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  • Serie sul bullismo: da ‘Adolescents’ a ‘The Glory’

    Serie sul bullismo: da ‘Adolescents’ a ‘The Glory’

    “The Glory e Adolescents: cosa ci insegnano davvero le serie sul dolore adolescenziale?”

    Da Adolescents a The Glory: lo spettacolo del trauma, l’epica della vendetta

    L’universo delle serie tv contemporanee – e in particolare Adolescents (Francia, 2019) e The Glory (Corea del Sud, 2022-2023) – è diventato un laboratorio narrativo dove si esplora il dolore adolescenziale con una crudezza che a tratti turba, a tratti seduce. Ma cosa accomuna due prodotti tanto distanti per cultura, estetica e registro?

    L’uno, un documentario che accompagna per cinque anni due ragazze nel loro percorso di crescita, è una lente sociologica sul disagio quotidiano. L’altro, una serie di fiction, è un’esplosione stilizzata di violenza psicologica, bullismo estremo e vendetta catartica. Eppure, a ben vedere, Adolescents e The Glory parlano della stessa ferita: la costruzione dell’identità sotto il peso dell’umiliazione e dell’indifferenza adulta.

    Il trauma come architrave narrativa

    In entrambi i casi, il trauma non è solo un tema, ma il vero motore drammaturgico. Non assistiamo semplicemente a una cronaca del dolore adolescenziale, ma alla sua estetizzazione. The Glory, in particolare, trasforma il trauma in un’ossessione ipnotica, rendendolo oggetto di uno sguardo voyeuristico e al tempo stesso catartico. La protagonista, Moon Dong-eun, non chiede pietà: architetta una vendetta chirurgica. E lo spettatore applaude.

    In Adolescents, la vendetta non arriva. Ma resta la stessa sensazione: l’istituzione scolastica è assente, la famiglia spesso inconsapevole o impotente. È l’adolescente a portare il peso del mondo, in solitudine.

    Perché ci attraggono queste storie?

    Queste serie non solo ci intrattengono. Ci parlano. Anzi, ci mettono a nudo. Il successo di The Glory – oltre 437 milioni di ore visualizzate nel mondo (fonte: Netflix, 2023) – mostra quanto la società globale si identifichi nel bisogno di giustizia, anche se privata. Ma ciò che più inquieta è la legittimazione implicita: lo spettatore non condanna la protagonista, parteggia per lei. E in questo, la serie diventa specchio di una società incapace di perdonare, ma abilissima nell’architettare punizioni narrative.

    Adolescents, al contrario, ci chiede di guardare senza filtri. Ci costringe a sopportare il tempo lungo dell’attesa, della trasformazione, dell’inadeguatezza.

    Spunti di riflessione per genitori ed educatori

    1. Il bullismo non è fiction. Le scene estreme di The Glory non sono frutto di pura invenzione: la stessa sceneggiatrice, Kim Eun-sook, ha dichiarato di essersi ispirata a reali episodi di cronaca scolastica sudcoreana. Secondo i dati dell’OECD (2023), il 23% degli studenti in Corea ha subito atti di bullismo fisico o verbale. In Italia, i numeri non sono meno inquietanti: ISTAT 2021 riporta che oltre il 22% degli adolescenti è stato vittima di atti di prevaricazione.
    2. Il silenzio degli adulti. Entrambe le opere denunciano, in modo implicito o esplicito, la latitanza delle figure adulte: genitori distratti, insegnanti inerti, dirigenti scolastici complici. Un dato su cui riflettere seriamente, poiché suggerisce che non esiste trauma giovanile senza corresponsabilità adulta.
    3. Vendetta o giustizia riparativa? L’epica della vendetta affascina, ma educa? Lo spettatore che si identifica nella vendetta rischia di rinunciare alla cultura del perdono e della riparazione. In questo senso, The Glory lancia una sfida etica: possiamo davvero celebrare la giustizia quando somiglia alla vendetta?

    Conclusione: lo schermo come specchio pedagogico

    Nel loro linguaggio visivo e narrativo, Adolescents e The Glory parlano anche agli adulti: ai genitori che non ascoltano, agli insegnanti che non vedono, agli psicologi che arrivano tardi. Ma soprattutto agli educatori – in senso lato – che hanno ancora il compito di costruire contesti in cui l’identità adolescenziale possa svilupparsi senza dover attraversare il deserto dell’umiliazione.

    Guardare queste serie con occhi critici, insieme ai propri figli o studenti, può diventare un’occasione educativa. Purché si abbia il coraggio di porre le domande giuste: chi sono io in questa storia? E cosa avrei fatto se fossi stato lì?

  • Adolescenti senza riposo: la nuova epidemia del sonno interrotto

    Adolescenti senza riposo: la nuova epidemia del sonno interrotto

    Il sonno degli adolescenti: un problema sottodimensionato

    Dormire male o troppo poco non è più un’eccezione tra i giovani, ma una condizione diffusa che mina salute, apprendimento e sviluppo psico-affettivo. Oggi, i disturbi del sonno in adolescenza rappresentano una vera emergenza clinico-educativa. L’alterazione dei ritmi circadiani, l’abuso di dispositivi digitali e una società sempre più performativa stanno trasformando il sonno in un lusso biologico.

