Autore: admin

  • Quando la notte parla: sogni e sonnambulismo

    Quando la notte parla: sogni e sonnambulismo

    Il parlare nel sonno: un enigma della coscienza notturnaParlare nel sonno, o somniloquio, è una parasonnia benigna che colpisce circa il 5% degli adulti e fino al 50% dei bambini (Ohayon et al., 1997). Può manifestarsi come borbottii indistinti, frasi brevi o veri e propri dialoghi coerenti, spesso durante fasi di sonno profondo non-REM (N3), ma anche nel sonno REM, la fase dei sogni vividi.

    Ricordiamo ciò che diciamo nel sonno?

    La risposta è quasi sempre no. Il parlare nel sonno avviene senza coscienza vigile, e raramente il soggetto conserva memoria di quanto pronunciato. Uno studio pubblicato su Sleep Medicine Reviews (2017) ha rilevato che oltre l’85% dei soggetti non ricorda alcun episodio, a conferma della dissociazione tra attività verbale automatica e consapevolezza. Il cervello, in queste fasi, può attivare aree motorie del linguaggio (come Broca) senza coinvolgere la corteccia prefrontale, responsabile della coscienza e dell’autocontrollo.

    Il sonnambulismo: agire senza coscienza

    Diversamente dal somniloquio, il sonnambulismo (sleepwalking) è una parasonnia più complessa, che include movimenti motori coordinati come alzarsi dal letto, camminare, persino mangiare o scrivere. Colpisce fino al 17% dei bambini e il 4% degli adulti (Zadra & Pilon, 2011), soprattutto durante il sonno NREM.

    Chi ne soffre appare sveglio, ma è in realtà in uno stato di coscienza dissociata: il cervello profondo (tronco encefalico, talamo) è attivo, mentre la neocorteccia è inibita. Il soggetto non sogna in quel momento, né ricorda l’episodio al risveglio.

    Tutti sognano? E cosa ricordiamo?

    La neurofisiologia del sogno è un campo in continua evoluzione. Grazie a tecniche di neuroimaging e EEG, oggi sappiamo che tutti sognano, anche se non tutti ricordano.

    Uno studio del 2023 del Lyon Neuroscience Research Center ha identificato un’area chiave: la giunzione temporo-parietale. Nei “grandi ricordatori di sogni”, questa zona mostra maggiore connettività durante il sonno REM (Eichenlaub et al., NeuroImage, 2023). Il ricordo del sogno è dunque legato a una maggiore attività cerebrale nei micro-risveglinotturni.

    Memoria onirica e contenuto

    Il 95% dei sogni viene dimenticato entro 10 minuti dal risveglio (Crick & Mitchison, 1983). Tuttavia, se il sogno è emozionalmente intenso, o se il risveglio avviene durante la fase REM, la probabilità di ricordarlo aumenta. I sogni sono spesso narrativi, simbolici e legati a contenuti emotivamente salienti. Studi recenti (Nir & Tononi, Trends in Cognitive Sciences, 2020) ipotizzano che sognare serva a integrare esperienze emotive nella memoria a lungo termine.

  • Tiroide e adolescenza: il cuore silenzioso dello sviluppo

    Tiroide e adolescenza: il cuore silenzioso dello sviluppo

    Un piccolo organo, un grande impatto

    La ghiandola tiroidea, posta alla base del collo, è una delle registe più silenziose e fondamentali dell’equilibrio psico-fisico in adolescenza. Il suo funzionamento influenza il metabolismo basale, la maturazione cerebrale, l’umore, la termoregolazione, il battito cardiaco e persino il ciclo mestruale. Eppure, i suoi disturbi sono frequentemente misconosciuti o scambiati per “normali” variazioni adolescenziali, col rischio di sottovalutare quadri clinici potenzialmente invalidanti.

    Perché è cruciale monitorare la tiroide negli adolescenti

    L’adolescenza è un periodo di intensa trasformazione: il corpo accelera, la mente si espande, e l’identità si costruisce. In questo contesto, anche lievi disfunzioni tiroidee possono produrre scompensi sistemici:

    • Ipotiroidismo: può manifestarsi con rallentamento del pensiero, stanchezza cronica, aumento ponderale, bradicardia, pelle secca, irregolarità mestruali e scarso rendimento scolastico. Spesso viene confuso con depressione o demotivazione.
    • Ipertiroidismo: si presenta con agitazione, insonnia, tachicardia, calo ponderale, ansia e alterazioni del comportamento. È spesso mal interpretato come semplice iperattività o reattività adolescenziale.

    Secondo uno studio del 2023 pubblicato su The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolismcirca il 3-4% degli adolescenti europei presenta una forma subclinica di disfunzione tiroidea, spesso non diagnosticata. In Italia, una casistica dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (2022) ha rilevato che 1 adolescente su 10 con disturbi psicoemotivi presentava alterazioni del TSH senza una diagnosi endocrinologica precedente.

