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  • Mirella Antonione Casale: la rivoluzione gentile dell’inclusione

    Mirella Antonione Casale: la rivoluzione gentile dell’inclusione

    L’inizio: un tempo d’ombra

    C’è stato un tempo in cui la scuola italiana somigliava troppo a un’istituzione disciplinare: chi non rientrava nei canoni prestabiliti della “normalità” veniva isolato, allontanato, espulso — pur restando, formalmente, “accolto”. Le cosiddette classi differenziali, istituite ufficialmente nel 1928 e attive fino alla fine degli anni Settanta, non erano altro che una forma legittimata di ghettizzazione.

    Non erano rare le diagnosi affrettate, i giudizi lapidari, le esclusioni mascherate da “forme speciali di attenzione”. Si trattava, in realtà, di un’esclusione sistemica, istituzionalizzata, che legittimava l’idea che alcuni corpi e alcune menti non fossero degne di partecipare al dialogo educativo.

    In quel panorama rigidamente normativo e clinico, la scuola diventava spesso lo specchio del manicomio: una struttura che seleziona, separa, stigmatizza. Era l’eco, nell’ambito dell’istruzione, dello stesso sistema psichiatrico contro cui Franco Basaglia stava già conducendo la sua battaglia etica e politica. Come il manicomio, anche la scuola separava per “curare”, ma in realtà creava stigmi indelebili. In questa struttura chiusa, l’alunno con disabilità o difficoltà specifiche non era considerato soggetto di diritto, ma oggetto da custodire. In una parola: da neutralizzare.

    La svolta: Casale e la voce degli esclusi

    In questo scenario si staglia, con discrezione e forza, la figura di Mirella Antonione Casale: pedagogista, studiosa, e soprattutto visionaria dell’inclusione. Attiva negli anni in cui Basaglia apriva le porte dei manicomi, Casale intuì che la “cura” per l’esclusione non poteva consistere in adattamenti esterni, ma doveva passare da una rivoluzione interna al sistema educativo.

    Fu tra le prime a sostenere l’importanza della piena integrazione scolastica degli alunni con disabilità, non come concessione caritatevole, ma come diritto inalienabile. A lei si devono le prime riflessioni organiche sul superamento delle classi differenziali, sulle “barriere didattiche” e sulla necessità di misure compensative e dispensative per garantire pari dignità e accesso al sapere.

    Casale, con il rigore della pedagogista e la sensibilità dell’educatrice, fu una delle voci più autorevoli nella stesura della Legge 517 del 1977, pietra miliare della scuola italiana che decretava la chiusura delle classi speciali e l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi comuni. Un atto epocale, figlio di un tempo che cominciava a parlare, finalmente, la lingua dei diritti.

    Basaglia e Casale: due fronti dello stesso orizzonte

    È in questo clima che Franco Basaglia comincia la sua rivoluzione. Con la chiusura dei manicomi e l’approvazione della Legge 180 del 1978, egli non libera soltanto i reclusi della psichiatria, ma ridefinisce il concetto stesso di persona: nessuno può essere ridotto alla sua diagnosi. Il suo pensiero — che la libertà non è un premio da meritare, ma una condizione originaria — si espande oltre l’ospedale psichiatrico.

     Mirella Antonione Casale, con minore visibilità ma pari intensità etica, porta avanti una riforma pedagogica che guarda alla persona prima del suo “deficit”, e si oppone radicalmente alla medicalizzazione dell’educazione. Dove il sistema vedeva devianza o ritardo, Casale scorgeva potenzialità da liberare, differenze da valorizzare.

    Da qui l’abolizione delle classi speciali, la valorizzazione della didattica individualizzata, l’introduzione dei docenti di sostegno, prima ancora che si parlasse di “inclusione” come parola chiave.

    L’eredità invisibile ma decisiva

    Oggi chi entra in un’aula con un PDP o un PEI, chi affronta un esame universitario con il tempo aggiuntivo, chi riceve materiali personalizzati, sta camminando lungo il sentiero aperto da Mirella Antonione Casale.

    La sua pedagogia dell’inclusione ha saputo ricucire le lacerazioni della scuola selettiva, restituendo alla didattica il suo compito più alto: accogliere, comprendere, valorizzare. E in un’epoca che ancora fatica a coniugare giustizia ed equità, la sua figura andrebbe riscoperta, studiata, onorata. Non solo nei testi, ma nella pratica quotidiana di ogni aula.

    In un tempo in cui si rischia di dimenticare la radice delle conquiste civili, è doveroso ricordare che dietro ogni diritto c’è un pensiero, una lotta, una visione.

  • Il senso di colpa: radici psichiche e vie di liberazione

    Il senso di colpa: radici psichiche e vie di liberazione

    Il peso invisibile della colpa

    Il senso di colpa è un’emozione secondaria, complessa e culturalmente modellata, che emerge quando percepiamo di aver violato una norma morale o relazionale significativa. Non si tratta soltanto di un sentimento passeggero, ma di una risposta psichica profonda, che può strutturarsi in forme nevrotiche o persino psicotiche, compromettendo il benessere dell’individuo.