    Qualità del sonno in declino: cosa accade nel cervello

    La riduzione delle ore di sonno e l’alterazione del ritmo circadiano influiscono direttamente sulla regolazione di importanti neurotrasmettitori, tra cui serotonina, dopamina e melatonina. Studi condotti dal National Sleep Foundation e pubblicati su Sleep Health (2021) evidenziano che il ritardo della fase del sonno (DSPD – Delayed Sleep Phase Disorder) è sempre più comune: gli adolescenti tendono ad addormentarsi dopo mezzanotte e a svegliarsi con fatica, in una dissincronia biologica con gli orari scolastici.

    Inoltre, la fase REM – cruciale per la consolidazione mnemonica ed emotiva – risulta frammentata e insufficiente. L’eccessiva esposizione alla luce blu dei dispositivi elettronici inibisce la secrezione di melatonina, l’ormone che regola l’addormentamento. Ciò comporta un aumento significativo di irritabilità, calo dell’attenzione, disturbi del comportamento e sintomatologie ansioso-depressive.

    Conseguenze cliniche e scolastiche

    Uno studio dell’Università di Bologna (2023), condotto su un campione di oltre 3.000 adolescenti italiani, ha evidenziato che il 61% riferisce stanchezza cronica, il 39% disturbi dell’umore e il 22% un peggioramento del rendimento scolastico. I disturbi del sonno sono stati correlati anche all’aumento del rischio suicidario, secondo un’indagine longitudinale del CDC Youth Risk Behavior Survey (2020-2023).

    Gli adolescenti insonni tendono a sviluppare più frequentemente condotte a rischio (uso di sostanze, guida pericolosa, autolesionismo), in una spirale che autoalimenta l’instabilità emotiva.

    Scenari futuri e modelli di intervento

    Alla luce di questi dati, le linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità invitano a una revisione dei tempi scolastici, suggerendo l’inizio delle lezioni non prima delle 9:00. Alcuni paesi come Finlandia e Canada hanno già sperimentato con successo tali modifiche, riportando miglioramenti nel benessere e nell’apprendimento.

    In ambito clinico, si stanno sperimentando nuovi approcci:

    • Terapie cronobiologiche: utilizzo di luce naturale artificiale per rieducare il ritmo circadiano.
    • Interventi psicoterapeutici cognitivo-comportamentali specifici per l’insonnia (CBT-I).
    • Supplementazioni di melatonina a basso dosaggio, sotto stretto controllo medico.
    • Educazione al sonno come parte del curriculum scolastico, con progetti pilota già attivi in Emilia-Romagna e Trentino-Alto Adige.

    Centri specializzati e servizi attivi

    In Italia esistono alcuni poli d’eccellenza per la diagnosi e il trattamento dei disturbi del sonno in età evolutiva:

    • Centro di Medicina del Sonno dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (Roma): valutazioni polisomnografiche e ambulatorio per disturbi del sonno in età evolutiva.
    • IRCCS Eugenio Medea (Bosisio Parini – LC): interventi multidisciplinari su bambini e adolescenti con insonnia primaria e secondaria.
    • Centro Regionale per i Disturbi del Sonno dell’Ospedale Maggiore di Bologna: orientato anche all’età adolescenziale.
    • Clinica del Sonno di Milano (Fondazione Mondino): eccellenza in diagnosi del ritardo di fase e disturbi associati a patologie neurologiche.
    • Servizi di Neuropsichiatria Infantile territoriali, oggi in fase di potenziamento grazie al PNRR e alle nuove linee guida regionali.

    Conclusione

    Il sonno degli adolescenti non può più essere un dettaglio secondario. È una necessità biologica, un indicatore di salute mentale, e un prerequisito per l’apprendimento e lo sviluppo.

    L’insonnia adolescenziale non va confusa con la pigrizia. È un campanello d’allarme neurobiologico. Riconoscerla e trattarla significa sostenere lo sviluppo cognitivo, prevenire possibili disagi psicologici.

  • “Esame di Stato: è tempo di cambiare”

    “Esame di Stato: è tempo di cambiare”

    Quando un percorso si gioca in ore: un sistema da ripensare

    La prova finale della scuola superiore italiana – l’Esame di Stato – è spesso vissuta dagli studenti più come un giudizio sommario che come una celebrazione di un percorso formativo. Dopo cinque anni di studio, crescita, ostacoli superati, difficoltà familiari o personali, la valutazione viene compressa in una manciata di ore, in un contesto altamente ansiogeno, dove il rischio di inciampare è reale.

    Secondo i dati dell’ISTAT 2023, oltre il 71% degli studenti lamenta un senso di sproporzione tra l’impegno profuso durante l’intero ciclo scolastico e la modalità con cui si chiude il percorso. Il problema non è solo psicologico, ma pedagogico e valutativo.

    Una passerella, non un tribunale: cambiare prospettiva

    Si fa sempre più largo la proposta di ripensare l’Esame di Stato come una “passerella formativa”, un momento non di selezione, ma di valorizzazione del percorso compiuto. Un colloquio che tenga conto non solo delle conoscenze, ma anche delle competenze trasversali: emotive, relazionali, progettuali.