    Meccanismi di interazione e scompenso

    I meccanismi con cui la tiroide influisce sull’organismo sono molteplici e complessi:

    • Asse ipotalamo-ipofisi-tiroide: regola la produzione ormonale e può essere alterato dallo stress psicosociale tipico dell’età evolutiva.
    • Influenza sul SNC: l’ormone tiroideo T3 agisce su recettori neuronali modulando vigilanza, memoria e umore (Rivas & Naranjo, Front. Neurosci., 2021).
    • Interazioni con il ciclo mestruale: l’ipotiroidismo può causare dismenorrea, amenorrea e sindrome dell’ovaio policistico.
    • Ruolo nell’insulino-resistenza: disfunzioni tiroidee sono state correlate a un aumento del rischio di diabete tipo 2 e sindrome metabolica in adolescenti in sovrappeso (Kim et al., Pediatrics, 2020).

    Quando sospettare un disturbo tiroideo

    Ecco alcuni segnali clinici che dovrebbero far sospettare un malfunzionamento tiroideo:

    • Aumento o perdita di peso inspiegabili
    • Astenia persistente
    • Disturbi del sonno
    • Variazioni marcate del tono dell’umore
    • Alterazioni del ciclo mestruale
    • Difficoltà scolastiche improvvise
    • Ritardi nello sviluppo puberale

    Il dosaggio di TSH, FT3, FT4 e anticorpi anti-TPO può offrire indicazioni preziose. In alcuni casi è utile anche l’ecografia tiroidea, soprattutto in presenza di gozzo o familiarità per malattie autoimmuni.

    Strategie di intervento precoce

    Una diagnosi tempestiva consente trattamenti efficaci e non invasivi. Il levotiroxina sodica per l’ipotiroidismo e l’antitiroideo per l’ipertiroidismo possono restituire equilibrio in tempi brevi. In contesto scolastico e familiare, è fondamentale:

    • Educare al riconoscimento dei sintomi
    • Monitorare periodicamente la crescita e lo sviluppo
    • Includere una valutazione endocrinologica nei controlli adolescenti con disturbi psichici inspiegabili
    • Integrare supporto psicologico nei casi in cui il quadro ormonale alteri la sfera emotiva e cognitiva

    Conclusioni

    La tiroide in adolescenza non è un dettaglio secondario, ma un nodo cruciale del benessere globale. Ignorarla significa rischiare di lasciare nell’ombra un possibile snodo clinico che può compromettere non solo la crescita fisica ma anche l’equilibrio psichico e sociale del giovane. Per questo, un semplice controllo può cambiare la traiettoria di una vita.

  • Disprassia: quando il corpo non segue il pensiero

    Disprassia: quando il corpo non segue il pensiero

    Un disturbo invisibile ai più

    La disprassia evolutiva, nota in ambito internazionale come Developmental Coordination Disorder (DCD), è una condizione neurologica che compromette la pianificazione e l’esecuzione dei movimenti volontari, in assenza di deficit motori primari o cognitivi espliciti. Secondo il DSM-5 (APA, 2013), rientra tra i disturbi del neurosviluppo, con una prevalenza stimata intorno al 5-6% della popolazione infantile globale, sebbene i dati siano verosimilmente sottostimati a causa di diagnosi tardive o erronee.

    In Italia, l’Istituto Superiore di Sanità rileva che circa il 4% dei bambini in età scolare presenta sintomi compatibili con una forma di disprassia, ma solo una parte riceve una valutazione specialistica entro i primi otto anni di vita. Un’indagine europea promossa da European Academy of Childhood Disability (2021) ha evidenziato un preoccupante ritardo nella presa in carico nei Paesi mediterranei rispetto a quelli nordici, dove le prassi diagnostiche risultano più sistematiche.

    Le cause: un mosaico di fattori neurobiologici

    Non esiste un’unica causa della disprassia. Studi condotti con tecniche di neuroimaging funzionale (Forde et al., 2020; Licari et al., 2021) hanno evidenziato alterazioni nei circuiti fronto-parietali, in particolare nella corteccia premotoria e nel cervelletto, suggerendo una disfunzione nella comunicazione interemisferica e nella rappresentazione interna del movimento.

    Alcune ipotesi etiologiche includono:

    • Complicanze perinatali (ipossia, prematurità)
    • Disregolazioni sensoriali precoci
    • Alterazioni nei geni legati alla motricità fine (ad esempio DYX1C1, associato anche alla dislessia)

    Segnali clinici e criticità scolastiche

    I bambini disprassici manifestano difficoltà nel vestirsi, allacciarsi le scarpe, scrivere, utilizzare le posate o partecipare a giochi sportivi. La componente motoria impatta direttamente sulla sfera psicologica, generando vissuti di frustrazione, esclusione sociale e una possibile comorbilità con disturbi internalizzanti come ansia o depressione (Zwicker et al., 2018).

    In adolescenza, una diagnosi tardiva può comportare un impatto significativo sull’autostima e sulla performance scolastica. Le difficoltà nella gestione dello spazio, nella coordinazione occhio-mano e nella scrittura (disgrafia) spesso vengono erroneamente interpretate come svogliatezza o disattenzione, aggravando il ritardo nella presa in carico.

