In un’epoca in cui la verità del corpo sembra prevalere su quella della parola, la Sindrome di Mounchausen rappresenta uno dei più enigmatici paradossi della psiche umana: un corpo che mente, ma lo fa per dire una verità più profonda.
Dietro la messa in scena della malattia si cela un drammatico bisogno di riconoscimento, un desiderio disperato di essere visti, accolti, curati.

Un nome nato dalla menzogna
Il termine fu coniato nel 1951 dal medico inglese Richard Asher, che paragonò i suoi pazienti al barone tedesco Karl Friedrich von Münchhausen, celebre per i suoi racconti fantastici e incredibili.
In psichiatria, il nome divenne così sinonimo di un comportamento patologico in cui l’individuo finge o induce sintomi fisici o psichici, ricercando attenzione e cura, ma senza alcun vantaggio materiale: non si tratta di simulazione per interesse, bensì di una messinscena esistenziale.
Il desiderio di essere curati
Nel DSM-5 la sindrome è classificata come Disturbo Fittizio Imposto a Sé Stesso (Factitious Disorder Imposed on Self).
L’individuo può arrivare a procurarsi ferite, manomettere esami clinici o provocare infezioni, pur di confermare la propria condizione di malato.
Il comportamento è deliberato, ma non razionalmente motivato: l’atto patologico non mira al guadagno, bensì alla ricerca di attenzione e compassione, al bisogno profondo di essere “qualcuno” nel dolore.
Molti pazienti, paradossalmente, conoscono a fondo il linguaggio medico, muovendosi con disinvoltura tra reparti e specialisti, in una sorta di “pellegrinaggio ospedaliero” alla ricerca del medico perfetto che sappia finalmente riconoscere la loro sofferenza invisibile.
Una regia inconscia del dolore
La mente mette in scena ciò che la parola non riesce a dire.
Numerosi studi psicoanalitici e clinici (p.es. Yates & Feldman, General Hospital Psychiatry, 2016; Bass & Halligan, The Lancet, 2014) evidenziano una correlazione tra la sindrome e storie infantili di abbandono, abusi o trascuratezza emotiva.
Spesso si tratta di individui cresciuti in contesti in cui la malattia era l’unico modo per ottenere affetto, dove l’attenzione genitoriale passava attraverso il sintomo.
La finzione del corpo diventa così una forma di autoaffermazione affettiva: il soggetto non vuole tanto ingannare, quanto essere creduto.
L’inganno, in questo caso, è un linguaggio alternativo alla disperazione, un tentativo di dare forma al dolore dell’anima attraverso il linguaggio dei sintomi.
La variante per procura: quando il male viene imposto all’altro
Una forma particolarmente drammatica è la Sindrome di Mounchausen per procura (Factitious Disorder Imposed on Another), nella quale il soggetto — spesso un genitore, in prevalenza la madre — induce o simula malattie nel proprio figlio per assumere il ruolo di “genitore devoto”.
Questa condotta, oggi riconosciuta come abuso infantile grave, può includere somministrazione di sostanze, manomissione di farmaci o alterazione di referti medici.
Nei casi più estremi, il bambino può subire danni irreversibili o la morte.
Studi clinici recenti (Feldman, Journal of the American Academy of Psychiatry and the Law, 2018) mostrano come questa forma patologica emerga spesso in personalità con tratti narcisistici e borderline, incapaci di tollerare la frustrazione affettiva o la perdita di centralità.
Diagnosi complessa, verità parziale
Riconoscere la Sindrome di Mounchausen è una delle sfide più complesse della clinica psichiatrica contemporanea.
Il soggetto tende a negare le proprie manipolazioni, a spostarsi di struttura in struttura, a costruire narrazioni coerenti ma infondate.
La diagnosi richiede un’analisi multidisciplinare — psichiatrica, psicologica e medica — e un approccio relazionale estremamente cauto, capace di evitare lo scontro frontale che alimenterebbe il circolo vizioso della finzione.
La chiave terapeutica risiede in una relazione empatica e non giudicante, che offra al paziente una forma di riconoscimento non mediata dal sintomo.
In alcuni casi la psicoterapia psicodinamica o cognitivo-comportamentale può permettere di costruire un nuovo linguaggio del Sé, non più corporeo ma simbolico.
Il corpo come teatro del Sé
Sul piano antropologico, la Sindrome di Mounchausen mette in luce la crisi contemporanea del rapporto tra corpo e identità.
Viviamo in una cultura che medicalizza l’esistenza e che riconosce il dolore solo se misurabile, visibile, certificabile.
Così, chi non riesce a far riconoscere la propria sofferenza attraverso la parola finisce per scriverla sul corpo.
Come scrive il filosofo e psicanalista Paul Ricoeur, “il corpo è il primo testimone della nostra verità interiore”.
Nel caso di Mounchausen, questo testimone mente — ma lo fa per dire qualcosa di autentico: la necessità disperata di essere amati.
Una verità nella menzogna
Alla fine, ciò che appare come inganno è spesso una forma estrema di richiesta d’aiuto.
Il sintomo non è mai una bugia in senso morale, ma un tentativo fallito di comunicare.
Il compito del clinico è decifrare questo linguaggio, restituendo al paziente la possibilità di esistere senza dover “ammalarsi per essere”.