    Molti pedagogisti parlano di valutazione narrativo-riflessiva, dove lo studente racconta la propria evoluzione cognitiva ed emotiva, e non è giudicato su uno scritto che spesso ripropone modelli scolastici vetusti, anacronistici, decontestualizzati.

    Quesiti troppo distanti: il problema della distanza scuola-realtà

    Molte delle tracce proposte nelle prove scritte sono percepite come lontane dalla vita degli studenti, talvolta forzatamente retoriche o culturalmente decontestualizzate. Si dimentica che la scuola è lo specchio della società, e un esame dovrebbe essere il luogo in cui si misurano anche capacità di analisi, empatia, senso critico.

    Nel 2024, un’indagine del Censis ha evidenziato come il 62% dei maturandi ritenga “poco utili” o “non aderenti alla realtà” i temi proposti alla prima prova.

    Come si fa maturità altrove: uno sguardo europeo

    PaeseNome dell’EsameModalità
    FranciaBaccalauréatEsami orali e scritti, valutazione del percorso e delle soft skills dal 2021
    GermaniaAbiturProve scritte e orali, rilevanza del voto dell’ultimo anno scolastico
    Regno UnitoA-LevelsEsami centrati su tre materie scelte, forte peso alla valutazione continua
    FinlandiaYlioppilastutkintoEsami scritti digitali, molta flessibilità, focus su competenze personali
    SpagnaEvaluación de BachilleratoEsami centralizzati, parte dei voti viene dal rendimento scolastico

    Nota: I modelli più avanzati (Francia, Finlandia) stanno spostando il focus su colloqui individualizzati, dossier esperienziali, e prove che integrano competenze trasversali e digitali.

    Progetti pilota: c’è chi ci prova già in Italia

    • Scuola-Campus (Trento): alcune scuole sperimentano da anni una tesi finale discussa in modalità colloquiale, integrata da video e project work.
    • Liceo delle Scienze Umane “G. Bruno” (Roma): ha avviato un progetto di maturità riflessiva, con rubriche valutative che includono intelligenza emotiva, cooperazione e resilienza.
    • Progetto #CompetenzeChiave (MIUR): ha tracciato linee guida per una valutazione orientata a competenze europee chiave per l’apprendimento permanente.

    Conclusione: la maturità deve diventare un’opportunità educativa, non un trauma

    Un esame dovrebbe riconoscere la complessità di ogni studente e misurare ciò che davvero conta: capacità di apprendere, di riflettere, di relazionarsi con il mondo. Serve coraggio politico, visione pedagogica e una scuola che si emancipi dal culto della prestazione per abbracciare quello della formazione integrale.

  • La grammatica smarrita dell’amicizia

    La grammatica smarrita dell’amicizia

    L’amicizia: tra parola inflazionata e assenza reale

    “Amico” è oggi tra le parole più abusate e svuotate di senso. Un’etichetta generica per ogni contatto, ogni follower, ogni reazione sui social. L’amicizia è diventata una grammatica smarrita, una lingua dimenticata, fondata più sul consumo emotivo che sulla relazione autentica.

    Eppure, l’etimologia stessa di “amicus” richiama l’amare, l’accogliere, l’essere per. Ma dove si colloca oggi questa forma antica di prossimità? Forse proprio nell’abbandono di chi resta solo nel momento più vulnerabile. Come nel caso di Mariano, ragazzo di 16 anni, morto qualche giorno fa in una lingua di spiaggia a Cagliari, dopo aver passato la serata in compagnia di “amici” e poi lasciato solo, non aspettato, non soccorso. Nessuna sa, nessuno vuole raccontare cosa sia realmente successo. Un muro di omertà che lascia tutti interdetti. Mentre le indagini vanno avanti, a noi resta l’amaro in bocca e tanti interrogativi sulle modalità di gestione delle relazioni.

    Heidegger e il concetto di “esser-con”

    Nel suo capolavoro Essere e TempoMartin Heidegger introduce il concetto di Mitsein, l’esser-con, come categoria ontologica dell’esistenza umana. L’amicizia, in questa prospettiva, non è un optional affettivo, ma una condizione fondamentale del nostro essere al mondo. È un “esserci” per l’altro, non invadente ma discreto, non funzionale ma condiviso.

    In tempi di connessioni digitali e disconnessioni emotive, l’amicizia vera si misura nella capacità di stare, di ascoltare senza offrire soluzioni, di abitare il silenzio con l’altro. L’amico non si chiede “cosa posso fare per te”, ma “posso essercicon te?”. È questo il vero antidoto alla superficialità.

    L’amicizia come dialogo educativo

    In ambito pedagogico, l’amicizia può diventare metodo di educazione affettiva, modello di coesistenza, stile di cura. Non si tratta di un legame orizzontale privo di autorevolezza, ma di una relazione generativa, dove il dialogo non è solo scambio di parole, ma esperienza trasformativa.

    Un’educazione che non si limiti al controllo, ma si fondi sull’alleanza relazionale, sulla capacità di creare spazi di verità e di fragilità condivisa. Dove l’altro non è oggetto da correggere, ma soggetto da accompagnare.