    Diagnosi tardiva: non è mai troppo tardi per intervenire

    Quando la disprassia viene riconosciuta oltre i 10 anni, è necessario un approccio multimodale, che coinvolga:

    • Valutazione neuropsicologica integrata, con particolare attenzione alle funzioni esecutive e visuo-spaziali.
    • Riabilitazione psicomotoria individualizzata, basata su esercizi progressivi di organizzazione spazio-temporale, equilibrio e pianificazione.
    • Strumenti compensativi, come tastiere facilitanti, sintesi vocale, o mappe concettuali.
    • Supporto psicologico, mirato al rinforzo dell’identità personale e della motivazione scolastica.

    Un efficace protocollo di intervento è stato illustrato dal progetto Move to Learn (Cairney et al., 2019), che ha dimostrato significativi miglioramenti nella coordinazione motoria e nell’integrazione sociale di adolescenti con DCD.

    Il ruolo della scuola e della famiglia

    La sinergia tra scuola e famiglia è essenziale. L’introduzione di Piani Didattici Personalizzati (PDP), come previsto dalla normativa italiana (Legge 170/2010), può rappresentare un valido strumento per garantire equità e accessibilità all’apprendimento. La formazione degli insegnanti sul tema della disprassia resta tuttavia disomogenea: secondo una recente indagine ANPE (2022), solo il 28% dei docenti ha ricevuto un’adeguata preparazione in merito ai disturbi della coordinazione motoria.

    Conclusioni

    La disprassia non è sinonimo di goffaggine, ma una complessa condizione neuroevolutiva che richiede attenzione, diagnosi precoce e interventi mirati. Anche in caso di diagnosi tardiva, è possibile promuovere uno sviluppo armonico e rafforzare il senso di autoefficacia nel soggetto, a patto che vi sia una rete competente e solidale attorno a lui.

  • Legge 104: inclusione scolastica: diritti, PEI e figure storiche

    Legge 104: inclusione scolastica: diritti, PEI e figure storiche

    La legge 104/92: fondamento giuridico dell’inclusione scolastica

    La Legge n. 104 del 5 febbraio 1992 rappresenta la pietra angolare del sistema italiano di tutela e valorizzazione delle persone con disabilità, in particolare in ambito scolastico. Essa riconosce il diritto all’educazione e all’istruzione nella scuola pubblica per tutti gli alunni con disabilità, promuovendo un modello di inclusione attiva e non meramente assistenziale.

    Tale normativa ha profondamente trasformato l’approccio della scuola, sostituendo la logica dell’esclusione e della differenziazione (tipica delle classi speciali o differenziali) con quella dell’inclusione, intesa come progettazione personalizzata e corresponsabilità educativa.

    Il PEI: cuore dell’intervento educativo personalizzato

    Il Piano Educativo Individualizzato (PEI) è il documento cardine attraverso cui si attua l’inclusione. Introdotto ufficialmente dalla Legge 104, ma concettualmente anticipato da normative precedenti (DPR 416/74, Legge 517/77), il PEI rappresenta la progettazione integrata e dinamica degli interventi didattici, educativi e riabilitativi.

    Il PEI è redatto annualmente dal Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione (GLO), che coinvolge docenti curricolari, docente di sostegno, famiglia, specialisti sanitari, educatori e rappresentanti dell’ente locale. Dal 2020 (D.Lgs. 66/2017 e i suoi decreti attuativi), il PEI è stato ulteriormente normato e digitalizzato, con nuovi modelli nazionali.

    Gli alunni “H”: un termine oggi superato

    La sigla “H” indicava in passato gli alunni con “handicap”, ma oggi è considerata obsoleta e poco rispettosa. Si preferisce parlare di alunni con disabilità, sottolineando un cambiamento semantico e culturale che mette la persona al centro, non la sua menomazione.

    Le radici storiche: da Basaglia a Casale

    La conquista dell’inclusione scolastica in Italia è frutto di una lunga battaglia culturale e giuridica. Tra le figure chiave:

    • Franco Basaglia, psichiatra e riformatore, fu il promotore della Legge 180/1978 che sancì la chiusura dei manicomi. Il suo pensiero ha ispirato una visione della disabilità come diversità, non come devianza.
    • Mirella Antonione Casale, pedagogista e ispettrice ministeriale, è la mente pedagogica dietro la transizione dalle classi differenziali all’integrazione. A lei si deve la stesura delle prime Linee Guida per l’integrazione scolastica e la diffusione del concetto di “didattica inclusiva”.
    • Loris Malaguzzi, fondatore dell’esperienza di Reggio Children, ha dato impulso a una visione antropologica e democratica dell’educazione, in cui ogni bambino ha cento linguaggi, anche quelli che la disabilità non riesce a spegnere.

    Un cammino di civiltà

    Il processo legislativo e pedagogico che ha portato alla Legge 104 è stato lento, ma inarrestabile. Prima della 104, la Legge 517/1977 aveva già abolito le classi speciali, introducendo il concetto di integrazione. Con la 104, questo concetto si trasforma in inclusione, ovvero nella volontà di adattare il contesto educativo alle necessità dell’alunno, e non viceversa.

    Conclusione: tra diritto e progetto di vita

    L’inclusione non è una concessione, ma un diritto costituzionale. È lo Stato che si fa carico di garantire pari opportunità formative attraverso strumenti normativi, progettualità didattica e presenza di figure specialistiche.

