Autore: admin

  • Il sosia dentro casa

    Il sosia dentro casa

    Sindrome di Capgras: quando il volto familiare diventa quello di un impostore

    Che cos’è la sindrome di Capgras?

    La sindrome di Capgras è un delirio di identificazione in cui il soggetto crede fermamente che una persona a lui molto vicina – spesso un familiare – sia stata sostituita da un impostore identico nell’aspetto, ma privo della reale identità originaria. Questo disturbo prende il nome dallo psichiatra francese Joseph Capgras, che nel 1923 descrisse per la prima volta questa illusion des sosies.

    Caratteristiche cliniche

    • Delirio monotematico: il paziente è convinto che il “sosia” sia identico nell’aspetto alla persona amata, ma non prova verso di lui nessuna connessione emotiva.
    • Preservazione delle funzioni cognitive: nella maggior parte dei casi, la memoria e il linguaggio restano intatti.
    • Convinzione incrollabile: il paziente non si lascia convincere dalla logica né dalle evidenze.

    Nei casi più gravi, la sindrome si estende anche agli animali domestici, agli oggetti (Capgras per gli oggetti) o addirittura a se stessi (fenomeno noto come autosostituzione capgrasiana).

    Cause e modelli neuropsicologici

    Modello doppia via visiva

    I principali studi (Ellis & Young, 1990) suggeriscono un disaccoppiamento tra riconoscimento visivo e risposta emotiva. La persona viene riconosciuta visivamente, ma non si attiva il circuito limbico che normalmente genera una risposta affettiva.

    In altre parole: vedo mia madre, ma non “sento” che è lei.

    Strutture cerebrali coinvolte

    • Corteccia fusiforme: sede del riconoscimento facciale.
    • Amigdala: responsabile della risposta emozionale.
    • Lobo temporale e frontale destro: spesso alterati nei pazienti Capgras.

    Connessioni con patologie neurologiche:

    • Morbo di Alzheimer (circa 16% dei pazienti presenta deliri di Capgras – Berrios & Luque, 1995)
    • Traumi cranici e encefaliti temporali
    • Schizofrenia paranoide (il delirio si inserisce in un quadro psicotico più ampio)

    Diagnosi differenziale

    La diagnosi è complessa e richiede un approccio neuropsicologico integrato. È essenziale distinguere Capgras da:

    • Prosopagnosia (incapacità di riconoscere i volti),
    • Disturbo delirante di tipo persecutorio,
    • Sindrome di Fregoli (disturbo opposto: la convinzione che persone diverse siano in realtà sempre la stessa che si traveste).

    Trattamento e presa in carico

    Non esiste una cura univoca, ma un intervento multidisciplinare è essenziale.

    Interventi principali:

    • Farmacoterapia: antipsicotici atipici come olanzapina o risperidone, con monitoraggio degli effetti collaterali.
    • Riabilitazione cognitiva: per ricostruire la connessione tra volto e risposta emotiva.
    • Psicoterapia di sostegno: per il paziente e per i caregiver, spesso soggetti a elevato stress.
    • Neuromodulazione (in casi selezionati): studi recenti hanno esplorato l’uso della TMS (stimolazione magnetica transcranica) nei deliri resistenti.

    Prospettive future e casi studio

    • Un caso italiano trattato presso l’IRCCS Fatebenefratelli di Brescia ha mostrato miglioramenti significativi combinando antipsicotici con terapia di realtà virtuale aumentata.
    • Studi in corso al Karolinska Institutet stanno analizzando la relazione tra Capgras e alterazioni nella connettività cerebrale destra (fMRI funzionale).
    • L’approccio terapeutico integrato proposto nel Progetto SAND (Sindrome da Alterazione del Nucleo dell’Identità) prevede un protocollo specifico per deliri da sostituzione in età geriatrica.

    Conclusione

    La Sindrome di Capgras rappresenta una delle sfide più affascinanti e destabilizzanti per la neuropsichiatria contemporanea. È la dimostrazione che l’identità non è solo memoria o visione, ma un sottile equilibrio tra percezione, affetto e riconoscimento. In un mondo dove il volto dell’altro può diventare maschera, la psicologia clinica ha il compito di restituire autenticità al legame e verità alla presenza.

  • Pedagogista e Psicologo: per una scuola che cura

    Pedagogista e Psicologo: per una scuola che cura

    Una complementarità necessaria

    Nel sistema scolastico contemporaneo, il pedagogista e lo psicologo scolastico rappresentano due figure professionali fondamentali e complementari. Se il primo opera sulla dimensione educativa, relazionale e metodologica dell’apprendimento, il secondo si concentra sul versante clinico, emotivo e psicologico del soggetto in età evolutiva.

    Insieme, pedagogia e psicologia costruiscono un ponte tra didattica e cura, tra progettazione educativa e ascolto dei disagi sommersi. In una scuola che vuole diventare davvero “ambiente di sviluppo integrale della persona”, l’alleanza tra questi due ruoli non è solo auspicabile: è urgente.

    Il ruolo del pedagogista

    Il pedagogista scolastico agisce su tre livelli:

    • Prevenzione delle difficoltà di apprendimento e di comportamento,
    • Progettazione di interventi educativi personalizzati (in sinergia con il docente),
    • Formazione del personale scolastico e dei genitori.