    La psicoanalisi freudiana ne ha fatto uno dei cardini della nevrosi: secondo Freud, la colpa nasce dal conflitto tra Es e Super-Io, tra pulsioni istintuali e istanze morali interiorizzate. Ma anche nella psicologia umanistica di Carl Rogers, essa viene vista come il risultato di uno scarto tra il sé reale e il sé ideale, generando una tensione esistenziale che può cronicizzarsi.

    Quando nasce e cosa genera

    Il senso di colpa può emergere in molteplici situazioni: dopo un’azione trasgressiva, un’omissione, o anche solo per pensieri giudicati inappropriati. In ambito clinico, però, la colpa non sempre è legata a fatti oggettivi: spesso si radica in vissuti precoci, legati a dinamiche familiari disfunzionali. I bambini iper-responsabilizzati, ad esempio, tendono da adulti a sentirsi colpevoli per tutto ciò che non controllano.

    Effetti sulla psiche e sul corpo:

    • Disturbi d’ansia e dell’umore
    • Somatizzazioni (gastralgie, cefalee, insonnia)
    • Bassa autostima e auto-svalutazione
    • Tendenza all’auto-punizione e all’autosabotaggio

    Le forme patologiche della colpa

    In ambito psicopatologico, si parla di colpa depressiva e colpa persecutoria. La prima si lega al rimorso e all’autocritica eccessiva, tipica del disturbo depressivo maggiore. La seconda, invece, emerge in contesti psicotici o nei disturbi di personalità borderline, con vissuti paranoidi, proiezioni e angosce di punizione.

    Inoltre, secondo Heinz Kohut, nella sua prospettiva psicodinamica, esistono colpe narcisistiche, legate alla ferita dell’ideale del sé, e colpe relazionali, legate all’aver deluso figure significative.

    È possibile liberarsene?

    Superare il senso di colpa non significa annullarlo, ma integrarlo. Come afferma la psicoterapeuta e ricercatrice Brené Brown, «la colpa può essere uno strumento evolutivo se la trasformiamo in responsabilità». In questo senso, il lavoro terapeutico è fondamentale:

    Strategie cliniche:

    • Psicoterapia cognitivo-comportamentale: decostruzione dei pensieri disfunzionali legati alla colpa
    • EMDR: rielaborazione di traumi legati a episodi generativi del senso di colpa
    • Terapia psicodinamica: ricostruzione delle dinamiche interiori e familiari che alimentano la colpa

    Accanto a queste, pratiche come la mindfulness, training autogeno, la scrittura terapeutica e i percorsi di auto-compassione (Neff, 2003) aiutano ad accogliere le emozioni senza giudizio, favorendo un’autonarrazione più sana.

  • Figure bistabili e ambiguità digitale

    Figure bistabili e ambiguità digitale

    Le figure bistabili, note sin dal XIX secolo (Necker, 1832; Jastrow, 1899), rappresentano una frontiera iconica della psicologia percettiva. Tali immagini ambigue consentono due o più letture incompatibili, pur coesistendo nello stesso stimolo visivo. Il soggetto non è in grado di mantenerle simultaneamente: l’alternanza è inevitabile e spesso involontaria. Questo fenomeno è una potente metafora epistemologica della crisi interpretativa del nostro tempo.

    Nell’epoca dell’infobesità digitale, le figure bistabili non sono più solo strumenti di studio neurocognitivo, ma simboli semiotici di una comunicazione disgregata, dove ogni segno slitta di significato in base al frame algoritmico, alla bolla sociale, al bias di conferma.

    La percezione tra realtà e costruzione

    Secondo la neurofenomenologia contemporanea, la percezione non riflette la realtà in modo passivo, ma la costruisce attivamente. Le fluttuazioni nella lettura di una figura bistabile sono prodotte da oscillazioni neuronali spontanee(Sterzer et al., Nat Rev Neurosci, 2009), ma anche da influenze top-down: esperienze, aspettative, contesto culturale.

    Analogamente, nella sfera comunicativa odierna, non esiste più un codice stabile di riferimento: ogni messaggio – testo, immagine o video – si presta a una pluralità di interpretazioni che scivolano da un significato all’altro in base al pubblico, alla piattaforma, al momento storico.

    Social media e crisi dell’ermeneutica

    Il crollo delle chiavi ermeneutiche è una delle grandi emergenze del presente. In una cultura visiva iperaccelerata, l’utente medio non possiede più gli strumenti cognitivi e semiotici per decifrare in modo critico i contenuti. I social network fungono così da catalizzatori di percezione bistabile: si passa in pochi istanti dalla commozione alla polarizzazione, dalla verità alla disinformazione, dalla testimonianza autentica alla manipolazione algoritmica.

    Il frame digitale funziona come una “camera di risonanza percettiva”: ciò che vedo è ciò che mi è stato anticipato, suggerito, preformattato da modelli predittivi (bias dell’aspettativa) e da feedback di gruppo (bias del consenso).