  • Mirella Antonione Casale: la rivoluzione gentile dell’inclusione

    Mirella Antonione Casale: la rivoluzione gentile dell’inclusione

    L’inizio: un tempo d’ombra

    C’è stato un tempo in cui la scuola italiana somigliava troppo a un’istituzione disciplinare: chi non rientrava nei canoni prestabiliti della “normalità” veniva isolato, allontanato, espulso — pur restando, formalmente, “accolto”. Le cosiddette classi differenziali, istituite ufficialmente nel 1928 e attive fino alla fine degli anni Settanta, non erano altro che una forma legittimata di ghettizzazione.

    Non erano rare le diagnosi affrettate, i giudizi lapidari, le esclusioni mascherate da “forme speciali di attenzione”. Si trattava, in realtà, di un’esclusione sistemica, istituzionalizzata, che legittimava l’idea che alcuni corpi e alcune menti non fossero degne di partecipare al dialogo educativo.

    In quel panorama rigidamente normativo e clinico, la scuola diventava spesso lo specchio del manicomio: una struttura che seleziona, separa, stigmatizza. Era l’eco, nell’ambito dell’istruzione, dello stesso sistema psichiatrico contro cui Franco Basaglia stava già conducendo la sua battaglia etica e politica. Come il manicomio, anche la scuola separava per “curare”, ma in realtà creava stigmi indelebili. In questa struttura chiusa, l’alunno con disabilità o difficoltà specifiche non era considerato soggetto di diritto, ma oggetto da custodire. In una parola: da neutralizzare.

    La svolta: Casale e la voce degli esclusi

    In questo scenario si staglia, con discrezione e forza, la figura di Mirella Antonione Casale: pedagogista, studiosa, e soprattutto visionaria dell’inclusione. Attiva negli anni in cui Basaglia apriva le porte dei manicomi, Casale intuì che la “cura” per l’esclusione non poteva consistere in adattamenti esterni, ma doveva passare da una rivoluzione interna al sistema educativo.

    Fu tra le prime a sostenere l’importanza della piena integrazione scolastica degli alunni con disabilità, non come concessione caritatevole, ma come diritto inalienabile. A lei si devono le prime riflessioni organiche sul superamento delle classi differenziali, sulle “barriere didattiche” e sulla necessità di misure compensative e dispensative per garantire pari dignità e accesso al sapere.

    Casale, con il rigore della pedagogista e la sensibilità dell’educatrice, fu una delle voci più autorevoli nella stesura della Legge 517 del 1977, pietra miliare della scuola italiana che decretava la chiusura delle classi speciali e l’inserimento degli alunni con disabilità nelle classi comuni. Un atto epocale, figlio di un tempo che cominciava a parlare, finalmente, la lingua dei diritti.

    Basaglia e Casale: due fronti dello stesso orizzonte

    È in questo clima che Franco Basaglia comincia la sua rivoluzione. Con la chiusura dei manicomi e l’approvazione della Legge 180 del 1978, egli non libera soltanto i reclusi della psichiatria, ma ridefinisce il concetto stesso di persona: nessuno può essere ridotto alla sua diagnosi. Il suo pensiero — che la libertà non è un premio da meritare, ma una condizione originaria — si espande oltre l’ospedale psichiatrico.

     Mirella Antonione Casale, con minore visibilità ma pari intensità etica, porta avanti una riforma pedagogica che guarda alla persona prima del suo “deficit”, e si oppone radicalmente alla medicalizzazione dell’educazione. Dove il sistema vedeva devianza o ritardo, Casale scorgeva potenzialità da liberare, differenze da valorizzare.

    Da qui l’abolizione delle classi speciali, la valorizzazione della didattica individualizzata, l’introduzione dei docenti di sostegno, prima ancora che si parlasse di “inclusione” come parola chiave.

    L’eredità invisibile ma decisiva

    Oggi chi entra in un’aula con un PDP o un PEI, chi affronta un esame universitario con il tempo aggiuntivo, chi riceve materiali personalizzati, sta camminando lungo il sentiero aperto da Mirella Antonione Casale.

    La sua pedagogia dell’inclusione ha saputo ricucire le lacerazioni della scuola selettiva, restituendo alla didattica il suo compito più alto: accogliere, comprendere, valorizzare. E in un’epoca che ancora fatica a coniugare giustizia ed equità, la sua figura andrebbe riscoperta, studiata, onorata. Non solo nei testi, ma nella pratica quotidiana di ogni aula.

    In un tempo in cui si rischia di dimenticare la radice delle conquiste civili, è doveroso ricordare che dietro ogni diritto c’è un pensiero, una lotta, una visione.

  • Il senso di colpa: radici psichiche e vie di liberazione

    Il senso di colpa: radici psichiche e vie di liberazione

    Il peso invisibile della colpa

    Il senso di colpa è un’emozione secondaria, complessa e culturalmente modellata, che emerge quando percepiamo di aver violato una norma morale o relazionale significativa. Non si tratta soltanto di un sentimento passeggero, ma di una risposta psichica profonda, che può strutturarsi in forme nevrotiche o persino psicotiche, compromettendo il benessere dell’individuo.

