Le emoticon non sono solo elementi decorativi: rappresentano semiotiche affettive, a volte traumatiche. Il loro uso normalizza pratiche di umiliazione e superiorità, legittima comportamenti passivo-aggressivi o mascherati da ironia, veicolando il non detto psichico. Intercettare e interpretare questi segnali è oggi una necessità clinica ed educativa.
Nel silenzioso teatro dei social network, anche un’emoji può ferire come una lama. I simboli grafici — le cosiddette emoticon — sono divenuti veri e propri codici di linguaggio affettivo, espressivo e spesso manipolativo. Nell’universo adolescenziale, dove l’identità si costruisce tra sguardi interrotti e like compulsivi, il fraintendimento è legge. Una lacrima inviata in chat, un pollice verso, un cuore tolto all’improvviso, possono generare invisibili ferite narcisistiche.
Secondo uno studio pubblicato su Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking (2023), l’interpretazione errata delle emoticon è correlata a un aumento del conflitto sociale nei gruppi giovanili digitali. Questo linguaggio cifrato si presta a dinamiche di esclusione, rifiuto e denigrazione, alimentando pratiche di cyberbullismo simbolico, spesso non riconoscibili dagli adulti.
Cyberbullismo: il silenzio come forma estrema di violenza
La punizione più crudele nei gruppi digitali non è l’insulto, ma l’esclusione. Il vuoto comunicativo — il ghosting, il seen senza risposta — si configura come un abbandono relazionale reiterato che può generare ansia, derealizzazione e abbassamento dell’autostima. In adolescenza, l’appartenenza è identitaria: essere ignorati equivale a non esistere.
Le ricerche dell’Università di Firenze (2022) hanno rilevato che oltre il 34% degli adolescenti coinvolti in episodi di cyberbullismo hanno manifestato sintomi ansioso-depressivi persistenti, con picchi di autolesionismo nei casi di esclusione reiterata o umiliazione pubblica.

La deriva della mascolinità tossica nei gruppi online: incel e manosfera
Nel ventre oscuro della rete, proliferano spazi digitali in cui la mascolinità viene radicalizzata e distorta. Il fenomeno degli incel (involuntary celibates), ovvero uomini che si sentono rifiutati sessualmente e socialmente dalle donne, si accompagna a narrazioni misogine, violente, antidemocratiche. La manosfera è un ecosistema di contenuti, blog, forum e meme che promuove una visione degradante del femminile e una glorificazione dell’aggressività maschile come strumento di riscatto.
Uno studio di Ging & Siapera (2020) sottolinea come questi ambienti non siano semplicemente espressione di disagio, ma veri e propri incubatori di radicalizzazione affettiva, dove il linguaggio dell’odio si estetizza e si ritualizza, con simboli, slogan e storytelling identitari.
Mascolinità digitale e crisi dell’identità emotiva
Il maschio digitale tossico appare incapace di gestire la frustrazione, affettivamente anafettivo, dipendente da codici di dominio e potere. Il dialogo è sostituito dal flame, l’ironia dallo scherno, la vulnerabilità dal meme difensivo. Questo modello di comportamento si apprende e si replica, configurando una vera e propria patologia della mascolinità digitale.
Come suggerisce lo psicoanalista Massimo Recalcati, «il vero gesto virile non è l’attacco, ma il riconoscimento del limite». Educare i ragazzi a esprimere le emozioni con parole autentiche, a rileggere i simboli, a dare senso al silenzio, è oggi un atto politico, pedagogico e clinico insieme.
Conclusione: curare il linguaggio per salvare l’identità
Oggi più che mai serve un’ecologia del linguaggio digitale. Psicologi, educatori e famiglie devono comprendere la grammatica emotiva del web, riconoscere nei simboli e nei silenzi i segni del disagio, decodificare la violenza nei meme e nei like mancati. Solo attraverso un’educazione affettiva e critica sarà possibile contrastare la deriva della mascolinità tossica e prevenire le psicopatologie relazionali che si annidano nelle pieghe della comunicazione online.
📙
Rassegna psicologica delle emoticon ambigue o simboliche
🔫 (Pistola – ora sostituita da emoji ad acqua)
Uso implicito in contesti ironici o passivo-aggressivi. Viene utilizzata per esprimere disgusto, desiderio di fuga o autoesclusione sociale (“mi sparo”, “non reggo più”). Nella cultura giovanile, può anche veicolare autolesionismo simulato o denigrazione.
😏 (Sorrisetto malizioso)
Dietro la maschera seduttiva si cela spesso sarcasmo, scherno o un tono di superiorità. È impiegato per sottolineare doppi sensi, ma anche per ridicolizzare interlocutori più deboli o esprimere mascolinità ostentata.
😶🌫️ (Faccia tra le nuvole)
Simbolo di dissociazione, anestesia emotiva, perdita di contatto con la realtà. Usata dagli adolescenti per esprimere apatia, alienazione o burn-out psichico.
👀 (Occhi)
Apparentemente neutra, è spesso caricata di sorveglianza minacciosa, allusione o ironico giudizio muto. Usata per mettere pressione o segnalare che qualcuno è “sotto osservazione”.
🙃 (Faccia capovolta)
Usata per simulare accettazione ironica dell’ingiustizia. Può nascondere frustrazione repressa o sarcasmo di difesa. Nei gruppi può diventare un codice per dire: “Sto male ma non lo dico”.
🧠 + 🔥 (Cervello + Fuoco)
Spesso usata per indicare stress mentale, sovraccarico cognitivo o, al contrario, superiorità intellettuale bruciante in dinamiche competitive.
💅 (Smalto)
Apparentemente frivola, è diventata simbolo di superiorità, disinteresse ostentato e atteggiamento snob. Usata per “glossare” le critiche e rafforzare il distacco sociale.
🥶 (Faccina congelata)
Espressione di freddezza emotiva, distacco, ma anche di auto-rappresentazione depressiva. Può suggerire isolamento e autoesclusione affettiva.
💀 (Teschio)
Non solo legata alla morte: nel linguaggio giovanile significa “mi fai morire dal ridere”, ma anche “mi sento morto dentro”. È ambigua e si presta sia all’autoironia sia a segnali depressivi o autolesivi.
🍌 🍆 🍑 💦
Emoji alimentari impiegate come codici sessuali espliciti. Veicolano un’iper-sessualizzazione precoce, spesso maschilista, e possono accompagnare contenuti di sexting o molestie.