sindrome dell’ovaio policistico.
    • Ruolo nell’insulino-resistenza: disfunzioni tiroidee sono state correlate a un aumento del rischio di diabete tipo 2 e sindrome metabolica in adolescenti in sovrappeso (Kim et al., Pediatrics, 2020).

    Quando sospettare un disturbo tiroideo

    Ecco alcuni segnali clinici che dovrebbero far sospettare un malfunzionamento tiroideo:

    • Aumento o perdita di peso inspiegabili
    • Astenia persistente
    • Disturbi del sonno
    • Variazioni marcate del tono dell’umore
    • Alterazioni del ciclo mestruale
    • Difficoltà scolastiche improvvise
    • Ritardi nello sviluppo puberale

    Il dosaggio di TSH, FT3, FT4 e anticorpi anti-TPO può offrire indicazioni preziose. In alcuni casi è utile anche l’ecografia tiroidea, soprattutto in presenza di gozzo o familiarità per malattie autoimmuni.

    Strategie di intervento precoce

    Una diagnosi tempestiva consente trattamenti efficaci e non invasivi. Il levotiroxina sodica per l’ipotiroidismo e l’antitiroideo per l’ipertiroidismo possono restituire equilibrio in tempi brevi. In contesto scolastico e familiare, è fondamentale:

    • Educare al riconoscimento dei sintomi
    • Monitorare periodicamente la crescita e lo sviluppo
    • Includere una valutazione endocrinologica nei controlli adolescenti con disturbi psichici inspiegabili
    • Integrare supporto psicologico nei casi in cui il quadro ormonale alteri la sfera emotiva e cognitiva

    Conclusioni

    La tiroide in adolescenza non è un dettaglio secondario, ma un nodo cruciale del benessere globale. Ignorarla significa rischiare di lasciare nell’ombra un possibile snodo clinico che può compromettere non solo la crescita fisica ma anche l’equilibrio psichico e sociale del giovane. Per questo, un semplice controllo può cambiare la traiettoria di una vita.

  • Disprassia: quando il corpo non segue il pensiero

    Disprassia: quando il corpo non segue il pensiero

    Un disturbo invisibile ai più

    La disprassia evolutiva, nota in ambito internazionale come Developmental Coordination Disorder (DCD), è una condizione neurologica che compromette la pianificazione e l’esecuzione dei movimenti volontari, in assenza di deficit motori primari o cognitivi espliciti. Secondo il DSM-5 (APA, 2013), rientra tra i disturbi del neurosviluppo, con una prevalenza stimata intorno al 5-6% della popolazione infantile globale, sebbene i dati siano verosimilmente sottostimati a causa di diagnosi tardive o erronee.

    In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità rileva che circa il 4% dei bambini in età scolare presenta sintomi compatibili con una forma di disprassia, ma solo una parte riceve una valutazione specialistica entro i primi otto anni di vita. Un’indagine europea promossa da European Academy of Childhood Disability (2021) ha evidenziato un preoccupante ritardo nella presa in carico nei Paesi mediterranei rispetto a quelli nordici, dove le prassi diagnostiche risultano più sistematiche.

    Le cause: un mosaico di fattori neurobiologici

    Non esiste un’unica causa della disprassia. Studi condotti con tecniche di neuroimaging funzionale (Forde et al., 2020; Licari et al., 2021) hanno evidenziato alterazioni nei circuiti fronto-parietali, in particolare nella corteccia premotoria e nel cervelletto, suggerendo una disfunzione nella comunicazione interemisferica e nella rappresentazione interna del movimento.

    Alcune ipotesi etiologiche includono:

    • Complicanze perinatali (ipossia, prematurità)
    • Disregolazioni sensoriali precoci
    • Alterazioni nei geni legati alla motricità fine (ad esempio DYX1C1, associato anche alla dislessia)

    Segnali clinici e criticità scolastiche

    I bambini disprassici manifestano difficoltà nel vestirsi, allacciarsi le scarpe, scrivere, utilizzare le posate o partecipare a giochi sportivi. La componente motoria impatta direttamente sulla sfera psicologica, generando vissuti di frustrazione, esclusione sociale e una possibile comorbilità con disturbi internalizzanti come ansia o depressione (Zwicker et al., 2018).

    In adolescenza, una diagnosi tardiva può comportare un impatto significativo sull’autostima e sulla performance scolastica. Le difficoltà nella gestione dello spazio, nella coordinazione occhio-mano e nella scrittura (disgrafia) spesso vengono erroneamente interpretate come svogliatezza o disattenzione, aggravando il ritardo nella presa in carico.

    Diagnosi tardiva: non è mai troppo tardi per intervenire

    Quando la disprassia viene riconosciuta oltre i 10 anni, è necessario un approccio multimodale, che coinvolga:

    • Valutazione neuropsicologica integrata, con particolare attenzione alle funzioni esecutive e visuo-spaziali.
    • Riabilitazione psicomotoria individualizzata, basata su esercizi progressivi di organizzazione spazio-temporale, equilibrio e pianificazione.
    • Strumenti compensativi, come tastiere facilitanti, sintesi vocale, o mappe concettuali.
    • Supporto psicologico, mirato al rinforzo dell’identità personale e della motivazione scolastica.