    Bias cognitivi nella lettura digitale

    Le figure bistabili offrono un modello per comprendere i principali bias cognitivi che strutturano l’esperienza nei social:

    • Bias della salienza: l’interpretazione prevale su base emozionale e visiva, non razionale.
    • Bias di conferma: si privilegiano contenuti che rinforzano le proprie convinzioni.
    • Bias dell’ambiguità: in assenza di significato univoco, la mente si rifugia in scorciatoie cognitive.
    • Bias dell’euristica della disponibilità: ciò che è immediatamente accessibile o frequente diventa “vero”.

    La disintegrazione del significato

    La comunicazione digitale odierna si muove, come le figure bistabili, in una zona di interstizio semantico, in cui l’ambiguità è programmata e dove ogni messaggio può essere rovesciato nel suo opposto. Questa disintegrazione del significato non è una semplice fragilità cognitiva, ma una crisi antropologica: l’uomo contemporaneo assiste impotente alla dissoluzione delle categorie interpretative con cui decifrava il mondo.

    Come notava Paul Virilio, la velocità dell’informazione genera una “cecità della trasparenza”. In questo contesto, la figura bistabile diviene emblema della fragilità della verità nell’era postmediatica.

    Per una nuova ecologia della percezione

    Riapprendere a vedere – nel senso ermeneutico e neuropsicologico – è una sfida educativa e culturale. Occorre formare individui in grado di:

    • Riconoscere l’ambiguità come dato e non come fallimento.
    • Sospendere il giudizio dinanzi alla complessità del segno.
    • Riscoprire lenti interpretative non binarie, capaci di contenere la polisemia dell’esperienza digitale.

    Le figure bistabili, da semplice illusione ottica, si rivelano dunque strumenti pedagogici e clinici, utili per rieducare l’occhio e la mente a una percezione più integrata, meno reattiva, più critica.

  • Infanzia e memoria: la scienza del ricordo nei primi anni di vita

    Infanzia e memoria: la scienza del ricordo nei primi anni di vita

    La memoria dell’infanzia rappresenta uno degli enigmi più affascinanti della neuropsicologia dello sviluppo. Nonostante l’infanzia sia il periodo più ricco in termini di acquisizione di competenze fondamentali, come il linguaggio e la socialità, i ricordi autobiografici dei primi anni di vita sono frammentari, se non del tutto assenti. Questa lacuna è nota come amnesia infantile, un termine coniato da Sigmund Freud nel 1899, ma oggi corroborato da solide evidenze neuroscientifiche.

    A che età iniziamo a ricordare?

    Studi longitudinali hanno dimostrato che i primi ricordi autobiografici coscienti si collocano, nella maggior parte dei soggetti, tra i 3 e i 4 anni di età. Tuttavia, come evidenziato da Bauer e Larkina (2016), la stabilità e l’accuratezza di questi ricordi sono soggette a una forte erosione nel tempo, e solo alcuni eventi specifici sopravvivono alla ristrutturazione mnestica dell’età adulta.

    Il motivo principale risiede nello sviluppo neurologico: l’ippocampo, struttura centrale per la formazione della memoria episodica, non è pienamente funzionale nei primi anni di vita. Solo a partire dal terzo anno si registra una sufficiente integrazione tra ippocampo e corteccia prefrontale, condizione necessaria per la codifica e il recupero di esperienze autobiografiche complesse (Nelson, 1995; Bauer, 2007).

    Perché ricordiamo di più gli eventi traumatici?

    In netto contrasto con l’amnesia infantile, molti soggetti riportano ricordi vividi e dettagliati di eventi traumatici occorsi in tenera età. Questa apparente contraddizione è spiegata dal coinvolgimento della amigdala, struttura limbica deputata all’elaborazione delle emozioni, che matura prima dell’ippocampo e che mostra un’attività accentuata in situazioni di pericolo, paura o stress.

    La codifica mnestica degli eventi traumatici è infatti potenziata dall’attivazione del sistema noradrenergico e cortico-surrenalico, che rinforza l’immagazzinamento delle informazioni emotivamente salienti. Come evidenziato dallo studio di McGaugh (2004), gli ormoni dello stress (ad esempio il cortisolo) modulano positivamente la memoria emotiva, rendendo gli eventi traumatici resistenti all’oblio.

    Un classico esempio è rappresentato dai bambini che hanno subito incidenti o esperienze di ospedalizzazione precoce: molti di essi, pur non ricordando eventi quotidiani coevi, riportano immagini nitide, talvolta intrusive, legate al trauma. Uno studio condotto da Goodman et al. (1997) dimostra che bambini di 3-4 anni che avevano subito un intervento chirurgico conservavano ricordi specifici anche mesi dopo l’evento, in maniera significativamente superiore rispetto a eventi neutri.

    Trauma precoce e memoria implicita: quando il corpo ricorda prima della mente

    La memoria degli eventi traumatici che avvengono nei primi anni di vita assume una forma diversa dalla memoria episodica classica. Si parla in questo caso di memoria implicita o procedurale, che si inscrive nei circuiti subcorticali e somatosensoriali prima ancora che il linguaggio o la coscienza narrativa possano intervenire.