    Attraverso osservazioni sistematiche, analisi dei contesti e strumenti educativi, il pedagogista favorisce lo sviluppo di competenze trasversali, dalla motivazione alla regolazione emotiva, potenziando il contesto-classe nel suo complesso.

    Il ruolo dello psicologo scolastico

    Lo psicologo si occupa di:

    • Supporto psicologico individuale per studenti in difficoltà,
    • Valutazione di bisogni specifici, disturbi dell’apprendimento, disagi comportamentali e relazionali,
    • Sostegno alla genitorialità e al corpo docente.

    È inoltre figura chiave nei casi di bullismo, autolesionismo, ansia scolastica, disturbi dell’umore e da stress. La sua presenza costante (non occasionale) è indicata come fattore protettivo per il benessere dell’intera comunità scolastica (Fonte: CNOP, 2023).

    Progetti pilota e dati significativi

    📌 Progetto “Benessere a scuola” – Regione Emilia-Romagna

    • Figure coinvolte: psicologo e pedagogista, in sinergia con educatori e referenti BES.
    • Esiti: dopo 12 mesi, il 68% degli alunni seguiti ha mostrato miglioramenti nei comportamenti pro-sociali.
    • Riscontro docente: l’81% degli insegnanti ha dichiarato un miglior clima relazionale in classe.

    📌 “P.I.P.P.I.” – Programma di Intervento Per la Prevenzione dell’Istituzionalizzazione (Ministero del Lavoro e Università di Padova)

    • Coinvolge scuole, servizi sociali, famiglie e specialisti.
    • Il pedagogista lavora sull’empowerment familiare, mentre lo psicologo lavora sul benessere emotivo del minore.
    • Risultato: riduzione del rischio di allontanamento del minore in 3 casi su 4.

    📌 Progetto “Equità” – Città Metropolitana di Torino

    • Modello d’intervento integrato tra pedagogia e psicologia per contrastare la dispersione scolastica.
    • Dopo 2 anni: riduzione dell’abbandono scolastico del 24% nei plessi coinvolti.

    Quale scuola per il futuro?

    Numerosi piani ministeriali, tra cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), insistono sull’ampliamento delle equipe multiprofessionali a scuola. Il modello vincente è quello integrato, in cui pedagogisti, psicologi, educatori e assistenti sociali collaborano costantemente.

    Secondo l’ultimo report OCSE (2024), le scuole che adottano team interdisciplinari registrano:

    • un calo del 35% dei casi di drop-out,
    • un incremento del 48% nella partecipazione degli studenti ai progetti di cittadinanza attiva.

    Conclusione

    La presenza congiunta di pedagogisti e psicologi non rappresenta un lusso, ma una necessità. Solo attraverso un’azione sinergica, continuativa e professionale è possibile incidere davvero nel vissuto scolastico degli studenti e trasformare la scuola in uno spazio di cura, crescita e resilienza.

  • Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

    Disabilità intellettiva, tra esclusione e desiderio di aiuto.

    Riflessioni di un insegnante, psicologo, pedagogista e padre che da quasi 30 anni si occupa di integrazione, inclusione, neutodiversità…

    Questa è una lettera che nasce dove le parole spesso mancano: nel cuore ferito di un genitore che vede il proprio figlio non solo in difficoltà, ma escluso.

    Ci sono giorni in cui essere genitore di un bambino con disabilità intellettiva è come camminare su una fune tesa, senza rete di protezione. Non perché ci si vergogni, non perché si rinunci ad amarlo con tutto il cuore. Ma perché il dolore più profondo non nasce dalla diagnosi: nasce da ciò che succede dopo.


    Quando l’inclusione resta una parola

    C’è un momento esatto – e chi lo ha vissuto lo sa – in cui tuo figlio smette di essere “uno della classe” e diventa “un problema”.

    Quando la maestra – pur con la miglior buona volontà – ti fa capire che il gruppo classe “viene prima”.

    Quando gli altri bambini vengono incoraggiati a collaborare tra loro… mentre tuo figlio è accompagnato “a parte”, con pazienza, certo, ma anche con distanza.

    Quando l’inclusione viene nominata nei progetti e ignorata nelle dinamiche reali.

    E tu, genitore, torni a casa con la cartella piena di carte e il cuore vuoto. Perché tuo figlio non è un ostacolo alla crescita degli altri. È un bambino. E come ogni bambino, desidera appartenere.

    La solitudine dei genitori

    Si dice che serva un villaggio per crescere un bambino. Ma quando il bambino è fragile, spesso il villaggio si svuota.

    Restano i colloqui, i P.E.I., le buone intenzioni, ma manca lo sguardo profondo che riconosca nel bambino disabile una persona intera, non un frammento, non un “limite”.

    Essere genitore, in questi casi, è essere anche psicologo, terapista, segretario, avvocato del proprio figlio.

    Ma soprattutto, è essere testimone di un’esclusione che si consuma nel silenzio degli altri.

    Eppure l’aiuto è possibile

    L’aiuto vero non è pietà.

    Non è nemmeno la condiscendenza o l’applauso a fine recita.

    L’aiuto vero è lo sguardo educativo che non seleziona, ma si piega senza cedere, si adatta senza arrendersi.