    L’abbandono: il contrario dell’amicizia

    L’abbandono non è solo fisico: è assenza emotiva, è delega, è il “non ho tempo” che si fa cronico. È lì che si tradisce l’esserci. E quando ciò accade in contesti educativi, scolastici o familiari, le ferite si fanno profonde.

    Ogni ragazzo lasciato solo nella propria crisi, ogni adulto non ascoltato nel dolore, è una frattura nella grammatica dell’amicizia.

    Ritrovare la lingua del cuore

    Rieducare all’amicizia significa restaurare la grammatica dell’anima. Insegnare ai nostri giovani che l’amicizia non si misura in emoji o visualizzazioni, ma in ore donate, in gesti taciuti, in cammini condivisi.

    È tempo di far tornare l’amicizia ad essere presenza reale e non icona sbiadita. Di restituirle la sua potenza educativa e ontologica. Di riscoprirla, infine, non come stato d’animo, ma come scelta di esserci.

  • Look per l’Esame di Maturità

    Look per l’Esame di Maturità

    L’identità passa anche attraverso la stoffa che scegliamo di indossare.” D.L.

    Un rito di passaggio, non una passerella

    L’esame di maturità non è solo una prova scolastica. È il primo vero rito di passaggio sociale e psicologico che traghetta lo studente dall’adolescenza alla giovane età adulta. In questo momento di esposizione pubblica — dove si affronta un’interrogazione di fronte a una commissione — l’abito non fa il monaco, ma certamente comunica chi sei e come ti poni nel mondo.

    Vestirsi in modo adeguato significa sapersi contestualizzare, comprendere che l’abbigliamento è parte del linguaggio non verbale che accompagna e rinforza il nostro messaggio.

    Non troppo eleganti, né trasandati: la via della sobrietà

    Gli studi di psicologia sociale (Argyle, 1988) dimostrano che l’abbigliamento influenza la percezione della credibilità, competenza e sicurezza di sé. Presentarsi in modo trasandato, o al contrario eccessivamente formale, può comunicare disorientamento, esibizionismo o insicurezza.

    La chiave è la sobrietà intelligente:

    • per i ragazzi, pantaloni lunghi (non strappati), camicia o polo, scarpe chiuse (no ciabatte o infradito);
    • per le ragazze, evitare eccessi (scollature, minigonne, trucco marcato), preferendo abiti freschi ma sobri.

    Vestirsi bene non significa rinunciare alla propria personalità, ma saperla incanalare in un contesto pubblico che richiede rispetto.

    Il corpo come messaggio: postura e presenza

    Oltre all’abbigliamento, il modo di stare seduti, lo sguardo e la postura parlano della maturità raggiunta. Un corpo che si presenta composto, ordinato, con uno sguardo presente e non sfuggente, comunica sicurezza e rispetto. Questo vale anche per la voce: tono, ritmo, chiarezza.

    Educare al “sapersi porre”: un compito anche per la scuola e la famiglia

    Nessuno nasce “imparato”. Sapersi porre in un contesto pubblico è una competenza educativa che si apprende, ed è responsabilità congiunta di scuola e famiglia. Troppo spesso, l’abito viene lasciato al caso o visto come un fatto privato. Ma l’abito è anche un fatto culturale: un esercizio di decentramento, di lettura dell’altro e del contesto.

    In sintesi

    • Vestirsi per l’esame significa mostrare rispetto per l’occasione.
    • È un esercizio di empatia situazionale, non un’imposizione.
    • È un primo passo per abitare con consapevolezza gli spazi sociali dell’età adulta.

    L’importanza psicologica del vestirsi bene

    Vestirsi in modo ordinato e rispettoso non serve solo a “fare buona impressione”, ma aiuta anche a consolidare un atteggiamento mentale di serietà, ordine e padronanza. Secondo uno studio condotto dall’Università del Wisconsin(2015), studenti che vestivano in modo più formale durante test orali mostravano un maggiore controllo cognitivo e minore ansia percepita.

    Inoltre, vestirsi bene per un’occasione formale rafforza l’identità adulta, promuovendo quel senso di autoefficacia di cui parla Albert Bandura nella sua teoria sull’apprendimento sociale.

    Conclusione: educare alla decenza, non al giudizio

    Educare al vestiario non è giudicare, ma allenare lo sguardo al contesto, affinché il corpo non sia mai fuori luogo rispetto al compito. In un tempo che tende a sfumare le differenze tra occasioni, è un atto pedagogico insegnare che ogni tempo ha un suo linguaggio, anche visivo.

  • Dormire nel letto della mamma in età scolare e adolescenza

    Dormire nel letto della mamma in età scolare e adolescenza

    Quando il lettone diventa rifugio: la parabola del cosleeping prolungato

    Il cosleeping, termine anglosassone che indica la condivisione del letto tra genitore e figlio, è una pratica diffusa in molte culture del mondo. Se nei primi mesi di vita può rappresentare un valido alleato per il legame di attaccamento e per la regolazione sonno-veglia del neonato, la sua persistenza in età scolare e, ancor più, in adolescenza, solleva interrogativi profondi in ambito psicologico e pedagogico.

    Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Developmental & Behavioral Pediatrics (Mileva-Seitz et al., 2016), il cosleeping nei primi due anni di vita non è associato a problematiche comportamentali, ma la sua prolungata estensione può interferire con lo sviluppo dell’autonomia psicologica e affettiva. In un’ottica evolutiva, il letto rappresenta non solo un luogo di riposo, ma anche un simbolo della progressiva separazione-individuazione tra madre e figlio.

    Cosleeping oltre l’infanzia: un segnale o una richiesta d’aiuto?

    Quando il cosleeping si estende oltre i 10-11 anni, spesso siamo di fronte a una regressione comportamentale o a un indicatore di insicurezza ambientale o fragilità emotiva. Non sono rari i casi in cui bambini già autonomi tornino a dormire con i genitori in concomitanza con eventi stressanti: separazioni, lutti, mobbing scolastico o ansia generalizzata.

    La letteratura clinica mostra che in alcuni adolescenti il desiderio di dormire con i genitori può nascondere disturbi d’ansia o una non corretta elaborazione del processo di separazione. Uno studio italiano condotto da Miano e colleghi (2020) ha riscontrato che il 14% degli adolescenti con disturbi del sonno presentava dipendenza da cosleeping, collegata a fattori di iperprotezione materna e ansia da separazione.

    Sviluppo dell’autonomia e funzione pedagogica del distacco

    Secondo la pedagogista e psicoanalista Françoise Dolto, «l’individuazione comincia nel corpo», e il letto rappresenta il primo confine tra il “sé” e l’“altro”. Lasciare che un adolescente condivida abitualmente il letto con un genitore equivale, in termini simbolici, a congelare la separazione necessaria allo sviluppo dell’identità.

    La pedagogia del sonno sottolinea la necessità di aiutare il bambino a elaborare il distacco in modo progressivo, strutturando routine del sonno rassicuranti ma orientate all’autonomia. Questo percorso va sostenuto precocemente: ritardare il distacco può rinforzare vissuti di dipendenza e inadeguatezza.

    Cosa fare se l’adolescente chiede ancora il lettone?

    Non è necessario stigmatizzare o colpevolizzare: l’adolescente che cerca il lettone sta esprimendo un bisogno emotivo, non un capriccio. Ma il bisogno va ascoltato per essere decodificato, non sempre assecondato.

    Interventi consigliati:

    • Esplorare le cause con delicatezza e attenzione clinica (es. paure, stress, lutti).
    • Rafforzare le competenze di autoregolazione affettiva (con psicoterapia o training di mindfulness).
    • Offrire alternative simboliche (come la condivisione di momenti serali, rituali di passaggio o ristrutturazioni dello spazio personale).
    • Attivare un percorso psicopedagogico familiare, che riconsideri i ruoli e le dinamiche affettive all’interno del nucleo.

    Una riflessione clinica

    Il cosleeping non è di per sé patologico, ma può diventarlo se interferisce con i processi di crescita psicologica. Ogni famiglia ha la propria traiettoria, ma l’obiettivo educativo è comune: rendere il figlio capace di stare nel mondo senza la necessità continua della presenza fisica del genitore.

    In definitiva, come affermava Winnicott, «Una madre è buona se riesce a rendersi superflua». E forse il letto vuoto, nella camera accanto, è il primo passo verso la presenza autentica, fatta di fiducia, e non di contiguità.

  • Quando il dolore esplode: il cervello del bullizzato che si vendica

    Quando il dolore esplode: il cervello del bullizzato che si vendica

    Dalla vittimizzazione all’odio agito: cosa accade nella mente di chi non ha mai potuto raccontare il proprio trauma.

    Il ciclo del dolore: quando la vittima diventa carnefice

    Esiste un paradosso spesso ignorato ma ben documentato dalla letteratura scientifica: molti bulli sono stati, in passato, vittime di bullismo. La psicologia evolutiva e le neuroscienze stanno contribuendo a spiegare questo passaggio inquietante da vittima a persecutore, tracciando i circuiti neurofisiologici della vendetta e dell’aggressività reattiva.

    Trauma precoce e plasticità sinaptica

    Secondo numerosi studi, le esperienze traumatiche precoci, come l’essere bullizzati, modificano profondamente l’architettura cerebrale. L’esposizione reiterata a minacce o umiliazioni attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA)in maniera cronica, con ipersecrezione di cortisolo e modifiche nei circuiti dell’amigdala, dell’ippocampo e della corteccia prefrontale.

    Uno studio pionieristico di Teicher et al. (2003) ha evidenziato che i bambini vittime di abusi o esclusione sociale presentano una riduzione del volume dell’ippocampo e un’iperattivazione dell’amigdala, associata a ipervigilanza e iperreattività agli stimoli sociali percepiti come minaccia.

    Il ruolo dell’amigdala e del sistema limbico

    L’amigdala, nucleo chiave nella gestione della paura e dell’aggressività, nei soggetti bullizzati tende a reagire in modo eccessivo a stimoli sociali ambigui, sviluppando una forma di “bias dell’intenzione ostile” (Hostile Attribution Bias), secondo cui anche situazioni neutre vengono interpretate come potenzialmente minacciose (Dodge et al., 1990).