    Un efficace protocollo di intervento è stato illustrato dal progetto Move to Learn (Cairney et al., 2019), che ha dimostrato significativi miglioramenti nella coordinazione motoria e nell’integrazione sociale di adolescenti con DCD.

    Il ruolo della scuola e della famiglia

    La sinergia tra scuola e famiglia è essenziale. L’introduzione di Piani Didattici Personalizzati (PDP), come previsto dalla normativa italiana (Legge 170/2010), può rappresentare un valido strumento per garantire equità e accessibilità all’apprendimento. La formazione degli insegnanti sul tema della disprassia resta tuttavia disomogenea: secondo una recente indagine ANPE (2022), solo il 28% dei docenti ha ricevuto un’adeguata preparazione in merito ai disturbi della coordinazione motoria.

    Conclusioni

    La disprassia non è sinonimo di goffaggine, ma una complessa condizione neuroevolutiva che richiede attenzione, diagnosi precoce e interventi mirati. Anche in caso di diagnosi tardiva, è possibile promuovere uno sviluppo armonico e rafforzare il senso di autoefficacia nel soggetto, a patto che vi sia una rete competente e solidale attorno a lui.

  • Legge 104: inclusione scolastica: diritti, PEI e figure storiche

    Legge 104: inclusione scolastica: diritti, PEI e figure storiche

    La legge 104/92: fondamento giuridico dell’inclusione scolastica

    La Legge n. 104 del 5 febbraio 1992 rappresenta la pietra angolare del sistema italiano di tutela e valorizzazione delle persone con disabilità, in particolare in ambito scolastico. Essa riconosce il diritto all’educazione e all’istruzione nella scuola pubblica per tutti gli alunni con disabilità, promuovendo un modello di inclusione attiva e non meramente assistenziale.

    Tale normativa ha profondamente trasformato l’approccio della scuola, sostituendo la logica dell’esclusione e della differenziazione (tipica delle classi speciali o differenziali) con quella dell’inclusione, intesa come progettazione personalizzata e corresponsabilità educativa.

    Il PEI: cuore dell’intervento educativo personalizzato

    Il Piano Educativo Individualizzato (PEI) è il documento cardine attraverso cui si attua l’inclusione. Introdotto ufficialmente dalla Legge 104, ma concettualmente anticipato da normative precedenti (DPR 416/74, Legge 517/77), il PEI rappresenta la progettazione integrata e dinamica degli interventi didattici, educativi e riabilitativi.

    Il PEI è redatto annualmente dal Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione (GLO), che coinvolge docenti curricolari, docente di sostegno, famiglia, specialisti sanitari, educatori e rappresentanti dell’ente locale. Dal 2020 (D.Lgs. 66/2017 e i suoi decreti attuativi), il PEI è stato ulteriormente normato e digitalizzato, con nuovi modelli nazionali.

    Gli alunni “H”: un termine oggi superato

    La sigla “H” indicava in passato gli alunni con “handicap”, ma oggi è considerata obsoleta e poco rispettosa. Si preferisce parlare di alunni con disabilità, sottolineando un cambiamento semantico e culturale che mette la persona al centro, non la sua menomazione.

    Le radici storiche: da Basaglia a Casale

    La conquista dell’inclusione scolastica in Italia è frutto di una lunga battaglia culturale e giuridica. Tra le figure chiave:

    • Franco Basaglia, psichiatra e riformatore, fu il promotore della Legge 180/1978 che sancì la chiusura dei manicomi. Il suo pensiero ha ispirato una visione della disabilità come diversità, non come devianza.
    • Mirella Antonione Casale, pedagogista e ispettrice ministeriale, è la mente pedagogica dietro la transizione dalle classi differenziali all’integrazione. A lei si deve la stesura delle prime Linee Guida per l’integrazione scolastica e la diffusione del concetto di “didattica inclusiva”.
    • Loris Malaguzzi, fondatore dell’esperienza di Reggio Children, ha dato impulso a una visione antropologica e democratica dell’educazione, in cui ogni bambino ha cento linguaggi, anche quelli che la disabilità non riesce a spegnere.

    Un cammino di civiltà

    Il processo legislativo e pedagogico che ha portato alla Legge 104 è stato lento, ma inarrestabile. Prima della 104, la Legge 517/1977 aveva già abolito le classi speciali, introducendo il concetto di integrazione. Con la 104, questo concetto si trasforma in inclusione, ovvero nella volontà di adattare il contesto educativo alle necessità dell’alunno, e non viceversa.

    Conclusione: tra diritto e progetto di vita

    L’inclusione non è una concessione, ma un diritto costituzionale. È lo Stato che si fa carico di garantire pari opportunità formative attraverso strumenti normativi, progettualità didattica e presenza di figure specialistiche.