    È la maestra che fa spazio non solo al programma, ma alla persona.

    È l’educatore che non vede un rallentamento ma una via diversa.

    È il compagno di classe che viene educato a riconoscere la diversità come ricchezza e non come ingombro.

    Unire la disperazione all’aiuto

    Come si tiene insieme la disperazione con la speranza di un aiuto effettivo?

    Con una sola parola: alleanza.

    L’alleanza tra scuola e famiglia non è un protocollo, ma un patto di fiducia.

    È dire: “Io vedo tuo figlio. Non come lo vorrei. Ma come è. E lo accolgo.”

    È smettere di difendersi e iniziare a costruire: insieme.

    Perché la disabilità non chiede compassione. Chiede relazioni vereattese pazientistrategie intelligenti.

    Conclusione

    A chi educa: non abbia paura di rallentare, di cambiare il ritmo della classe per accogliere chi ha bisogno.

    Non sarà tempo perso: sarà umanità guadagnata.

    Ai genitori, resti la forza di chiedere aiuto, senza cedere alla solitudine.

    Perché l’unica vera disabilità è un mondo che non vuole includere.

  • Fantasmi nel sangue: quando il passato plasma il presente

    Fantasmi nel sangue: quando il passato plasma il presente

    Eredità invisibili: la trasmissione transgenerazionale del trauma.

    Un trauma non si esaurisce con chi lo vive. In molti casi, esso si incarna nel silenzio familiare, nelle emozioni indicibili, nei gesti che si ripetono come un’eco muta. La psicologia contemporanea ha ormai documentato con rigore che i traumi possono attraversare le generazioni, incidendo profondamente sulla salute mentale e sullo sviluppo psico-affettivo della prole.

    La scoperta dell’epigenetica del trauma

    L’epigenetica ha rivoluzionato la nostra comprensione dell’ereditarietà. Non solo i geni, ma le esperienze vissute – soprattutto quelle traumatiche – possono modificare l’espressione genica e queste modificazioni possono essere trasmesse alla generazione successiva.

    Uno degli studi più noti è quello condotto sui sopravvissuti all’Olocausto: la ricerca del Mount Sinai Hospital di New York (Yehuda et al., 2016) ha mostrato come i figli di sopravvissuti presentino alterazioni epigenetiche nei geni legati alla risposta allo stress, in particolare al gene FKBP5, coinvolto nella regolazione del cortisolo.

    Quando il dolore si eredita: clinica e osservazione

    Molti pazienti portano dentro di sé tracce di eventi che non hanno vissuto in prima persona, ma che risuonano nella storia familiare: guerre, migrazioni forzate, lutti, abusi. La clinica parla di “memorie non elaborate”, che possono emergere sotto forma di ansia immotivata, senso di colpa, paura del mondo o difficoltà relazionali.

    Il noto psicoanalista Nicolas Abraham parlava di “cripta psichica”, una sorta di sepolcro interiore dove si depositano segreti e dolori indicibili che il discendente finisce per incarnare inconsciamente.

    Come si trasmette un trauma?

    • Modelli relazionali: i genitori traumatizzati possono manifestare forme di attaccamento disorganizzato, trasmettendo insicurezza e imprevedibilità affettiva.
    • Narrazioni spezzate: ciò che non è stato detto, elaborato o raccontato crea buchi neri nella biografia familiare.
    • Epigenetica: come accennato, l’esposizione a eventi traumatici modifica l’espressione genica, con effetti sui sistemi neuroendocrini e comportamentali.
    • Meccanismi proiettivi: il figlio viene investito di aspettative, paure o ideali che non gli appartengono, ma che riflettono il trauma rimosso del genitore.

    E in Italia? Traumi collettivi e familiari

    Nel contesto italiano, eventi storici come la Seconda Guerra Mondiale, l’emigrazione di massa, il terrorismo degli anni di piombo e i terremoti hanno generato traumi collettivi non elaborati. In molte famiglie sarde, ad esempio, il trauma migratorio ha inciso su intere generazioni, spesso nel silenzio o nella rimozione.

    Un recente studio dell’Università di Torino (2023) ha evidenziato che i figli di migranti italiani degli anni ’50-’70 presentano maggiore incidenza di sintomi depressivi e ansiosi, anche in assenza di eventi traumatici diretti, suggerendo l’effetto a lungo termine delle condizioni stressanti vissute dai genitori.

    La cura: dalla consapevolezza alla liberazione

    L’elaborazione transgenerazionale del trauma avviene attraverso il riconoscimento, la narrazione e la ristrutturazione delle memorie familiari. Terapie come l’EMDR, l’approccio sistemico-relazionale, la psicogenealogia (Anne Ancelin Schützenberger) o la psicoterapia psicodinamica possono aiutare a “spezzare il cerchio”.

    Come sottolinea la psicoanalista Françoise Davoine:

    “I traumi che non parlano gridano da una generazione all’altra finché qualcuno non li ascolta.”

  • PAURA: L’OMBRA CHE CI ABITA

    PAURA: L’OMBRA CHE CI ABITA

    Analisi antropologica, psicologica e sociale di un’emozione primordiale.