    Secondo le teorie di Allan Schore e della psicoanalisi neurobiologica, i traumi relazionali precoci – come trascuratezza, mancanza di sintonizzazione affettiva, o esperienze invasive – si depositano nella struttura del Sé attraverso vie neuroaffettive non verbali. La corteccia orbitofrontale, in dialogo precoce con l’amigdala e il sistema limbico, diventa l’archivio di questa “memoria senza parole”.

    La conseguenza clinica è rilevante: molti adulti portano nel corpo tracce mnestiche di traumi infantili senza poterne avere un ricordo cosciente, ma manifestando sintomi psicosomatici, disregolazione affettiva, disturbi dissociativi o forme croniche di ansia. Il corpo, come suggerisce Van der Kolk (2014), “tiene il conto” (The Body Keeps the Score).

    Memoria, linguaggio e narrazione: una triade evolutiva

    Un altro fattore chiave nel consolidamento della memoria infantile è il linguaggio narrativo. La possibilità di verbalizzare gli eventi li rende più accessibili al recupero cosciente. Questo spiega perché bambini cresciuti in ambienti comunicativamente stimolanti sviluppano una maggiore capacità di ricordare esperienze passate. Le narrazioni genitoriali svolgono un ruolo cruciale nel dare forma e coerenza ai ricordi, trasformandoli da semplici sensazioni in veri e propri episodi autobiografici (Fivush et al., 2006).

    Eredità invisibili: la memoria transgenerazionale del trauma

    Un’ulteriore espansione della comprensione mnestica in psicologia dello sviluppo riguarda la trasmissione transgenerazionale del trauma. Studi epigenetici dimostrano che l’esposizione a eventi traumatici gravi (es. guerre, carestie, deportazioni) può lasciare tracce misurabili nel corredo biologico delle generazioni successive. Un famoso studio pubblicato su Biological Psychiatry (Yehuda et al., 2016) ha evidenziato alterazioni nei livelli di cortisolo nei figli di sopravvissuti all’Olocausto, suggerendo una trasmissione epigenetica dello stress traumatico.

    Ma non si tratta solo di geni. La trasmissione avviene anche attraverso il linguaggio emotivo, le narrazioni familiari, le omissioni e i silenzi, che costruiscono nei discendenti un paesaggio psichico intriso di significati traumatici mai pienamente esperiti, ma profondamente incorporati. La “memoria assente”, per citare Marianne Hirsch, agisce come postmemoria: un’eredità psichica ricevuta senza esperienza diretta.

    Clinica del ricordo: verso una rielaborazione trasformativa

    Nel trattamento psicoterapeutico, la ricostruzione di questi frammenti mnestici – impliciti, somatici o transgenerazionali – richiede tecniche non puramente cognitive. Approcci come la terapia sensomotoria (Ogden), l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), e la psicoterapia relazionale integrata consentono al soggetto di dare forma e significato a ciò che non è stato mai nominato, ma che permane come traccia silente.

    Nel lavoro clinico con bambini e adolescenti, è fondamentale favorire l’integrazione narrativa precoce: aiutare il minore a nominare le emozioni, a costruire un senso di continuità tra ciò che sente e ciò che pensa. Solo così la memoria traumatica può essere trasmutata da sintomo a consapevolezza.

    Conclusione: la memoria infantile non è assente, ma diversa
    La nostra mente non registra i primi anni di vita come una videocamera oggettiva, ma come un sistema selettivo, emotivamente modulato e strutturalmente incompleto. Ricordiamo ciò che ha attivato in profondità i nostri circuiti neurali, ciò che ci ha segnato. In questa prospettiva, l’infanzia non è un vuoto mnestico, ma una zona opaca della coscienza, dove il corpo e le emozioni ricordano anche quando le parole non bastano.

  • La frustrazione come via maestra alla maturazione

    La frustrazione come via maestra alla maturazione

    Il paradosso generativo della frustrazione

    Nel pensiero psicodinamico classico e contemporaneo, la frustrazione non è solo tollerabile: è necessaria. Essa si configura come un passaggio liminale, un confine da oltrepassare per accedere a una dimensione superiore di integrazione psichica. Non sorprende, infatti, che Wilfred Bion parlasse della capacità negativa – la capacità, cioè, di sostare nell’incertezza e nella mancanza – come uno degli elementi costitutivi dell’apparato mentale maturo.

    Nel soggetto adolescente, la frustrazione giunge con veemenza: l’inadeguatezza percepita, il desiderio inappagato, il rifiuto sociale o affettivo si configurano come ostacoli apparentemente insormontabili. Eppure è proprio attraverso il confronto con tali limiti che il giovane può trasformare l’esperienza vissuta in elaborazione simbolica, costituendo i primi nuclei di un’identità solida e capace di resilienza.

    Adolescenza: l’età del disincanto e della ristrutturazione psichica

    Secondo Erik Erikson, l’adolescenza è la fase dello sviluppo in cui si gioca la crisi dell’identità versus la diffusione dell’identità. È il tempo in cui l’Io si confronta con la necessità di unificare sé stesso, scegliendo cosa abbandonare dell’infanzia e cosa assumere del mondo adulto. Tale operazione non può avvenire senza frustrazione.