    La corteccia prefrontale mediale, deputata all’inibizione comportamentale e al controllo emotivo, risulta meno efficiente nel modulare queste risposte limbiche, specialmente in soggetti che non hanno avuto esperienze relazionali correttive e contenitive.

    Neurobiologia della vendetta

    Un esperimento condotto da de Quervain et al. (2004) con risonanza magnetica funzionale ha dimostrato che l’atto di vendicarsi attiva il nucleo caudato e il putamen, regioni coinvolte nel circuito della ricompensa dopaminergica. In altre parole, la vendetta può generare piacere neurochimico, come una sorta di compensazione biologica al dolore patito.

    Perché diventano bulli?

    La sofferenza emotiva interiorizzata senza possibilità di elaborazione può convertirsi in aggressività reattiva o proattiva, come forma di regolazione disfunzionale del Sé. I bambini che subiscono bullismo e non ricevono supporto psicologico adeguato sviluppano spesso modelli relazionali basati sul dominio o sulla sottomissione, come descritto dalla teoria dell’attaccamento disorganizzato (Lyons-Ruth, 1999).

    Vendetta come strategia del Sé ferito

    Quando la vittima non viene ascoltata, non trova simbolizzazione del dolore, non riceve protezione né strumenti per elaborare, l’unica via percepita come riscatto può diventare l’agito violento. Non si tratta di “follia improvvisa”, ma della cristallizzazione di un Sé frantumato che restituisce al mondo la propria sofferenza sotto forma di distruzione.

    Questo processo è noto anche in ambito clinico come disforia post-traumatica, e include:

    • depersonalizzazione,
    • distacco affettivo,
    • cinismo difensivo,
    • costruzione di un’identità vendicativa.

    Un caso di cronaca: la vendetta post-traumatica

    Un caso emblematico è quello di Will Cornick, adolescente inglese che nel 2014 uccise la propria insegnante con 7 coltellate. L’analisi forense rivelò una storia di bullismo scolastico prolungato, con conseguente ritiro sociale, ossessione per la vendetta e progressiva disconnessione empatica. La CTU (Criminal Trial Unit) parlò di “aggressività vendicativa con componenti narcisistiche”, alimentata da sentimenti di impotenza e desiderio di riscatto sociale.

    In generale, i casi di cronaca ci mostrano come l’odio, quando incubato nell’infanzia, può diventare una “memoria emotiva tossica” che il cervello conserva come ferita aperta. Se non curata, può diventare agita. Le neuroscienze oggi ci danno gli strumenti per prevedere e prevenire. Spetta a noi usarli.

  • L’intestino come secondo cervello: impatti sullo sviluppo cognitivo

    L’intestino come secondo cervello: impatti sullo sviluppo cognitivo

    Il cervello viscerale

    Da qualche anno, l’affermazione secondo cui “l’intestino è il nostro secondo cervello” ha smesso di appartenere al linguaggio metaforico ed è divenuta oggetto di solide conferme scientifiche. Il sistema nervoso enterico (SNE), una rete complessa di oltre 500 milioni di neuroni distribuiti nella parete intestinale, ha dimostrato di avere un’autonomia funzionale e una profonda capacità di dialogo bidirezionale con il sistema nervoso centrale (SNC) attraverso l’asse intestino-cervello.

    Come spiega Michael Gershon, pioniere nel campo della neurogastroenterologia e autore del libro “The Second Brain”(1998), l’intestino è capace di prendere decisioni indipendenti, regolare l’umore e influenzare persino lo sviluppo cognitivo. Ma quanto è vera questa affermazione? E in che modo questa scoperta si interseca con l’età evolutiva e con i disturbi dell’apprendimento?

    Microbiota e cervello: un’alleanza neurochimica

    Il sistema nervoso enterico comunica costantemente con il cervello attraverso vie neuroendocrine, immunitarie e metaboliche. Un ruolo cruciale è giocato dal microbiota intestinale, cioè l’insieme di trilioni di microrganismi simbionti che abitano il nostro apparato digerente.

    Numerosi studi, tra cui quelli pubblicati su Nature Reviews Neuroscience (Cryan & Dinan, 2012), hanno dimostrato che batteri intestinali possono produrre neurotrasmettitori come serotonina, dopamina e GABA, influenzando direttamente i processi cognitivi, l’umore e le risposte allo stress. È noto che oltre il 90% della serotonina, neurotrasmettitore chiave per la regolazione dell’umore e dell’attenzione, viene sintetizzato proprio a livello intestinale.

    Sviluppo cognitivo e asse intestino-cervello

    Durante l’età evolutiva, l’equilibrio del microbiota riveste un’importanza decisiva. I primi mille giorni di vita sono considerati una “finestra critica” per lo sviluppo neuropsicologico: uno studio del 2019 condotto dalla Harvard Medical School (Clarke et al.) ha mostrato che alterazioni precoci del microbiota sono associate a maggiore rischio di disturbi del linguaggio, disattenzione e difficoltà di memoria di lavoro.