    DOVE NASCE LA PAURA
    La paura è un’emozione primaria e automatica che ha una funzione evolutiva di sopravvivenza. A livello neurobiologico, essa origina principalmente nell’amigdala, una struttura sottocorticale del sistema limbico, che si attiva in presenza (o previsione) di un pericolo.
    L’amigdala riceve segnali sensoriali grezzi dal talamo e può reagire prima ancora che la corteccia prefrontale — sede del pensiero razionale — abbia tempo di valutare la situazione. Questo meccanismo è stato confermato da Joseph LeDoux in numerosi studi di neuroscienze affettive, secondo cui la via “bassa” della paura consente una reazione immediata, ma spesso imprecisa.

    Egli sostiene che “la paura non ha bisogno del pensiero per nascere: è sufficiente il sospetto.”


    Uno studio della University of Wisconsin (2013) ha dimostrato che la stimolazione artificiale dell’amigdala nei ratti induceva una risposta di congelamento anche in assenza di minaccia reale, evidenziando come la paura sia neurobiologicamente automatica e difensiva.

    PERCHÉ PROVIAMO PAURA?

    Dal punto di vista evoluzionistico, la paura è servita a evitare predatori, pericoli ambientali, malattie e minacce sociali. Oggi, i pericoli fisici sono meno frequenti, ma le paure moderne si sono trasformate in paure sociali, economiche, esistenziali.

    Nel campo della psicologia cognitiva, la paura è legata a pensieri distorti, anticipatori o catastrofici. È ciò che alimenta i disturbi d’ansia, le fobie e gli attacchi di panico.

    Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2022)una persona su otto nel mondo soffre di disturbi d’ansia. Tra i giovani europei, l’ansia sociale colpisce circa il 20% degli adolescenti (Eurofound, 

    2023).

    PAURA E SOCIETÀ: COSTRUTTO CULTURALE E POLITICO

    In chiave sociologica, la paura è alimentata da un clima di incertezza sistemica. Viviamo in una società del rischio(Beck), in cui l’iper-esposizione ai media e la precarietà diffusa amplificano la percezione del pericolo.

    La paura sociale è anche un dispositivo di controllo: in tempi di crisi, può essere strumentalizzata da politica, economia e comunicazione. La pandemia da COVID-19 ha rappresentato un esempio paradigmatico, generando un aumento globale dei livelli di ansia e fobia sociale, come documentato in una meta-analisi del 2021 pubblicata su The Lancet.

    ANTROPOLOGIA DELLA PAURA

    Dal punto di vista antropologico, la paura è un’emozione universale ma codificata in modo diverso nelle varie culture. In molte società tradizionali, il timore non si concentra su eventi concreti, ma su entità invisibili, tabù, riti non compiuti.

    L’antropologa Mary Douglas ha osservato che “il pericolo è attribuito a ciò che viola l’ordine simbolico”, suggerendo che la paura nasce anche dalla perdita di senso e dal timore dell’anomalia culturale.


    PERCHÉ LA PAURA CI FA VIVERE MALE?

    La paura acuta è utile. Ma se cronicizzata, diventa disfunzionale. L’iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) porta a un rilascio prolungato di cortisolo, che in eccesso può danneggiare l’ippocampo, alterare la memoria e abbassare la soglia di tolleranza allo stress (McEwen, 2007).

    Inoltre, la paura costante limita la libertà comportamentale e inibisce la capacità decisionale. In adolescenza, per esempio, può inibire la sperimentazione, la socializzazione e l’autonomia.

    STRUMENTI PER FRONTEGGIARE LA PAURA

    🔹 1. Psicoterapia e ristrutturazione cognitiva

    La Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) aiuta a identificare e correggere le distorsioni cognitive che alimentano la paura. Gli studi di Aaron Beck e, più recentemente, quelli di David Clark e Paul Salkovskis hanno dimostrato un tasso di efficacia superiore al 70% nel trattamento delle fobie e dei disturbi d’ansia.

    🔹 2. Tecniche di regolazione fisiologica

    Pratiche come la respirazione diaframmatica, la coerenza cardiaca e la mindfulness-based stress reduction (MBSR)(Kabat-Zinn) mostrano effetti benefici sulla regolazione dell’attività amigdaloide.

    🔹 3. Relazioni protettive

    Il sostegno sociale, come dimostrato da uno studio longitudinale su oltre 5.000 individui (Harvard Study of Adult Development), riduce l’impatto delle paure croniche sul benessere psichico.

    🔹 4. Educazione emotiva

    L’alfabetizzazione emotiva nei contesti educativi è un antidoto potente. In Italia, i progetti MIUR legati alla prevenzione del disagio giovanile includono la gestione della paura tra le competenze socio-emotive.

    🔹 5. Esposizione graduale (Desensibilizzazione)

    Tecniche come l’Exposure Therapy e l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) permettono di disinnescare le memorie traumatiche, favorendo una rielaborazione sicura del ricordo.

    CONCLUSIONI

    La paura è una funzione essenziale dell’organismo umano. Tuttavia, nel contesto ipermoderno, rischia di diventare uno stato psichico pervasivo più che un’emozione momentanea. Comprendere dove nasce, come si manifesta e con quali strumenti affrontarla è oggi un’urgenza educativa, clinica e sociale.

    Solo così potremo evitare che un meccanismo di difesa si trasformi in una trappola esistenziale.

  • Dove sono i Samaritani?