    La psicoanalisi freudiana ne ha fatto uno dei cardini della nevrosi: secondo Freud, la colpa nasce dal conflitto tra Es e Super-Io, tra pulsioni istintuali e istanze morali interiorizzate. Ma anche nella psicologia umanistica di Carl Rogers, essa viene vista come il risultato di uno scarto tra il sé reale e il sé ideale, generando una tensione esistenziale che può cronicizzarsi.

    Quando nasce e cosa genera

    Il senso di colpa può emergere in molteplici situazioni: dopo un’azione trasgressiva, un’omissione, o anche solo per pensieri giudicati inappropriati. In ambito clinico, però, la colpa non sempre è legata a fatti oggettivi: spesso si radica in vissuti precoci, legati a dinamiche familiari disfunzionali. I bambini iper-responsabilizzati, ad esempio, tendono da adulti a sentirsi colpevoli per tutto ciò che non controllano.

    Effetti sulla psiche e sul corpo:

    • Disturbi d’ansia e dell’umore
    • Somatizzazioni (gastralgie, cefalee, insonnia)
    • Bassa autostima e auto-svalutazione
    • Tendenza all’auto-punizione e all’autosabotaggio

    Le forme patologiche della colpa

    In ambito psicopatologico, si parla di colpa depressiva e colpa persecutoria. La prima si lega al rimorso e all’autocritica eccessiva, tipica del disturbo depressivo maggiore. La seconda, invece, emerge in contesti psicotici o nei disturbi di personalità borderline, con vissuti paranoidi, proiezioni e angosce di punizione.

    Inoltre, secondo Heinz Kohut, nella sua prospettiva psicodinamica, esistono colpe narcisistiche, legate alla ferita dell’ideale del sé, e colpe relazionali, legate all’aver deluso figure significative.

    È possibile liberarsene?

    Superare il senso di colpa non significa annullarlo, ma integrarlo. Come afferma la psicoterapeuta e ricercatrice Brené Brown, «la colpa può essere uno strumento evolutivo se la trasformiamo in responsabilità». In questo senso, il lavoro terapeutico è fondamentale:

    Strategie cliniche:

    • Psicoterapia cognitivo-comportamentale: decostruzione dei pensieri disfunzionali legati alla colpa
    • EMDR: rielaborazione di traumi legati a episodi generativi del senso di colpa
    • Terapia psicodinamica: ricostruzione delle dinamiche interiori e familiari che alimentano la colpa

    Accanto a queste, pratiche come la mindfulness, training autogeno, la scrittura terapeutica e i percorsi di auto-compassione (Neff, 2003) aiutano ad accogliere le emozioni senza giudizio, favorendo un’autonarrazione più sana.

  • Figure bistabili e ambiguità digitale

    Figure bistabili e ambiguità digitale

    Le figure bistabili, note sin dal XIX secolo (Necker, 1832; Jastrow, 1899), rappresentano una frontiera iconica della psicologia percettiva. Tali immagini ambigue consentono due o più letture incompatibili, pur coesistendo nello stesso stimolo visivo. Il soggetto non è in grado di mantenerle simultaneamente: l’alternanza è inevitabile e spesso involontaria. Questo fenomeno è una potente metafora epistemologica della crisi interpretativa del nostro tempo.

    Nell’epoca dell’infobesità digitale, le figure bistabili non sono più solo strumenti di studio neurocognitivo, ma simboli semiotici di una comunicazione disgregata, dove ogni segno slitta di significato in base al frame algoritmico, alla bolla sociale, al bias di conferma.

    La percezione tra realtà e costruzione

    Secondo la neurofenomenologia contemporanea, la percezione non riflette la realtà in modo passivo, ma la costruisce attivamente. Le fluttuazioni nella lettura di una figura bistabile sono prodotte da oscillazioni neuronali spontanee(Sterzer et al., Nat Rev Neurosci, 2009), ma anche da influenze top-down: esperienze, aspettative, contesto culturale.

    Analogamente, nella sfera comunicativa odierna, non esiste più un codice stabile di riferimento: ogni messaggio – testo, immagine o video – si presta a una pluralità di interpretazioni che scivolano da un significato all’altro in base al pubblico, alla piattaforma, al momento storico.

    Social media e crisi dell’ermeneutica

    Il crollo delle chiavi ermeneutiche è una delle grandi emergenze del presente. In una cultura visiva iperaccelerata, l’utente medio non possiede più gli strumenti cognitivi e semiotici per decifrare in modo critico i contenuti. I social network fungono così da catalizzatori di percezione bistabile: si passa in pochi istanti dalla commozione alla polarizzazione, dalla verità alla disinformazione, dalla testimonianza autentica alla manipolazione algoritmica.

    Il frame digitale funziona come una “camera di risonanza percettiva”: ciò che vedo è ciò che mi è stato anticipato, suggerito, preformattato da modelli predittivi (bias dell’aspettativa) e da feedback di gruppo (bias del consenso).

    Bias cognitivi nella lettura digitale

    Le figure bistabili offrono un modello per comprendere i principali bias cognitivi che strutturano l’esperienza nei social:

    • Bias della salienza: l’interpretazione prevale su base emozionale e visiva, non razionale.
    • Bias di conferma: si privilegiano contenuti che rinforzano le proprie convinzioni.
    • Bias dell’ambiguità: in assenza di significato univoco, la mente si rifugia in scorciatoie cognitive.
    • Bias dell’euristica della disponibilità: ciò che è immediatamente accessibile o frequente diventa “vero”.