    La psicoanalista Nancy McWilliams osserva che la frustrazione permette lo sviluppo della capacità di mentalizzazione e di tolleranza alle ambivalenze, rendendo l’individuo meno reattivo e più riflessivo. In altre parole, la frustrazione educa all’attesa, raffina il desiderio, sottrae l’essere umano alla tirannia dell’impulso.

    Frustrazione e neuroplasticità: il cervello che apprende il limite

    La ricerca neuroscientifica ha confermato quanto la psicologia clinica aveva intuito: le esperienze emotivamente difficili – come quelle frustranti – attivano meccanismi neuroplastici fondamentali. Studi condotti presso il Department of Brain and Cognitive Sciences del MIT (Miller & Cohen, 2001) hanno evidenziato il ruolo della corteccia prefrontale nello sviluppo della regolazione emotiva, particolarmente sensibile all’esperienza dell’impedimento.

    In adolescenza, la maturazione sinaptica del lobo frontale è ancora in corso, il che rende più difficile la gestione della frustrazione, ma anche più feconda la sua interiorizzazione. È attraverso l’esposizione reiterata a situazioni di limite, infatti, che si rinforzano i circuiti deputati alla inibizione comportamentale, al discernimento e alla costruzione del Sé riflessivo.

    L’arte della gestione: contenere, non rimuovere

    La cultura contemporanea tende a medicalizzare o a evitare la frustrazione, come se si trattasse di un virus da cui immunizzarsi. In ambito educativo, questo ha generato la figura dell’adulto “salvifico”, che interviene per appianare ogni ostacolo nel cammino dell’adolescente, impedendogli di strutturare tolleranza alla delusione.

    La frustrazione, invece, va contenuta, non soppressa. È nella funzione di “holding”, come l’avrebbe definita Winnicott, che l’adulto diventa matrice trasformativa: non si tratta di evitare il dolore dell’esperienza frustrante, ma di restituirgli senso attraverso la parola, l’ascolto, la simbolizzazione.

    Frustrazione e generatività: l’energia trasformativa del limite

    La frustrazione è il terreno fertile della creatività. Mihaly Csikszentmihalyi, nei suoi studi sulla creatività, dimostra che le menti più prolifiche sono spesso quelle che hanno saputo sublimare la frustrazione in immaginazione, in progettualità. Laddove il bisogno non trova soddisfazione immediata, il soggetto può trovare una via di compensazione che si fa crescita.

    In adolescenza ciò si traduce in arte, sport, riflessione, ribellione positiva. Quando ben orientata, la frustrazione diventa impulso vitale, forza dionisiaca che genera forma, coscienza, senso.

    Conclusione: una pedagogia del limite

    Educare alla frustrazione significa insegnare ad abitare la soglia, ad accogliere il vuoto come preludio alla nascita di nuove configurazioni identitarie. “Dove c’è mancanza, può nascere il desiderio”, dice Recalcati. Ma dove tutto è soddisfatto, il desiderio si atrofizza, si spegne nella bulimia dell’onnipotenza.

    L’adolescente che ha imparato a stare nella frustrazione non è un giovane rassegnato, ma un soggetto in grado di differire il bisogno, di sopportare la tensione emotiva, di darsi un orizzonte. In altri termini, un essere umano che sa crescere.


  • Eugenio Borgna – L’ ora che non ha più sorelle

    Eugenio Borgna – L’ ora che non ha più sorelle

    Eugenio Borgna, in L’ora che non ha più sorelle, si muove con il passo assorto e reverente del pellegrino dell’interiorità umana, nel territorio più silenzioso e struggente della psichiatria: il suicidio, declinato nella sua dimensione femminile. Non una trattazione tecnico-scientifica, ma una sinfonia di voci spezzate, una meditazione etica ed esistenziale che, attraversando la letteratura, la mistica e la clinica, si fa ascolto radicale del dolore invisibile.

    La lingua della fragilità

    Borgna non scrive con gli strumenti della psichiatria oggettivante, ma con l’inchiostro dell’empatia fenomenologica. Egli rifiuta l’arroganza del sapere normativo e invita il lettore a contemplare le lacerazioni silenti che abitano l’anima femminile: la solitudine, il senso di abbandono, la mancanza di risonanza emotiva nel mondo. Il suicidio, in questa prospettiva, non è atto patologico, ma grido afasico, ultimo gesto di una comunicazione mancata, l’eco estremo di un mondo interiore che non ha trovato ascolto.

    Una clinica poetica

    Nei testi di Borgna, il confine tra psichiatria e poesia si dissolve: le sue riflessioni sono attraversate da voci femminili – Sylvia Plath, Virginia Woolf, Antonia Pozzi – che diventano paradigmi dell’”insofferenza all’insensibilità del reale”, come scrisse Maria Zambrano. La donna suicida, per Borgna, è spesso colei che ha vissuto con un’intensità talmente bruciante da non reggere l’opacità del mondo. Non follia, dunque, ma ipertrofia del sentire, spiritualità senza dimora, estetica dell’assenza.