    Dove sono i Samaritani?

    La Chiesa alla prova della fraternità spezzata

    Ci si affanna nelle cattedrali e nelle parrocchie. Si prega, si canta, si marcia dietro stendardi e reliquie. Ma quando il fratello cade — e magari è proprio un sacerdote, uno che ha spezzato il pane e la Parola accanto a noi — allora spesso resta solo, gettato ai margini della strada, come l’uomo della parabola. E i primi a passare oltre, oggi come ieri, sono proprio coloro che conoscono le Scritture e officiano i culti.

    Il sacerdote malato, isolato, dimenticato, è una ferita viva nel corpo della Chiesa. E ciò che brucia di più non è solo la malattia o il dolore, ma l’abbandono da parte dei confratelli, dei cosiddetti “fratelli nel ministero”. Tutti troppo occupati, troppo assorbiti, troppo inseriti. Come se il Vangelo fosse una serie di impegni e non un’esistenza da condividere.

    Hans Urs von Balthasar scriveva:

    “Chi pretende di comprendere Cristo senza lasciarsi trafiggere da Lui, inganna sé stesso.”

    Ecco: la nostra Chiesa è diventata talvolta esperta nell’amministrare Cristo, ma lenta nel lasciarsi trafiggere dal dolore dell’altro. Abbiamo ridotto la koinonía a una parola di verbale pastorale. Eppure, senza fraternità reale, incarnata, non c’è comunità cristiana.

    Una spiritualità senza grembiule

    Don Tonino Bello ce lo ha insegnato con forza:

    “Il grembiule viene prima della stola.”

    Eppure, quante volte indossiamo la stola nei momenti pubblici, nei riti solenni, e poi ci dimentichiamo il grembiule della carità nel quotidiano? È proprio lì, nella corsia d’ospedale, nella casa silenziosa del prete anziano, nel dolore taciuto di un confratello ferito, che si misura l’autenticità della nostra fede.

    Abbiamo edificato una Chiesa che teme la vulnerabilità, che copre le ferite, che fugge dal pianto. Ma la Chiesa del Cristo crocifisso non può non essere anche la Chiesa del fratello sofferente. Dove sono i samaritani?

    Il grembiule oltre la stola: la profezia di don Tonino

    Don Tonino Bello non fu solo un vescovo della prossimità: fu un poeta del Vangelo incarnato. Tra le sue immagini più potenti c’è quella del grembiule, che egli opponeva alla stola non in termini di contrapposizione, ma di gerarchia evangelica. La stola è il segno del ministero, della sacralità liturgica; ma il grembiule — simbolo del servizio umile, dell’amore che si china — è l’indumento che Cristo indossa nel cenacolo, prima di ogni altra cosa.

    Scriveva:

    “Il grembiule non è un accessorio. È il paramento liturgico per eccellenza, quello senza il quale la stola rischia di diventare un ornamento vuoto, un segno sterile.”

    Nella visione di don Tonino, la stola riceve senso solo se attraversata dall’amore operoso del grembiule. È un grido contro ogni clericalismo, contro ogni ministero vissuto come potere o prestigio. E questa prospettiva è quanto mai urgente oggi, in una Chiesa che rischia di moltiplicare liturgie e appesantirsi di parole, ma impoverirsi di gesti reali.

    Il grembiule ci ricorda che non basta “fare” il prete, occorre essere fratelli. E la fraternità non si celebra a parole: si esercita chinandosi.

    Il paradosso della liturgia senza carità

    Ogni giorno celebriamo la memoria del Dio che si è fatto servo, che ha lavato i piedi ai suoi discepoli, che si è lasciato ferire per amore. Ma poi, nella pratica, il culto diventa più importante del cuore. Corriamo al tempio, ma evitiamo chi giace per terra.

    Il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer parlava di “grazia a buon mercato”, e forse anche noi, nella Chiesa cattolica, abbiamo cominciato a distribuire “fraternità a buon mercato”: fatta di parole, di sorrisi istituzionali, di comitati. Ma quando il confratello crolla — perché è depresso, perché è stanco, perché è in crisi — allora il vuoto si fa silenzio assordante.

    Un esame di coscienza ecclesiale

    Che cosa sbaglia la Chiesa? Sbaglia quando dimentica che l’essenza del Vangelo non è la correttezza dottrinale né l’efficienza organizzativa, ma la prossimità. Cristo non ha lasciato un’agenda, ma una vita donata. La Chiesa sbaglia quando confonde la missione con l’ansia di visibilità, quando preferisce l’evento al volto.

    E noi? Noi cattolici sbagliamo quando ci accontentiamo di un cristianesimo da calendario liturgico, e non di una fede che scende per strada, che si ferma, che fascia le ferite.

    Il Buon Samaritano è l’icona eversiva di una Chiesa che non fugge. E Cristo — che nel Vangelo ci appare sempre accanto ai piccoli, ai poveri, ai feriti — ci interroga: dove siamo noi, davvero?

    Spiragli di speranza

    Eppure, non tutto è perduto. Ogni volta che un sacerdote si prende cura di un altro sacerdote, che un fedele va a trovare un parroco dimenticato, che una comunità si fa carico del dolore dell’altro, lì si ricrea la Chiesa delle origini, la koinoníadello Spirito.