    La disintegrazione del significato

    La comunicazione digitale odierna si muove, come le figure bistabili, in una zona di interstizio semantico, in cui l’ambiguità è programmata e dove ogni messaggio può essere rovesciato nel suo opposto. Questa disintegrazione del significato non è una semplice fragilità cognitiva, ma una crisi antropologica: l’uomo contemporaneo assiste impotente alla dissoluzione delle categorie interpretative con cui decifrava il mondo.

    Come notava Paul Virilio, la velocità dell’informazione genera una “cecità della trasparenza”. In questo contesto, la figura bistabile diviene emblema della fragilità della verità nell’era postmediatica.

    Per una nuova ecologia della percezione

    Riapprendere a vedere – nel senso ermeneutico e neuropsicologico – è una sfida educativa e culturale. Occorre formare individui in grado di:

    • Riconoscere l’ambiguità come dato e non come fallimento.
    • Sospendere il giudizio dinanzi alla complessità del segno.
    • Riscoprire lenti interpretative non binarie, capaci di contenere la polisemia dell’esperienza digitale.

    Le figure bistabili, da semplice illusione ottica, si rivelano dunque strumenti pedagogici e clinici, utili per rieducare l’occhio e la mente a una percezione più integrata, meno reattiva, più critica.

  • Infanzia e memoria: la scienza del ricordo nei primi anni di vita

    Infanzia e memoria: la scienza del ricordo nei primi anni di vita

    La memoria dell’infanzia rappresenta uno degli enigmi più affascinanti della neuropsicologia dello sviluppo. Nonostante l’infanzia sia il periodo più ricco in termini di acquisizione di competenze fondamentali, come il linguaggio e la socialità, i ricordi autobiografici dei primi anni di vita sono frammentari, se non del tutto assenti. Questa lacuna è nota come amnesia infantile, un termine coniato da Sigmund Freud nel 1899, ma oggi corroborato da solide evidenze neuroscientifiche.

    A che età iniziamo a ricordare?

    Studi longitudinali hanno dimostrato che i primi ricordi autobiografici coscienti si collocano, nella maggior parte dei soggetti, tra i 3 e i 4 anni di età. Tuttavia, come evidenziato da Bauer e Larkina (2016), la stabilità e l’accuratezza di questi ricordi sono soggette a una forte erosione nel tempo, e solo alcuni eventi specifici sopravvivono alla ristrutturazione mnestica dell’età adulta.

    Il motivo principale risiede nello sviluppo neurologico: l’ippocampo, struttura centrale per la formazione della memoria episodica, non è pienamente funzionale nei primi anni di vita. Solo a partire dal terzo anno si registra una sufficiente integrazione tra ippocampo e corteccia prefrontale, condizione necessaria per la codifica e il recupero di esperienze autobiografiche complesse (Nelson, 1995; Bauer, 2007).

    Perché ricordiamo di più gli eventi traumatici?

    In netto contrasto con l’amnesia infantile, molti soggetti riportano ricordi vividi e dettagliati di eventi traumatici occorsi in tenera età. Questa apparente contraddizione è spiegata dal coinvolgimento della amigdala, struttura limbica deputata all’elaborazione delle emozioni, che matura prima dell’ippocampo e che mostra un’attività accentuata in situazioni di pericolo, paura o stress.

    La codifica mnestica degli eventi traumatici è infatti potenziata dall’attivazione del sistema noradrenergico e cortico-surrenalico, che rinforza l’immagazzinamento delle informazioni emotivamente salienti. Come evidenziato dallo studio di McGaugh (2004), gli ormoni dello stress (ad esempio il cortisolo) modulano positivamente la memoria emotiva, rendendo gli eventi traumatici resistenti all’oblio.

    Un classico esempio è rappresentato dai bambini che hanno subito incidenti o esperienze di ospedalizzazione precoce: molti di essi, pur non ricordando eventi quotidiani coevi, riportano immagini nitide, talvolta intrusive, legate al trauma. Uno studio condotto da Goodman et al. (1997) dimostra che bambini di 3-4 anni che avevano subito un intervento chirurgico conservavano ricordi specifici anche mesi dopo l’evento, in maniera significativamente superiore rispetto a eventi neutri.

    Trauma precoce e memoria implicita: quando il corpo ricorda prima della mente

    La memoria degli eventi traumatici che avvengono nei primi anni di vita assume una forma diversa dalla memoria episodica classica. Si parla in questo caso di memoria implicita o procedurale, che si inscrive nei circuiti subcorticali e somatosensoriali prima ancora che il linguaggio o la coscienza narrativa possano intervenire.

    Secondo le teorie di Allan Schore e della psicoanalisi neurobiologica, i traumi relazionali precoci – come trascuratezza, mancanza di sintonizzazione affettiva, o esperienze invasive – si depositano nella struttura del Sé attraverso vie neuroaffettive non verbali. La corteccia orbitofrontale, in dialogo precoce con l’amigdala e il sistema limbico, diventa l’archivio di questa “memoria senza parole”.