    La medicina dell’ascolto

    Il messaggio più potente del volume è il monito etico a una medicina che sappia nuovamente farsi ascolto. Borgna invoca una psichiatria non ridotta a classificazione, ma capace di accogliere l’irriducibile singolarità della sofferenza. In un’epoca anestetizzata e iperproduttiva, il suicidio femminile è uno specchio impietoso: mostra le crepe di una società che ha smarrito il senso del consolare, dell’accompagnare, del rimanere.


  • Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Neuromiti nella didattica: quando il cervello è frainteso

    Nell’era della scuola “neurocentrica”, dove ogni metodologia didattica ambisce a definirsi “evidence-based”, si annida un pericolo silenzioso e affascinante: il neuromito. Con questo termine si indicano quelle convinzioni errate sul funzionamento del cervello umano che, pur prive di fondamento scientifico, si diffondono capillarmente nella formazione docente, nella pratica educativa e persino nei colloqui con le famiglie.

    Molti di questi miti derivano da una semplificazione eccessiva o da una distorsione dei risultati delle neuroscienze. Il pericolo? Che, anziché promuovere un’educazione più efficace, si costruiscano prassi rigide, stigmatizzanti o inutili.

    Che cosa sono i neuromiti?

    Il termine “neuromito” è stato coniato nel 2002 da Paul A. Howard-Jones, docente dell’Università di Bristol, per descrivere false credenze sul cervello che trovano terreno fertile nella scuola e nella formazione. Uno dei suoi studi più citati (Howard-Jones, 2014) ha mostrato che oltre il 70% degli insegnanti europei crede in almeno un neuromito, nonostante il loro alto livello di istruzione.

    Esempi classici includono:

    • “Usiamo solo il 10% del nostro cervello”
    • “Gli stili di apprendimento (visivo, uditivo, cinestetico) vanno assecondati per ogni alunno”
    • “L’emisfero destro è creativo, il sinistro è logico”
    • “È meglio insegnare ai bambini solo nella loro finestra sensibile”
    • “Il cervello si sviluppa solo fino a una certa età”

    Una questione di (in)formazione

    Uno studio condotto su 242 insegnanti italiani (Ferrero, Garaizar, & Vadillo, 2016) ha evidenziato che l’89% crede nell’esistenza degli stili di apprendimento come criterio per adattare la didattica. Tuttavia, nessuna ricerca neuroscientifica ha mai dimostrato un miglioramento significativo nei risultati scolastici adottando tale classificazione.

    Allo stesso modo, credere che il cervello abbia “un lato creativo e un lato logico” è una sovrainterpretazione di ricerche sulla specializzazione emisferica, ma le neuroscienze moderne mostrano che le funzioni cognitive complesse richiedono l’integrazione di entrambi gli emisferi (Gazzaniga, 2009).

    Perché sono dannosi?

    I neuromiti non sono semplici errori concettuali: influenzano direttamente il modo in cui gli educatori insegnano e valutano. Possono portare a etichettature precoci (“questo bambino non è portato per la matematica”), a strategie didattiche inefficaci e a spreco di risorse. In ambito clinico, possono addirittura ritardare diagnosi corrette in bambini con difficoltà specifiche dell’apprendimento.

    Una ricerca dell’OCSE (2019) ha sottolineato che la presenza di neuromiti nei sistemi scolastici rallenta l’innovazione educativa basata su dati scientifici e aumenta la dipendenza da mode pedagogiche.

    Come difendersi?

    1. Formazione scientificamente fondata

    Occorre inserire nei percorsi di aggiornamento per docenti e pedagogisti moduli di neuroeducazione, fondati su evidenze, per distinguere tra ciò che è “neuro-realistico” e ciò che è solo una “neuro-mod(a)”.

    2. Pensiero critico e interdisciplinarità

    È fondamentale promuovere il dialogo tra scienze cognitive, psicologia dell’educazione e didattica. Le neuroscienze non dettano il “come si insegna”, ma offrono vincoli e possibilità da tradurre con intelligenza pedagogica.

    3. Ricerca condivisa scuola-università

    Istituire progetti pilota in cui le scuole collaborano con centri di ricerca per monitorare gli effetti reali degli approcci didattici è una strada promettente.

    Esempio concreto: “Programmi per potenziare il cervello”

    Molte scuole hanno acquistato negli ultimi anni costosi software “per l’allenamento cerebrale” o “per lo sviluppo delle intelligenze multiple”, attratte da pubblicità che promettono miracoli cognitivi. Tuttavia, la letteratura scientifica (Simons et al., 2016) mostra che gli effetti di questi training sono spesso limitati e non trasferibili alla vita scolastica reale.

    Conclusione

    La fascinazione per il cervello è comprensibile: ogni educatore vorrebbe una chiave per liberare il potenziale degli alunni. Tuttavia, una chiave sbagliata apre porte sbagliate.
    Conoscere e smascherare i neuromiti è un dovere etico e professionale per ogni docente e pedagogista, perché solo su basi scientifiche possiamo costruire una scuola realmente inclusiva, efficace e umana.

  • Tipi di memoria funzioni e potenziamento nei DSA

    Tipi di memoria funzioni e potenziamento nei DSA

    La memoria non è un archivio statico, ma un atto creativo del cervello: ricorda ricostruendo, non conservando.” D.L.