    Un microbiota disbiotico, ovvero sbilanciato, può contribuire a un’aumentata permeabilità intestinale (”leaky gut”), attivando risposte immunitarie sistemiche e neuroinfiammazione, meccanismi frequentemente osservati in soggetti con ADHD, DSA e disturbi dello spettro autistico.

    Implicazioni nei disturbi dell’apprendimento

    Un articolo pubblicato su Frontiers in Psychiatry (2020) ha evidenziato come alcuni profili neuroevolutivi, inclusi i disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), siano associati a alterazioni nell’asse intestino-cervello, con implicazioni sul piano dell’autoregolazione emotiva, del controllo inibitorio e della flessibilità cognitiva.

    In particolare, bambini con dislessia o disortografia mostrano spesso anche disturbi gastrointestinali funzionali, come stipsi cronica o dolori addominali ricorrenti. È ipotizzabile, secondo il modello proposto da Mayer et al. (2015), che l’attivazione costante dell’amigdala attraverso segnali viscerali comprometta l’ottimale funzionamento dei circuiti frontali preposti all’attenzione e alla pianificazione.

    Interventi integrati: psicologia e nutrizione

    Una nuova frontiera della psicologia dell’età evolutiva è rappresentata dall’integrazione tra interventi psicoeducativi e modulazione del microbiota, attraverso l’alimentazione o l’uso di probiotici selettivi (psychobiotics). Uno studio del 2021 dell’Università di Firenze ha dimostrato che l’assunzione di Lactobacillus rhamnosus ha migliorato la qualità del sonno e la performance cognitiva in bambini con difficoltà di apprendimento.

    Questo dato conferma la necessità, per lo psicologo clinico, di valutare lo stato gastrointestinale come parte integrante del bilancio neuropsicologico, soprattutto in età evolutiva.

    Conclusione: un approccio bio-psico-intestinale

    La neuropsicologia moderna non può più ignorare l’interconnessione tra cervello e intestino. Il “secondo cervello” rappresenta non solo un organo di supporto, ma un attore primario nello sviluppo affettivo, cognitivo e comportamentale.

  • Grafomotricità automatica: perché disegniamo mentre ascoltiamo?

    Grafomotricità automatica: perché disegniamo mentre ascoltiamo?

    Grafomotricità automatica: un linguaggio secondario del cervello

    Chi non ha mai firmato il proprio nome distrattamente durante una telefonata, scarabocchiato margini di un foglio in riunione, o disegnato figure geometriche mentre ascolta una lezione? Questi gesti appartengono a ciò che in neuropsicologia viene definito automatismo grafomotorio: una risposta motoria a uno stimolo cognitivo, spesso inconscia, che rivela molto di più di quanto sembri.

    Secondo uno studio pubblicato su Applied Cognitive Psychology da Jackie Andrade (2009), i partecipanti che scarabocchiavano mentre ascoltavano una registrazione noiosa ricordavano il 29% in più dei contenuti rispetto a coloro che ascoltavano passivamente. Il gesto grafomotorio agisce quindi come modulatore dell’attenzione, fungendo da canale espressivo alternativo ma non competitivo rispetto all’elaborazione verbale.

    Disegnare per non distrarsi: il paradosso dell’attenzione divisa

    Nel contesto scolastico, osservare un alunno che disegna mentre l’insegnante spiega può suscitare l’impressione di distrazione. In realtà, il cervello, in situazioni di sovraccarico cognitivo, può attivare circuiti sensomotori paralleli per mantenere viva l’attenzione. È quanto suggeriscono studi sull’attività del Default Mode Network (DMN), un sistema cerebrale coinvolto nella divagazione mentale e nella creatività spontanea. Disegnare può modulare l’attività di questo network, mantenendola su livelli compatibili con l’ascolto attivo (Smallwood & Schooler, 2015).

    In particolare nei soggetti con uno stile di apprendimento visivo o cinestetico, il gesto grafico è una strategia adattiva per elaborare e trattenere informazioni. Lo “scarabocchio” non è solo segno di disattenzione, ma una forma arcaica di traduzione del pensiero in traccia, un gesto psico-corporeo di grounding cognitivo.

    Firma automatica e disegni ripetitivi: tra identità e regolazione

    Quando ripetiamo la nostra firma distrattamente, stiamo affermando la nostra identità in un contesto che ne richiede presenza. Il gesto automatico della firma è un esempio di schema motorio altamente consolidato, che si attiva nei momenti di noia, attesa o tensione. Per il cervello, ripetere tale gesto equivale a riconnettersi a sé stessi, in un contesto momentaneamente depersonalizzante.

    Gli scarabocchi ripetitivi, come spirali, onde o motivi geometrici, possono anche costituire un meccanismo di autoregolazione emozionale. Secondo una ricerca pubblicata nel Journal of Behavioral and Brain Science (Chen et al., 2021), l’attività motoria fine ha effetti calmanti sul sistema limbico, con un impatto positivo sulla gestione dell’ansia e sull’autoregolazione comportamentale.

    Disegnare in classe: esclusione o risorsa?