    Occorre una conversione pastorale che non sia solo programmatica ma spirituale, fraterna, empatica.
    Occorre tornare a lavare i piedi.

    Perché “da questo sapranno che siete miei discepoli: se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13,35).

  • Diamante o carbone

    Diamante o carbone

    La forma che decidiamo di dare alla luce

    Nel cuore delle scelte umane vibra una tensione silenziosa, una dialettica tra possibilità e rinuncia, tra luce e materia, tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere. Pavel Florenskij, genio dell’intelligenza mistica e scientifica, ci ha insegnato che la forma è luce che si trattiene, che prende corpo. In uno dei suoi passaggi più folgoranti, suggerisce che la verità non è data, ma formata: come un raggio che attraversa un prisma, si distingue in mille sfumature a seconda dell’angolo da cui lo si osserva.

    In questa lente, ogni nostra decisione diventa il punto focale in cui la luce si condensa. E a ben guardare, ogni scelta è una metamorfosi silenziosa: potremmo restare carbone, o farci diamante. Non per valore intrinseco, ma per pressione, per pazienza, per interiorità.

    Il peso delle decisioni: la geologia dell’anima

    Il carbone e il diamante, come noto, condividono la stessa origine chimica: entrambi sono forme allotropiche del carbonio. Ma ciò che li distingue è l’intensità delle condizioni cui sono sottoposti. Il carbone è materia che ha scelto il riparo, il nascondimento. Il diamante, al contrario, è il risultato di una compressione estenuante, di un buio millenario, di una fedeltà a sé stessi nonostante tutto.

    Così anche le scelte umane si configurano non tanto come atti volitivi episodici, ma come sedimentazioni, strati di coscienza accumulati nel tempo, decisioni che assumono forma. Ogni rinuncia, ogni passo in avanti, ogni sosta è una firma esistenziale.

    L’angolo da cui guardi fa la luce che vedi

    Florenskij amava dire che l’occhio interiore non vede la realtà, ma una realtà filtrata dalla disposizione del cuore. Come il prisma scompone la luce, così ogni nostro “sguardo” mentale può trasformare un problema in occasione, una sconfitta in radice di sapienza. Non è un ingenuo ottimismo, ma un realismo spirituale: il mondo non cambia, cambiamo noi nel guardarlo.

    La depressione, la crisi, il lutto, l’abbandono – tutte queste sono esperienze che possono generare carbone o, in certi casi, produrre diamante. Non per automatismo, ma per scelta della forma da dare a ciò che ci accade. Il dolore, come insegna anche Viktor Frankl, può essere trasformato in significato. Ma solo se scelgo di farlo.

    Psicologia delle forme: come modelliamo il senso

    Nella psicologia esistenziale, ogni scelta è un atto creativo. Il soggetto non subisce il mondo, lo interpreta, lo forma, lo colora con la propria struttura di senso. È questa l’eredità più profonda di Florenskij: la verità non è un dato neutro, è una presenza che si plasma nella coscienza attraverso le forme che le diamo – etiche, estetiche, spirituali.

    Dare forma al dolore, alla gioia, alla perdita, alla colpa, significa non lasciarli liquefare nel caos del non senso. È come scolpire la luce. Alcuni si pietrificano nelle loro esperienze; altri, con mani tremanti, le trasformano in cattedrali invisibili.

    Diamante e carbone: due modi di attraversare il buio

    La vera domanda non è “Cosa mi è successo?”, ma “Cosa ho deciso di fare con ciò che mi è successo?”. In questo senso, non esistono davvero traumi che non possano essere integrati, né felicità che durino senza forma. Ogni esistenza si gioca nella costanza con cui scegliamo se rimanere materia opaca o farci trasparenza solida.

    Diamante e carbone non sono che due facce della stessa possibilità: la nostra. Entrambi vivono nel sottosuolo della nostra anima. Ma solo uno riflette la luce, perché ha deciso di attraversarla.

    Conclusione: la scelta come opera d’arte

    Ogni vita è una scultura. A volte levighiamo il dolore, altre volte lo abbandoniamo grezzo. Ma nulla è inutile, se lo scegliamo davvero. In un tempo dove tutto sembra deciso dal caso o dall’impulso, riscoprire la sacralità della scelta diventa un atto rivoluzionario.

    Siamo ciò che decidiamo di diventare. E ogni nostra decisione è un modo di scolpire la luce.

  • Studenti Muti all’Esame: Ribellione o Fallimento Educativo?

    Studenti Muti all’Esame: Ribellione o Fallimento Educativo?

    Quando il silenzio fa rumore: l’esame di maturità come teatro della crisi educativa

    Il recente fenomeno del “silenzio alla maturità”, messo in atto da alcuni studenti come forma di boicottaggio simbolico dell’Esame di Stato, rappresenta ben più di un atto di ribellione generazionale: è la spia evidente di un disagio sistemico, profondo, stratificato. Non siamo di fronte a semplici episodi isolati, ma a una forma estrema di disaffezione che, pur minoritaria, interpella la scuola e la società nel suo complesso.

    Un fallimento educativo travestito da protesta

    Quando uno studente decide di non rispondere, di non partecipare, di tacere per protesta, non sta solo criticando una prova d’esame. Sta denunciando un’intera architettura scolastica che, a suo dire, non lo ha ascoltato, né formato pienamente. È il sintomo di un fallimento educativo che ha smarrito l’orizzonte della motivazione, della relazione formativa, del significato del merito.