    I diversi tipi di memoria: classificazione e funzioni

    Memoria di lavoro (working memory)

    È il fulcro della nostra capacità di mantenere e manipolare informazioni per brevi periodi.
    Esempio pratico: un bambino che ascolta una consegna e contemporaneamente deve trascrivere ciò che ha sentito.
    Funzione: essenziale per la comprensione del testo, la risoluzione di problemi matematici e la pianificazione.

    Memoria a breve termine

    Immagazzina le informazioni per pochi secondi o minuti.
    Esempio pratico: ricordare un numero di telefono per il tempo necessario a comporlo.
    Funzione: sostiene l’apprendimento immediato, ma senza manipolazione attiva dei dati.

     Memoria a lungo termine

    Comprende le informazioni conservate per lunghi periodi. Si divide in:

    • Memoria dichiarativa (esplicita): riguarda fatti (memoria semantica) e esperienze personali (memoria episodica).
    • Memoria procedurale (implicita): concerne abilità automatiche, come andare in bicicletta o scrivere.

    Funzione: immagazzina conoscenze, automatizza competenze, costruisce la narrazione autobiografica.

    Quando la memoria non funziona bene: segnali e conseguenze

    Nei bambini con DSA (in particolare dislessia, disortografia e discalculia), la memoria può presentare fragilità specifiche:

    • Difficoltà nella memoria fonologica: ostacola la decodifica dei suoni e la corretta ortografia delle parole.
    • Compromissione della memoria di lavoro: limita l’autonomia nei compiti complessi e rallenta l’elaborazione cognitiva.
    • Deficit della memoria procedurale: rende difficoltosa l’automatizzazione delle abilità scolastiche, costringendo il bambino a “ripensare” ogni volta come si legge, scrive o calcola.

    Queste difficoltà non vanno confuse con scarso impegno o svogliatezza: sono segni di un funzionamento neuropsicologico differente, che richiede un approccio mirato.

    Strategie e strumenti per il potenziamento

    Interventi mirati

    • Training specifici sulla memoria di lavoro, come gli esercizi a carico cognitivo crescente (dual tasks, n-back).
    • Mappe concettuali e visive, per alleggerire la memoria a breve termine e sostenere quella semantica.
    • Routinizzazione, ovvero ripetizione e automatizzazione progressiva per rinforzare la memoria procedurale.

    Tecnologie compensative

    • Sintesi vocale, audiolibri e software per la gestione delle informazioni, particolarmente utili nei casi di dislessia.

    Didattica metacognitiva

    Aiuta il bambino a diventare consapevole dei propri processi mentali, utilizzando strategie come l’autoverbalizzazione (“Cosa sto facendo?”, “Qual è il prossimo passo?”).

    Conclusione

    In ambito educativo e clinico, la memoria non va intesa come un contenitore più o meno capiente, ma come una rete dinamica di processi interdipendenti. Quando uno di questi nodi è fragile, tutto l’assetto dell’apprendimento può risentirne. Ma la plasticità cerebrale, unita a un intervento precoce e competente, consente di sviluppare strategie adattive che rafforzano le risorse residue e valorizzano le intelligenze alternative. Comprendere i diversi tipi di memoria significa, dunque, aprire una finestra sul modo unico in cui ogni bambino impara, pensa e costruisce il proprio futuro.

  • Migliorare l’attenzione degli studenti a scuola è una priorità

    Migliorare l’attenzione degli studenti a scuola è una priorità

    • primi 5 minuti sono quelli di massimo focus;

      L’attenzione a scuola: una risorsa in declino?

      In un mondo saturo di stimoli digitali, l’attenzione in classe è diventata una risorsa sempre più fragile. Studi recenti mostrano come il tempo medio di concentrazione nei bambini e negli adolescenti si sia ridotto drasticamente negli ultimi vent’anni. Secondo un’analisi pubblicata su Nature Reviews Neuroscience (2023), l’esposizione prolungata a contenuti digitali rapidi e frammentati altera il funzionamento della corteccia prefrontale, sede del controllo esecutivo e dell’attenzione sostenuta.

      Cosa dice la ricerca: attenzione, multitasking e apprendimento

      Uno studio dell’Università di Stanford (2024) ha dimostrato che il multitasking digitale abbassa la qualità dell’apprendimento fino al 40%, interferendo con la memoria di lavoro e il consolidamento delle informazioni. L’effetto è ancora più marcato in soggetti con difficoltà di attenzione o DSA, che già partono con un carico cognitivo maggiore.