    La conseguenza clinica è rilevante: molti adulti portano nel corpo tracce mnestiche di traumi infantili senza poterne avere un ricordo cosciente, ma manifestando sintomi psicosomatici, disregolazione affettiva, disturbi dissociativi o forme croniche di ansia. Il corpo, come suggerisce Van der Kolk (2014), “tiene il conto” (The Body Keeps the Score).

    Memoria, linguaggio e narrazione: una triade evolutiva

    Un altro fattore chiave nel consolidamento della memoria infantile è il linguaggio narrativo. La possibilità di verbalizzare gli eventi li rende più accessibili al recupero cosciente. Questo spiega perché bambini cresciuti in ambienti comunicativamente stimolanti sviluppano una maggiore capacità di ricordare esperienze passate. Le narrazioni genitoriali svolgono un ruolo cruciale nel dare forma e coerenza ai ricordi, trasformandoli da semplici sensazioni in veri e propri episodi autobiografici (Fivush et al., 2006).

    Eredità invisibili: la memoria transgenerazionale del trauma

    Un’ulteriore espansione della comprensione mnestica in psicologia dello sviluppo riguarda la trasmissione transgenerazionale del trauma. Studi epigenetici dimostrano che l’esposizione a eventi traumatici gravi (es. guerre, carestie, deportazioni) può lasciare tracce misurabili nel corredo biologico delle generazioni successive. Un famoso studio pubblicato su Biological Psychiatry (Yehuda et al., 2016) ha evidenziato alterazioni nei livelli di cortisolo nei figli di sopravvissuti all’Olocausto, suggerendo una trasmissione epigenetica dello stress traumatico.

    Ma non si tratta solo di geni. La trasmissione avviene anche attraverso il linguaggio emotivo, le narrazioni familiari, le omissioni e i silenzi, che costruiscono nei discendenti un paesaggio psichico intriso di significati traumatici mai pienamente esperiti, ma profondamente incorporati. La “memoria assente”, per citare Marianne Hirsch, agisce come postmemoria: un’eredità psichica ricevuta senza esperienza diretta.

    Clinica del ricordo: verso una rielaborazione trasformativa

    Nel trattamento psicoterapeutico, la ricostruzione di questi frammenti mnestici – impliciti, somatici o transgenerazionali – richiede tecniche non puramente cognitive. Approcci come la terapia sensomotoria (Ogden), l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), e la psicoterapia relazionale integrata consentono al soggetto di dare forma e significato a ciò che non è stato mai nominato, ma che permane come traccia silente.

    Nel lavoro clinico con bambini e adolescenti, è fondamentale favorire l’integrazione narrativa precoce: aiutare il minore a nominare le emozioni, a costruire un senso di continuità tra ciò che sente e ciò che pensa. Solo così la memoria traumatica può essere trasmutata da sintomo a consapevolezza.

    Conclusione: la memoria infantile non è assente, ma diversa
    La nostra mente non registra i primi anni di vita come una videocamera oggettiva, ma come un sistema selettivo, emotivamente modulato e strutturalmente incompleto. Ricordiamo ciò che ha attivato in profondità i nostri circuiti neurali, ciò che ci ha segnato. In questa prospettiva, l’infanzia non è un vuoto mnestico, ma una zona opaca della coscienza, dove il corpo e le emozioni ricordano anche quando le parole non bastano.

  • La frustrazione come via maestra alla maturazione

    La frustrazione come via maestra alla maturazione

    Il paradosso generativo della frustrazione

    Nel pensiero psicodinamico classico e contemporaneo, la frustrazione non è solo tollerabile: è necessaria. Essa si configura come un passaggio liminale, un confine da oltrepassare per accedere a una dimensione superiore di integrazione psichica. Non sorprende, infatti, che Wilfred Bion parlasse della capacità negativa – la capacità, cioè, di sostare nell’incertezza e nella mancanza – come uno degli elementi costitutivi dell’apparato mentale maturo.

    Nel soggetto adolescente, la frustrazione giunge con veemenza: l’inadeguatezza percepita, il desiderio inappagato, il rifiuto sociale o affettivo si configurano come ostacoli apparentemente insormontabili. Eppure è proprio attraverso il confronto con tali limiti che il giovane può trasformare l’esperienza vissuta in elaborazione simbolica, costituendo i primi nuclei di un’identità solida e capace di resilienza.

    Adolescenza: l’età del disincanto e della ristrutturazione psichica

    Secondo Erik Erikson, l’adolescenza è la fase dello sviluppo in cui si gioca la crisi dell’identità versus la diffusione dell’identità. È il tempo in cui l’Io si confronta con la necessità di unificare sé stesso, scegliendo cosa abbandonare dell’infanzia e cosa assumere del mondo adulto. Tale operazione non può avvenire senza frustrazione.

    La psicoanalista Nancy McWilliams osserva che la frustrazione permette lo sviluppo della capacità di mentalizzazione e di tolleranza alle ambivalenze, rendendo l’individuo meno reattivo e più riflessivo. In altre parole, la frustrazione educa all’attesa, raffina il desiderio, sottrae l’essere umano alla tirannia dell’impulso.