    La scuola tende spesso a reprimere i comportamenti “non convenzionali” come il disegno durante le lezioni. Eppure, gli studi di Joel Mortensen (2018) evidenziano che gli alunni che integrano l’atto grafico durante l’ascolto mostrano una migliore comprensione globale dei concetti, soprattutto in contesti teorici astratti. Il gesto grafico può infatti fungere da ponte tra il registro emotivo e quello cognitivo, rendendo più accessibile l’elaborazione concettuale complessa.

    Conclusione: la mano pensa

    Il cervello non è un’entità isolata, ma una struttura incarnata. La mano, nel suo gesto grafico, è una sua estensione. Scrivere, disegnare o firmare distrattamente mentre ascoltiamo non è solo un residuo motorio, ma un attributo cognitivo. Nella sua apparente inutilità, l’automatismo grafomotorio rappresenta un sofisticato meccanismo di adattamento neuropsicologico.

  • Nel primo bacio, la nascita del cervello affettivo

    Nel primo bacio, la nascita del cervello affettivo

    “Ogni bacio che sfiora la pelle del neonato è una sinapsi che si accende nel cervello dell’amore.”

    Il miracolo sinaptico del primo bacio

    Il bacio che una madre imprime sulla fronte o sulla guancia del neonato subito dopo la nascita non è soltanto un gesto d’affetto: rappresenta, in termini neurobiologici, una miccia che innesca un’elaborazione multisensoriale sofisticata, finalizzata all’attaccamento e alla sopravvivenza. Questo evento attiva circuiti cerebrali ancestrali che modellano il futuro sviluppo affettivo e neurochimico del bambino.

    Attivazione multisensoriale: olfatto, udito, tatto

    Fin dalla nascita, il neonato è dotato di un sistema olfattivo sorprendentemente maturo. Studi su neonati umani e modelli animali (Schaal et al., 2020; Sullivan et al., 2019) hanno dimostrato che già nelle prime ore di vita i neonati preferiscono l’odore del liquido amniotico e del seno materno. L’atto del bacio, spesso accompagnato da vocalizzazioni dolci e familiari, integra stimoli olfattivi e uditivi che si consolidano nel sistema limbico come tracce mnestiche precoci.

    Questa sinergia attiva l’amigdala e l’ippocampo, aree cruciali per la memoria affettiva. Il neonato “riconosce” la madre tramite il suo odore (produzione di feromoni e secrezioni sebacee), il tono della voce (prosodia) e la temperatura cutanea del bacio. È la base di quello che Bowlby definì sistema di attaccamento, oggi supportato da evidenze neurobiologiche.

    La cascata biochimica: ossitocina, dopamina e oppioidi endogeni

    Il bacio materno stimola nel neonato il rilascio di ossitocina, il neuropeptide dell’amore e della connessione, prodotto dall’ipotalamo e secreto dalla neuroipofisi. L’ossitocina è implicata nella regolazione dell’attaccamento sociale, riduce il cortisolo (ormone dello stress) e promuove la regolazione parasimpatica.

    Un esperimento del Karolinska Institutet (Uvnäs-Moberg et al., 2021) ha mostrato come anche nei primissimi momenti post-partum, i livelli di ossitocina aumentino significativamente nei neonati esposti al contatto pelle-a-pelle e al bacio materno. Questo aumento favorisce la sincronizzazione biologica e affettiva tra madre e bambino, fenomeno noto come coregolazione.

    In parallelo, vengono rilasciate dopamina (sistema mesolimbico), implicata nel piacere e nella motivazione, e beta-endorfine, che modulano il dolore e inducono stati di benessere profondo. Il bacio, dunque, diventa il primo “farmaco naturale” capace di regolare la neurofisiologia del neonato.

    Voce e sincronia affettiva: il canto della madre come imprinting acustico

    Le ricerche di Trevarthen e Malloch (2017) sull’intersoggettività primaria dimostrano che la voce materna, specie se cantilenante (infant-directed speech), attiva precocemente la corteccia uditiva del neonato e genera un sincronismo neuronale tra i due cervelli. Il bacio, spesso accompagnato da parole dolci, rafforza questa connessione, amplificando la plasticità sinaptica nella corteccia prefrontale, sede dell’integrazione sociale ed emotiva.

    Plasticità neuronale e memoria implicita

    Il primo bacio non viene “ricordato” in senso autobiografico, ma si imprime nelle memorie implicite del sistema limbico, dando forma a schemi relazionali profondi. Secondo un lavoro di Tronick e Beeghly (2022), queste prime interazioni sensoriali sono le fondamenta delle rappresentazioni interne di sé e dell’altro.

    Nel cervello neonatale, ancora in pieno sviluppo, il contatto affettivo promuove l’espressione genica di fattori neurotrofici come il BDNF (Brain-Derived Neurotrophic Factor), essenziale per la maturazione sinaptica e la connettività cerebrale.

    Conclusione: un gesto arcaico per un futuro neuro-affettivo

    Il primo bacio materno non è soltanto un gesto simbolico: è un atto neurochimico, un imprinting sensoriale e affettivo che modella il cervello del neonato. In quel contatto, si intrecciano biologia ed emozione, in un dialogo silenzioso tra due esseri umani appena uniti dal vincolo della vita.