      Strategie didattiche basate sulle neuroscienze

      Oggi si parla sempre più di neurodidattica: un approccio che integra i risultati delle neuroscienze cognitive nella progettazione educativa. Alcuni esempi efficaci:

      • Attività brevi e cicliche: le ricerche della McGill University (2023) confermano che suddividere le lezioni in segmenti di 10-15 minuti con pause attive aumenta l’attenzione sostenuta e riduce la fatica mentale.
      • Didattica multisensoriale: coinvolgere diversi canali sensoriali (visivo, uditivo, cinestesico) facilita la codifica e il recupero delle informazioni, soprattutto nei bambini con disturbi dell’attenzione.
      • Tecniche metacognitive: insegnare agli studenti come funziona la propria attenzione e come gestirla attraverso strumenti di self-regulation migliora significativamente i risultati. Studi dell’Università di Harvard (2023) lo confermano con dati longitudinali su oltre 3.000 studenti tra 8 e 14 anni.
      • Esempi concreti e progetti pilota
      • Nel 2024, il MIM ha promosso un progetto sperimentale in 50 scuole italiane, introducendo “pause neurocognitive” ogni 40 minuti di lezione. I risultati preliminari evidenziano un incremento del 25% nella capacità di attenzione degli studenti e una riduzione del 30% nei comportamenti oppositivo-provocatori in classe.
      • Inoltre, l’uso di ambienti scolastici “low stimuli” (riduzione del rumore, luci naturali, arredi funzionali) ha portato a un miglioramento significativo nel comportamento attentivo in bambini neurodivergenti, come dimostrato in un recente studio condotto all’Università di Padova (2023).
      • Conclusioni
      • Migliorare l’attenzione degli studenti è possibile, ma richiede un cambio di paradigma: serve una scuola più ritmata sul cervello degli studenti, meno votata alla performance e più attenta alla qualità dell’ambiente e delle interazioni. Le neuroscienze ci indicano la via, ora sta a noi percorrerla.
    1. La nuova era della plasticità neuronale

      La nuova era della plasticità neuronale

      Una rivoluzione neuroscientifica in atto

      Per decenni si è creduto che il cervello umano raggiungesse un picco di sviluppo nell’infanzia, per poi irrigidirsi in una struttura statica. La plasticità neuronale, oggi, smentisce questa visione: il cervello non solo continua a modificarsi nel tempo, ma lo fa anche in risposta all’esperienza, all’apprendimento e persino alla sofferenza psichica.

      L’evidenza più eloquente arriva dalle ricerche condotte da Michael Merzenich, pioniere nello studio della riorganizzazione corticale, il quale ha dimostrato come la corteccia uditiva di soggetti adulti possa ristrutturarsi profondamente in seguito a training specifici. Studi successivi (Zatorre et al., 2012) hanno inoltre rivelato modifiche morfologiche nel cervello di musicisti professionisti: un esempio emblematico di plasticità indotta dall’esperienza.

      Applicazioni cliniche: dalla riabilitazione ai disturbi dell’umore

      1. Riabilitazione neurocognitiva post-ictus

      Neuroplasticità è la chiave dei protocolli di riabilitazione motoria e cognitiva post-ictus. Grazie alla stimolazione ripetuta e a tecniche come il Constraint-Induced Movement Therapy (CIMT), si assiste alla formazione di nuove sinapsi e all’assunzione di funzioni da parte di aree cerebrali adiacenti a quelle danneggiate (Taub et al., 2002).

      2. Disturbi dell’umore e psicoterapia

      Anche la psicoterapia modifica il cervello. Ricerche con imaging funzionale (fMRI) hanno evidenziato che la terapia cognitivo-comportamentale può indurre cambiamenti strutturali nel circuito limbico, migliorando la regolazione emotiva in pazienti con depressione maggiore (Goldapple et al., 2004).

      3. Neuroeducazione e apprendimento

      In ambito scolastico, la scoperta che il cervello sia plastico ha rivoluzionato la didattica. L’introduzione di metodologie attive e multimodali, come il metodo Feuerstein, si fonda proprio sulla possibilità di potenziare le funzioni cognitive attraverso esperienze mirate. Ciò è fondamentale anche nei soggetti con DSA, ADHD o ritardo cognitivo, dove un training specifico può modificare le traiettorie evolutive.

      4. Mindfulness e modificazioni corticali

      Pratiche di meditazione, oggi integrate nella psicoterapia e nelle neuroscienze contemplative, mostrano un aumento della densità di materia grigia nella corteccia prefrontale e nell’ippocampo (Hölzel et al., 2011), con ricadute positive su attenzione, memoria e benessere soggettivo.

      Nuove frontiere: stimolazione cerebrale e intelligenza artificiale

      Oggi si esplorano forme di stimolazione non invasiva come la TMS (Stimolazione Magnetica Transcranica) per intervenire su aree cerebrali coinvolte in depressione, ansia e disturbi del comportamento. Parallelamente, l’interazione tra intelligenza artificiale e neuroplasticità sta dando origine a protesi cognitive e interfacce neurali in grado di potenziare l’apprendimento o ristabilire funzioni perdute.

      Verso un nuovo paradigma dell’umano

      L’idea che il cervello sia una macchina fissa è definitivamente tramontata. Il neurosistema umano è, al contrario, organicamente aperto al cambiamento, modellabile in ogni fase della vita. La plasticità neuronale ci restituisce una visione dell’individuo come soggetto trasformabile, educativo, terapeutico e profondamente relazionale

      Come affermava Donald Hebb, padre della teoria sinaptica:

      “Le cellule che si attivano insieme, si connettono insieme.”

      Una frase che oggi è diventata il manifesto di una psicologia dinamica, profondamente neurocompatibile.