    Frustrazione e neuroplasticità: il cervello che apprende il limite

    La ricerca neuroscientifica ha confermato quanto la psicologia clinica aveva intuito: le esperienze emotivamente difficili – come quelle frustranti – attivano meccanismi neuroplastici fondamentali. Studi condotti presso il Department of Brain and Cognitive Sciences del MIT (Miller & Cohen, 2001) hanno evidenziato il ruolo della corteccia prefrontale nello sviluppo della regolazione emotiva, particolarmente sensibile all’esperienza dell’impedimento.

    In adolescenza, la maturazione sinaptica del lobo frontale è ancora in corso, il che rende più difficile la gestione della frustrazione, ma anche più feconda la sua interiorizzazione. È attraverso l’esposizione reiterata a situazioni di limite, infatti, che si rinforzano i circuiti deputati alla inibizione comportamentale, al discernimento e alla costruzione del Sé riflessivo.

    L’arte della gestione: contenere, non rimuovere

    La cultura contemporanea tende a medicalizzare o a evitare la frustrazione, come se si trattasse di un virus da cui immunizzarsi. In ambito educativo, questo ha generato la figura dell’adulto “salvifico”, che interviene per appianare ogni ostacolo nel cammino dell’adolescente, impedendogli di strutturare tolleranza alla delusione.

    La frustrazione, invece, va contenuta, non soppressa. È nella funzione di “holding”, come l’avrebbe definita Winnicott, che l’adulto diventa matrice trasformativa: non si tratta di evitare il dolore dell’esperienza frustrante, ma di restituirgli senso attraverso la parola, l’ascolto, la simbolizzazione.

    Frustrazione e generatività: l’energia trasformativa del limite

    La frustrazione è il terreno fertile della creatività. Mihaly Csikszentmihalyi, nei suoi studi sulla creatività, dimostra che le menti più prolifiche sono spesso quelle che hanno saputo sublimare la frustrazione in immaginazione, in progettualità. Laddove il bisogno non trova soddisfazione immediata, il soggetto può trovare una via di compensazione che si fa crescita.

    In adolescenza ciò si traduce in arte, sport, riflessione, ribellione positiva. Quando ben orientata, la frustrazione diventa impulso vitale, forza dionisiaca che genera forma, coscienza, senso.

    Conclusione: una pedagogia del limite

    Educare alla frustrazione significa insegnare ad abitare la soglia, ad accogliere il vuoto come preludio alla nascita di nuove configurazioni identitarie. “Dove c’è mancanza, può nascere il desiderio”, dice Recalcati. Ma dove tutto è soddisfatto, il desiderio si atrofizza, si spegne nella bulimia dell’onnipotenza.

    L’adolescente che ha imparato a stare nella frustrazione non è un giovane rassegnato, ma un soggetto in grado di differire il bisogno, di sopportare la tensione emotiva, di darsi un orizzonte. In altri termini, un essere umano che sa crescere.


  • Eugenio Borgna – L’ ora che non ha più sorelle

    Eugenio Borgna – L’ ora che non ha più sorelle

    Eugenio Borgna, in L’ora che non ha più sorelle, si muove con il passo assorto e reverente del pellegrino dell’interiorità umana, nel territorio più silenzioso e struggente della psichiatria: il suicidio, declinato nella sua dimensione femminile. Non una trattazione tecnico-scientifica, ma una sinfonia di voci spezzate, una meditazione etica ed esistenziale che, attraversando la letteratura, la mistica e la clinica, si fa ascolto radicale del dolore invisibile.

    La lingua della fragilità

    Borgna non scrive con gli strumenti della psichiatria oggettivante, ma con l’inchiostro dell’empatia fenomenologica. Egli rifiuta l’arroganza del sapere normativo e invita il lettore a contemplare le lacerazioni silenti che abitano l’anima femminile: la solitudine, il senso di abbandono, la mancanza di risonanza emotiva nel mondo. Il suicidio, in questa prospettiva, non è atto patologico, ma grido afasico, ultimo gesto di una comunicazione mancata, l’eco estremo di un mondo interiore che non ha trovato ascolto.

    Una clinica poetica

    Nei testi di Borgna, il confine tra psichiatria e poesia si dissolve: le sue riflessioni sono attraversate da voci femminili – Sylvia Plath, Virginia Woolf, Antonia Pozzi – che diventano paradigmi dell’”insofferenza all’insensibilità del reale”, come scrisse Maria Zambrano. La donna suicida, per Borgna, è spesso colei che ha vissuto con un’intensità talmente bruciante da non reggere l’opacità del mondo. Non follia, dunque, ma ipertrofia del sentire, spiritualità senza dimora, estetica dell’assenza.

    La medicina dell’ascolto

    Il messaggio più potente del volume è il monito etico a una medicina che sappia nuovamente farsi ascolto. Borgna invoca una psichiatria non ridotta a classificazione, ma capace di accogliere l’irriducibile singolarità della sofferenza. In un’epoca anestetizzata e iperproduttiva, il suicidio femminile è uno specchio impietoso: mostra le crepe di una società che ha smarrito il senso del consolare, dell’accompagnare, del rimanere.