    Il vero problema non è il gesto eclatante, bensì ciò che lo precede: un’intera narrazione scolastica che, per molti, è percepita come alienante, impersonale, distante dalla realtà. La scuola valutativa, performativa, standardizzata, sembra perdere contatto con la sua vocazione originaria: educare alla responsabilità, al pensiero critico, alla cittadinanza.

    Il ministro Valditara e il giro di vite: una risposta necessaria?

    Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha annunciato una stretta disciplinare a partire dal prossimo anno, con l’introduzione della bocciatura automatica per chi si sottrae volontariamente all’Esame di Stato. Una misura forte, che trova giustificazione nel bisogno di ripristinare l’autorevolezza dell’istituzione scolastica e tutelare il valore del titolo di studio.

    Pur concordando con la necessità di difendere la dignità del sistema formativo, è fondamentale non confondere la fermezza con la rigidità. La repressione, da sola, non educa: deve essere accompagnata da una riflessione profonda sulle carenze pedagogiche che portano alcuni giovani a compiere simili gesti.

    I precedenti pericolosi: legittimare l’antimerito?

    Un esame boicottato non è un semplice “no” al sistema: è un gesto che rischia di legittimare l’antimeritocrazia e l’irresponsabilità diffusa. Quando il merito è svilito, quando il percorso scolastico viene visto come qualcosa da aggirare anziché da affrontare, si mina la credibilità dell’intero sistema educativo.

    Educare significa anche chiedere conto, stimolare la consapevolezza del valore dello studio e della fatica formativa. La scuola non è un contenitore neutro: è un laboratorio etico, dove si sperimenta l’impegno, si affrontano le difficoltà, si costruisce l’identità adulta.

    Luci di speranza: un’educazione che deve (ri)cominciare

    Non tutto è perduto. Questa protesta, se letta con intelligenza pedagogica, può trasformarsi in un’occasione di autoriflessione collettiva. Gli studenti che scelgono il silenzio andrebbero interrogati, ascoltati, compresi. Ma anche accompagnati a riscoprire il valore dell’impegno, della parola, della costruzione del sapere.

    È necessario promuovere una riforma culturale prima ancora che normativa: valorizzare la relazione educativa, ridefinire la valutazione in termini formativi, creare ambienti scolastici che siano davvero “luoghi di senso”. Non serve un esame più facile, serve un percorso scolastico più giusto, più significativo, più umano.

    Conclusione: tra fermezza e ascolto, la scuola può ancora educare

    La maturità non può diventare un palcoscenico per proteste autoreferenziali, né un tribunale ideologico contro l’intero sistema scolastico. Ma può e deve essere un punto di ripartenza. Serve una scuola che non premi il silenzio, ma che insegni ad abitare la parola, anche quella critica, con coraggio e competenza. Perché educare non significa solo trasmettere nozioni, ma accendere coscienze.

  • 📖 Sbilico: Quando la mente deraglia

    📖 Sbilico: Quando la mente deraglia

    Il romanzo Sbilico di Luca Pierantozzi si presenta al lettore come un esercizio di equilibrio sull’orlo del precipizio psichico, un’opera disturbante e lirica che penetra con chirurgica delicatezza nell’universo adolescenziale attraversato dal disagio mentale. Non siamo di fronte a una narrazione tradizionale: Sbilico è un manoscritto emotivo sfilacciato, una cartella clinica redatta in versi, una confessione interiore che sfugge alla diagnosi e si consegna nuda alla pagina.

    Il protagonista, Edoardo, è un ragazzo fragile, ipersensibile, a tratti visionario. Intelligente, poetico, eppure irriducibilmente alienato, Edoardo abita la soglia tra la realtà e la sua deformazione: ogni elemento del suo mondo si frantuma in percezioni alterate, in pensieri ossessivi, in paure che prendono corpo. Il lettore viene trascinato dentro una mente sbilenca, dissestata, che non riesce più a orientarsi nei territori del quotidiano. E qui la scrittura di Pierantozzi è mirabile: l’andamento sincopato, la punteggiatura che si disgrega, il ritmo spezzato della narrazione mimano esattamente il funzionamento di un pensiero disturbato, rendendolo non solo comprensibile ma, in certi momenti, dolorosamente condivisibile. Pierantozzi – insegnante e poeta – dimostra una straordinaria competenza pedagogica e psichiatricaSbilico è letteratura, ma è anche osservazione clinica, denuncia educativa, grido pedagogico. Edoardo è un adolescente la cui identità viene erosa da un contesto familiare ambiguo, da una scuola incapace di contenere e riconoscere le sue differenze, da un mondo adulto che oscilla tra la paura e l’indifferenza.

    👁️‍🗨️ Una narrativa del sintomo: tra psicopatologia e poesia

    Il romanzo affronta, senza mai nominarle in modo diretto, tematiche afferenti alla schizofrenia precoce, ai disturbi dell’umore, alle fasi dissociative dell’adolescenza. Ma lo fa con uno stile che ricorda i grandi maestri della letteratura del disagio: Sbilico sembra voler dialogare silenziosamente con Memorie di un malato di nervi di Schreber, con le visioni di Alda Merini, con il realismo tragico di Silvia Plath. La follia non è esibita, ma suggerita, come una fenditura ontologica nell’essere stesso del protagonista.

