“Gli sdraiati”: critica alla gioventù o incomprensione generazionale?

Michele Serra, con Gli sdraiati, compone un monologo interiore che si fa affresco generazionale, un lamento paterno che rasenta il soliloquio dostoevskiano, un’analisi pungente e disillusa della distanza siderale tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti. Ma, in questo tentativo di comprendere e, forse, redimere la gioventù mollemente adagiata sul divano dell’apatia contemporanea, il testo si avviluppa in una narrazione che, sebbene affilata e ironica, rischia di scivolare nel moralismo e in un’epica nostalgica che ha il sapore del rimpianto anziché della comprensione.

Serra scrive con la penna acuminata del giornalista di lungo corso, con la sensibilità del polemista raffinato e con il guizzo dello scrittore che sa mescolare lirismo e sarcasmo. Tuttavia, il suo ritratto della giovinezza contemporanea si appiattisce su un’immagine quasi caricaturale: i giovani come “sdraiati”, pigri, disinteressati, avulsi dalla realtà e ripiegati in un solipsismo tecnologico, incapaci di reggere lo sguardo del mondo se non attraverso lo schermo di uno smartphone.

Eppure, questa rappresentazione sembra incagliarsi in una dicotomia semplicistica: il padre moralizzatore e il figlio svogliato, l’ordine e il caos, la cultura e il nulla. Se l’ironia, in alcuni passaggi, riesce a illuminare con lampi fulminei l’incomprensione tra le generazioni, in altri rischia di diventare un’invettiva monocorde, una lamentazione che rimane prigioniera del proprio disincanto. L’assenza di un vero dialogo tra padre e figlio – dove il primo monologa e il secondo resta sullo sfondo come un’ombra sfocata – non fa che amplificare questa sensazione di unidirezionalità narrativa.

Ma i giovani di Serra sono davvero “sdraiati” nel senso di inerti? O piuttosto si muovono lungo traiettorie che sfuggono alla comprensione di chi li osserva con lo sguardo rivolto all’indietro? L’autore pare dimenticare che il suo stesso sguardo adulto è inevitabilmente condizionato da una nostalgia di tempi andati, da un’idealizzazione dell’adolescenza vissuta senza tecnologia, fatta di corse in bicicletta e gesti eroici che oggi sembrano mancare.

Eppure, le nuove generazioni si muovono, eccome: esplorano, si informano, creano, reinventano modi di pensare e di esistere che non possono essere misurati con il metro delle generazioni precedenti. L’idea che il loro rapporto con il digitale sia solo una forma di estraniazione dalla realtà è una lettura parziale: il mondo virtuale è oggi parte del reale, è un’estensione dell’identità, un terreno di sperimentazione esistenziale e culturale che non può essere liquidato con un’alzata di spalle.

A distanza di anni dalla pubblicazione di Gli sdraiati, il mondo è cambiato in modi che lo stesso Serra forse non avrebbe potuto prevedere. I giovani di oggi sono sopravvissuti a pandemie, crisi economiche, mutamenti climatici e guerre digitali di narrazione. Sono cresciuti in un contesto di insicurezza e trasformazione, in cui il concetto stesso di stabilità – lavorativa, affettiva, sociale – è stato eroso dalle sabbie mobili della post-modernità. Se prima potevano sembrare sdraiati, oggi molti di loro si rivelano resilienti, iperconnessi ma consapevoli, critici, attenti alle questioni globali, protagonisti di movimenti che scuotono le coscienze.

Il rischio di un libro come Gli sdraiati è, quindi, quello di rimanere ancorato a una visione statica della gioventù, a un paradigma interpretativo che non coglie il movimento profondo che si agita sotto la superficie. La generazione Z e quella che verrà dopo di essa non sono semplicemente distese su un divano: stanno scrivendo la propria storia con un alfabeto nuovo, e il vero compito di un osservatore acuto sarebbe quello di tentare di decifrarlo senza pregiudizi.

Michele Serra, con la sua prosa raffinata e la sua vena ironica, ha il merito di portare a galla un disagio generazionale che esiste e persiste. Tuttavia, il limite del suo sguardo è quello di trasformare questo disagio in un’immagine immobile, un’istantanea in bianco e nero di un mondo che, invece, si colora di infinite sfumature. Forse il vero dialogo tra generazioni non si gioca nella nostalgia né nel rimprovero, ma nella capacità di ascoltare con mente aperta, di accettare la diversità dei percorsi, di riconoscere che ogni epoca ha i suoi sdraiati e i suoi inquieti esploratori.