    Il nome “Sbilico” non è casuale: indica una postura esistenziale inclinata, un’oscillazione continua tra polarità psichiche, tra desiderio e paura, lucidità e delirio, desiderio d’amore e orrore del legame. L’autore non concede al lettore facili certezze o redenzioni: non c’è un lieto fine, né una risoluzione terapeutica, ma solo l’accettazione tragica della complessità mentale umana.

    🧠 Una lettura terapeutica per adulti disattenti

    Per genitori e insegnanti, Sbilico rappresenta uno strumento di sensibilizzazione potente: ci ricorda quanto l’adolescente, oggi più che mai, sia una creatura liminare, affacciata su abissi che spesso gli adulti si ostinano a ignorare. La scuola, nel romanzo, è specchio della cecità istituzionale: più che un luogo di crescita, appare come un meccanismo di esclusione, incapace di accogliere chi non rientra negli standard cognitivi ed emotivi.

    Lo sguardo dell’autore è però sempre carico di pietas educativa: Edoardo non è un “caso”, ma un’anima. È una voce che chiede ascolto, contenimento, interpretazione. Ed è qui che il romanzo si offre come materiale vivo per chi opera nella relazione d’aiuto: psicologi scolastici, educatori, clinici dell’età evolutiva, counselor, potranno riconoscere nelle pagine di Sbilico una drammatizzazione letteraria dei vissuti che ogni giorno si incontrano nei corridoi dei licei, nelle stanze della psicoterapia, negli occhi dei ragazzi che non riescono a stare “in asse”.

  • Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

    Perché le Lezioni da 60 Minuti Non Funzionano (Più)

    Il mito delle 5 ore: quanto apprendono davvero gli studenti?

    L’architettura oraria della scuola italiana — mediamente composta da cinque moduli da 60 minuti — risale a modelli educativi del primo Novecento. Oggi, le neuroscienze dimostrano che questo assetto è incompatibile con il funzionamento neurobiologico dell’attenzione umana, soprattutto in età evolutiva.

    Uno studio pubblicato su Teaching of Psychology (Wilson & Korn, 2007) ha evidenziato come il picco di attenzione si raggiunga nei primi 10-15 minuti di una lezione, per poi declinare drasticamente. Dopo 30 minuti, il cervello è già in fase di disimpegno. A 45 minuti, l’apprendimento è minimo, salvo nei casi in cui si introducano variazioni di stimolo, pause o metodi attivi.

    Quanto si trattiene dopo una giornata scolastica?

    Secondo la curva dell’oblio di Ebbinghaus, senza rinforzo:

    • Dopo 24 ore, si dimentica il 70% delle nozioni ricevute.
    • Dopo una settimana, resta meno del 10%.

    Questi dati sono stati confermati da ricerche più recenti sull’apprendimento, come quelle condotte da John Dunlosky e Elizabeth Bjork: la ripetizione distribuita, il recupero attivo e il testing effect sono decisivi per il consolidamento in memoria a lungo termine.

    Dalla lezione trasmissiva alla didattica neurocompatibile

    L’inadeguatezza del modello lezione-spiegazione-interrogazione ha portato a una nuova pedagogia delle neuroscienze. La cosiddetta neurodidattica propone formati brevi, modulari e multisensoriali, con momenti di rielaborazione attiva.

    Tra le alternative già in sperimentazione:

    • Spaced Learning (UK, progetto dell’OECD): lezioni da 20 minuti, interrotte da 10 minuti di attività motorie o ludiche. Risultato: +17% di ritenzione a lungo termine.
    • Metodo CLIL e flipped classroom: lo studente è al centro del processo, attivo nella costruzione di significato. Il docente diventa mediatore e facilitatore cognitivo.
    • Metodo finlandese: lezioni da 45 minuti, con pause ogni 15, alto uso di outdoor education. Secondo PISA 2022, la Finlandia è tra i Paesi con migliori risultati in reading e problem-solving.
    • Scuole senza voti (Germania, Olanda): il focus si sposta su feedback qualitativi e sviluppo metacognitivo.

    Progetti pilota italiani

    In Italia, alcune esperienze pionieristiche stanno tracciando nuove vie:

    • Istituto Comprensivo di Trento 7, con il progetto “Tempo modulato”: lezioni da 30 minuti, alternate a momenti di scrittura cooperativa, coding, attività teatrali.
    • Scuole Senza Zaino: al centro la responsabilizzazione dello studente e la progettualità personale.
    • “Didattica del silenzio” di Franco Lorenzoni, Casa-laboratorio di Cenci: stimolazione dell’intelligenza emotiva, non solo cognitiva.

    Quale futuro per la didattica?

    Occorre ripensare radicalmente la scansione temporale dell’apprendimento:

    • Moduli di 20-25 minuti con frequenti pause attive
    • Integrazione di attività motorie e manipolative
    • Valutazioni formative e non solo sommative
    • Ambienti di apprendimento flessibili e neuroergonomici

    La scuola del futuro dovrà essere bio-compatibile, adattata al ritmo cerebrale e non viceversa.